giovedì 31 luglio 2008

Per via



Ripenso a quando, parecchi anni fa, partii - era d'estate - per la mia prima lunga gita, nella quale rammento di aver visto una quantità di cose straordinarie e belle. Il mio equipaggiamento consisteva in un modesto abito chiaro che avevo addosso, in un cappello blu scuro che avevo in testa e in un fagotto da viaggio che tenevo in mano. Cuciti nella tasca del panciotto, in forma di un nitido assegno bancario, portavo con me i miei risparmi verso il vasto mondo fresco e luminoso. Da un gruppo di baldi giovanotti che incontrai per la strada, uno mi gridò dietro beffardo: "Dove va quel perticone col suo sacchetto?".
Alludeva al mio misero, assurdo fagottello da viaggio, che allo stesso suo portatore e proprietario faceva un effetto un po' ridicolo. Ma io, senza curarmi di quelle beffe che non potevano avere grande importanza, proseguii allegro, e mi pareva, così camminando, che tutto il mondo rotondo avanzasse leggero con me. Ogni cosa sembrava viaggiare col viandante: prati, campi, boschi, colture, montagne, e perfino la stessa strada maestra.
Mi sentivo l'animo divinamente libero e il cuore lieto. Continuavo ad andare avanti di buona lena, passavo tranquillo eppure spedito accanto a ogni sorta di gente che di tanto in tanto salutava con simpatia quel giovane e spensierato viaggiatore, quel goliardo vagabondo; e ciò mi obbligava a mostrarmi altrettanto gentile. Una cortesia non ne attira sempre un'altra?

Robert Walser, Vita di poeta, Adelphi, Milano, 1985.

martedì 29 luglio 2008

Stanze



Stasera ti guardo di sbieco, ti volto
la schiena, ti vedo arrabbiata e serena.
Serena per la litigata, per il torto
sùbito, per il cieco furore intercorso;
per il morso che m'avresti donato
per il vaffa che mi hai rigettato
sul mio vaffa in reciproco scambio
di cortesie coniugali.
Le stanze servono a questo:
a scansarci, a driblarci, a odiarci
per pochi minuti d'intenso furore.
La porta socchiusa mi dice soltanto
che dentro il leone avrebbe ancor fame
di mordere. Oh se cadessero le pareti
e una nuova savana avanzasse
e ritornassimo australopitechi
per camminare scalzi su tiepide ceneri - mano
nella mano. Ma riavvolgere il nastro non si può:
si va avanti, alla cieca, ci guarderemo
sempre di sbieco, per un po'.

lunedì 28 luglio 2008

Lo scienziato ha paura



Di fronte allo Stato l'uomo di scienza è oggi inerme, naturalmente sottomesso. Nella storia della scienza moderna non sono segnalati atti eroici. Si confronti Galileo con Bruno, di fronte al pericolo. Già Leonardo serviva i principi, con le sue macchine belliche. Lo scienziato spesso pretende di vivere per la conoscenza. La realtà è più modesta, si tratta della ricerca di un cantuccio in cui sentirsi sicuri, di un atteggiamento difensivo in un individuo di scarsa aggressività. Ormai è tardi per sperare in un rovesciamento delle cose. Agli scienziati moderni non è ancora venuto in mente ciò che era ovvio per gli antichi: che bisogna tacere le conoscenze destinate ai pochi, che le formule e le formulazioni astratte pericolose, capaci di sviluppi fatali, nefaste nelle loro applicazioni, devono essere valutate in anticipo e in tutta la loro portata da chi le ha ritrovate, e di conseguenza devono essere gelosamente nascoste, sottratte alla pubblicità. La scienza greca non raggiunse un grande sviluppo tecnologico perché non volle raggiungerlo. Tacendo, la scienza fa paura allo Stato, e ne è rispettata. Lo Stato può vivere, combattere, potenziarsi solo con i mezzi offertigli dalla cultura: esso lo sa perfettamente. Il capo-tribù dipende visceralmente dallo stregone.

Giorgio Colli, Dopo Nietzsche, Adelphi, Milano, 1974, pag. 55

Che stregoni questi bloggers



Non sono e non sarò frequentatore di innumerevoli blog. Ne visiono con costanza una dozzina (vedi a lato) per non perdermi nel mare magno della rete. Tra questi ve ne sono alcuni la cui lettura (pressoché quotidiana) m'è diventata necessaria. Ciò che apprezzo maggiormente di tali blog è la loro gratuità. Il fatto che i blogger scrivano primariamente per se stessi è il segno della loro autonomia; e ciò facendo offrono notevoli spunti riflessivi a me lettore che cerca di salvarsi dal flusso imponente dell'Informazione.

Siamo inondati d'informazione, come l'apprendista stregone. Pure, lo stregone non ci ha lasciato altro che una scopa. L'informazione è diventata una specie di spazzatura, incapace non solo di dare una risposta ai problemi umani fondamentali, ma anche di impostare in modo coerente la soluzione di problemi anche materiali. In altri termini, l'ambiente in cui prospera il tecnopolio è un ambiente in cui si è spezzato il legame tra informazione e finalità umana: l'informazione è totalmente indiscriminata, non è diretta ad alcuno in particolare, è quanto mai voluminosa e veloce e non ha alcun rapporto con qualsiasi teoria, significato od obiettivo... Siamo una cultura che si autoconsuma con l'informazione, e molti di noi non si chiedono nemmeno come si possa controllare il processo. Andiamo avanti convinti che l'informazione sia nostra amica, che le culture possano subire un danno gravissimo dalla mancanza d'informazione; e infatti così è. Solo ora si sta cominciando a capire che le culture possono subire un danno gravissimo anche dall'eccesso d'informazione, da una informazione priva di senso e di meccanismi di controllo (1)

Questa è la ragione principale per cui ho smesso di comprare qualsivoglia quotidiano o di guardare, con attenzione, qualsivoglia telegiornale (italiano). Questa è la ragione principale per cui mi basta la rete, mi bastano pochi blog ma buoni, così come pochi libri, anch'essi buoni.

(1). Neil Postman, Technopoly. La resa della cultura alla tecnologia. Bollati Boringhieri, Torino, 1993, pagg. 68-69

sabato 26 luglio 2008

Un capolinea chiamato origine



Nell'evoluzione della specie e delle credenze, il nostro Dio unico è tra gli ultimi arrivati. Come spiegare il fatto che il Creatore sia così in ritardo rispetto alla sua creazione? E che la Genesi, il Libro degli inizi, sia stata aggiunta al patchwork sacro solo verso la fine? Il fatto è che il monoteismo, un politeismo che si è decantato lentamente, è un risultato, non un punto di partenza. Condizionato dal medium, l'Eterno non ha potuto andare più in fretta della storia dei nostri sistemi di consegna e di locomozione - e la musica delle civiltà comincia con un ritmo lento. Per riguadagnare il tempo perduto, Dio ha dovuto retrodatare il proprio certificato di nascita. Noi abbiamo pertanto proiettato retrospettivamente la sua pura essenza, che si è venuta codificando più tardi di quanto non si creda, agli inizi della storia. Niente di strano. In un punto qualsiasi di quel processo, ciò che battezziamo con il termine "origine" non è di solito che il suo esisto conclusivo.

Régis Debray, Dio, un itinerario. Per una storia dell'Eterno in Occidente, Raffaele Cortina Editore, Milano, 2002, pag. 29

venerdì 25 luglio 2008

Ma il mio argomento è questo



Ma il mio argomento è questo: nella natura non c'è niente che si possa attribuire a suo vizio; la natura è infatti sempre la stessa, e la sua virtù e potenza di agire una e medesima dappertutto; cioè le leggi e le regole della natura, secondo le quali tutte le cose divengono, e da certe forme si trasmutano in altre, sono dovunque e sempre le stesse, e perciò uno e medesimo deve anche essere il modo di intendere la natura di tutte le cose, quali che siano, ossia mediante le universali leggi e regole della natura.


Bento de Spinoza, Etica, tr. Sossio Giametta, Bollati Boringhieri, Torino, 1959 (XI ediz. 1987), Parte III, Prefazione, pag. 130

giovedì 24 luglio 2008

Sonetto del che fare e che pensare



Che fai? Che pensi? Ed a chi mai chi parla?
Chi e che cerececè d'augèl distinguo,
con che stillii di rivi il vacuo impinguo
del paese che intorno a me s'intarla?

A chi porgo, a quale ago per riattarla
quella logica ai cui fili m'estinguo,
a che e per chi di nota in nota illinguo
questo che non fu canto, eloquio, ciarla?

Che pensi tu, che mai non fosti, mai
né pur in segno, in sogno di fantasma,
sogno di segno, mah di mah, che fai?

Voci d'augei, di rii, di selve, intensi
moti del niente che sé a niente plasma,
pensier di non pensier, pensa: che pensi?

Andrea Zanzotto, Il Galateo in Bosco, Le poesie e prose scelte, Meridiani-Mondadori, Milano, 1999

mercoledì 23 luglio 2008

Conversazione platonica

PITTURA DI FELICE CASORATI, 1925


Tengo in testa il cappello. Perché, sai,
Sono un pio Ebreo e qui, davanti a me,
Mistero irradia il tuo aron-ha-qòdesh.
Ma non poterci, come il Signore Iddio, abitare
Mi dà quest'aria di malinconia.
Contemplo e basta.
Nessun punto di te si tende in un richiamo;
Spiri l'uguale di potenza arcana,
La luce forte che la caducità emana
Sapendosi ma incredula mortale.

Quante ore passate già? Quattro, davvero?
O forse sono otto? Ecco il tuo pendolo
Batte dodici, sono digiuno
Da ventiquattro, così posso guardarti
Senza l'impurità della materia:

Io d'uomo miseria pura
Davanti a te, luce cruda.

Di là in cucina sta bollendo per me
L'acqua del tè. Passerà un anno,
Un altro ancora, io bevo adagio adagio.
La notte verrà ancora. Nella bianca
Porcellana del seno, tiepido
Ristoro delle mani sfiduciate,
Lentamente sorbito sarà altra luce.

Mai più il buio entrerà dove l'Idea
Pietosa avrà umanandosi il suo volo
Fermato in una figura.

Guido Ceronetti, Scavi e segnali 1986-1992, Alberto Tallone Editore, 1992

(Questo volume, composto a mano con i tipi tratti dai punzoni incisi da William Caslon nel 1740, è stato impresso in 320 copie - firmate dall'Autore - su carta Magnani di Pescia. Licenziato dai torchi nel maggio 1992)

lunedì 21 luglio 2008

Mezza estate



IPPOLITA
Strane cose, Teseo, quelle di cui parlano questi innamorati.
TESEO
Più strane che vere. Mai sarò indotto a credere
a queste favole grottesche, a queste storielle di Fate.
Gli innamorati e i pazzi hanno i cervelli in tale ebollizione,
e tanto fervide son le loro fantasie, che concepiscono più
di quanto il freddo raziocinio mai comprenda.
Il lunatico, l'innamorato e il poeta,
sol di fantasie sono composti.
L'uno vede più demoni di quanti l'inferno ne contenga -
e questo è il pazzo. L'amante, frenetico altrettanto,
vede la beltà di Elena nel volto d'una zingara.
L'occhio del poeta, roteando in sublime delirio,
va dal cielo alla terra e dalla terra al cielo,
e mentre la fantasia produce
forme ignote, la sua penna
le incarna, ed all'etereo nulla
dà dimora e nome.
Tali artifici possiede la fervida immaginazione
che se una gioia percepisce,
sùbito concepisce qualcosa che l'arreca.
E se di notte immagina spavento,
presto un cespuglio si trasforma in orso!
IPPOLITA
Ma il racconto di tutto ciò che accadde questa notte,
e il fatto che le menti di ognun furon stravolte,
attesta qualcosa di più che fantastiche visioni,
e la cosa assume grande consistenza -
per quanto strana e prodigiosa.

William Shakespeare, Sogno d'una notte di mezza estate, tr. di Marcello Pagnini, Garzanti, Milano, 1991 (atto V, scena I)

sabato 19 luglio 2008

Ballata scritta in una clinica



Nel solco dell'emergenza:

quando si sciolse oltremonte
la folle cometa agostana
nell'aria ancora serena
- ma buio, per noi, e terrore
e crolli di altane e di ponti
su noi come Giona sepolti
nel ventre della balena -

ed io mi volsi e lo specchio
di me più non era lo stesso
perché la gola ed il petto
t'avevano chiuso di colpo
in un manichino di gesso.

Nel cavo delle tue orbite
brillavano lenti di lacrime
più spesse di questi tuoi grossi
occhiali di tartaruga
che a notte di tolgo e avvicino
alle fiale della morfina.

L'iddio taurino non era
il nostro, ma il Dio che colora
di fuoco i gigli del fosso:
Ariete invocai e la fuga
del mostro cornuto travolse
con l'ultimo orgoglio anche il cuore
schiantato dalla tua tosse.

Attendo un cenno, se è prossima
l'ora del ratto finale:
son pronto e la penitenza
s'inizia fin d'ora nel cupo
singulto di valli e dirupi
dell'altra Emergenza.

Hai messo sul comodino
il bulldog di legno, la sveglia
col fosforo sulle lancette
che spande un tenue lucore
sul tuo dormiveglia,

il nulla che basta a chi vuole
forzare la porta stretta;
e fuori, rossa, s'inasta,
si spiega sul bianco una croce.

Con te anch'io m'affaccio alla voce
che irrompe nell'alba, all'enorme
presenza dei morti; e poi l'ululo
del cane di legno è il mio, muto.

Eugenio Montale, La bufera e altro, Mondadori, Milano, 1957

Alla brunetta de' ricchieppoveri

Dico picche al piccolo portavoce,
al minimo breve, d'antipatia siderale
che se passasse nei pressi una cometa
se ne avrebbe a male e si spengerebbe.
È un rantolo, una mezzasega che garrisce
oserei dir squittisce se fosse rampicante;
e invece pontifica con quella bocca ebete
ad altezza cazzo impiegatizio: e qualsivoglia
cerniera s'incastra – e non c'è verso di dare
aria libera ai bassifondi della memoria.
Madonna quanto tu se' brutto testadicazzo mio:
e pensare che milioni t'han votato
senza voltastomaco, senza prurigine
con dimolto pelo nello stomaco, forse.
Massì, la maggioranza è merda in ognidove,
figuriamoci in Italia; ché t'aspettavi di meglio?
T'aspettavi forse un salto? T'assicuro, c'è stato:
nel vuoto. Verranno anni migliori? Mi si
rialzerà l'uccello al passare d'una moderata
che mise la croce sulla tua faccia di merda?
Insegnami, musa, a far finta che tutto questo
non sia; insegnami a star lontano da tutto questo
schifo.

mercoledì 16 luglio 2008

A me Blob non fa per nulla bene (1)



Stasera non ti mando a fanculo:
sono stanco. Sì, stanco del tuo vuoto
intollerabile, della miseria che ti porti dentro.
Miseria triste che non riesci a coprire
nemmeno con un elicottero. Tu
disturbi il mondo come un ronzìo perpetuo
di zanzare tigre sempre pronte ad azzannarti;
tu sei superfluo come uno sputo, una scena muta
che tenta invano di convincermi
che tu saresti il modello per eccellenza, la puttana
da inseguire a perdifiato. Ah, come vorrei essere
un ranno inesorabile che ti lavi via dalla mente
di milioni di rincoglioniti televisivi. Ah, come vorrei essere
la varechina che ti liquefa e poi disinfetta
tutto ciò che il guardo tuo ha toccato. Ah, come vorrei essere
lo sciacquone che ti scarichi definitivamente
via nelle cloache remote di questa serva Italia.

(1. Ma non posso fare a meno di guardarlo)

lunedì 14 luglio 2008

Que reste-t-il de nos amours ?



In un angolo a Parigi, al vertice Euromed,
mi son sentito preso nella Storia e ho perso me
stesso tra tanti Capi di Stato, pochi re.
Quando i fotografi mi hanno fermato
per catturarmi, per moltiplicarmi, ho pensato
a quanto davvero fossi importante: beato,
ho sorriso, la mia guardia del corpo ho allontanato.
Ah se qualcuno mi lanciasse un treppiedi
tra capo e collo farei proprio una bella figura, non credi,
visto che oggi recito una parte da attore non protagonista.
Ma qui non c'è nessuno sporco comunista
nascosto tra italici portici; il sole è alto, la strada è sgombra.
Sorrido poco soddisfatto e pesto la mia ombra.

domenica 13 luglio 2008

Se vi è finezza...




Se vi è finezza al mondo
tu sei quella finezza. Sii clemente:
nessuna preghiera dovrebbe
provocarti che al pianto. Ebbi un amico...
ma lasciamo. Ricordo come da bambino
pregando m'interrompevo, tremando
fino al sonno - era il tuo sonno a placarmi -

Tu certo hai letto il Ramo d'oro di Frazer.
È degno di te. Una preghiera
quale potrebbe averla detta
un amante che celebri
ogni fattezza della sposa
piena di grazia, ed è un terrore,
terrore quale un uomo, uno da poco
sposato, prova per la sua sposa -

Tu sei la sposa eterna e sei
il padre - un qui pro quo,
un semplice miracolo che sa
la marea diramante a cui la quercia
è corallo ed il corallo è quercia.
Gli Himalaya, le praterie
dei tuoi tratti stupiscono e incantano.

Perché dovrei muovermi di qui,
luogo della mia nascita, se so
quanto sarebbe futile cercare
te nella molteplicità
del tuo sfacelo?
Il mondo si dilata
per me come si apre un fiore -
si chiuderà per me come una rosa
si piega e cade,
marcisce ed è assorbita ancora
in altro fiore - ma tu
non appassisci e sbocci
tutta intorno a me. Io scordo
perennemente me stesso e nel tuo
comporti e decomporti trovo
la mia
disperazione.

William Carlos Williams
da "PATERSON"

tratto da Cristina Campo, La tigre assenza (poesie e traduzioni poetiche), Adelphi, Milano, 1991 (pag. 158-159)

sabato 12 luglio 2008

Uomo in una stanza



Qui non donna, né uomo né fanciullo,
né uccello né vespa né cane,
né conca d'acqua né fronda. Color di fiore,
bacca di sangue nessuna, né ruggine
fiammea su foglia, né rosea galla su stelo
né attonita pietra, Ay de mi!
Non bianco rovo qui di biancospino, né prato
di ranuncoli, né compenso alcuno:

letto, libri, pareti,
cornici, cassapanca, tavolo, groviglio
di cartacce. Così io seggo qui,
così m'alzo e m'aggiro. Accanto al bianco
albero in fiore non così solitario:
petali rotti e roridi ingiallivano
le mie caviglie nude.

William Carlos Williams
da "THE COLLECTED EARLIER POEMS"

tratto da Cristina Campo, La tigre assenza (poesie e traduzioni poetiche), Adelphi, Milano, 1991 (pag. 116)

giovedì 10 luglio 2008

Leghiamoci forte

Premesso che io sono favorevole alla liberalizzazione delle droghe (pesanti e leggere), trovo tuttavia fortemente sbagliata le sentenza della Cassazione che autorizza l'uso di marijuana per scopi religiosi. Certo, questa non è una novità: è già capitato, negli Usa, che certe sette religiose siano state autorizzate a far uso di allucinogeni per entrare meglio in contatto col loro dio (vedi Richard Dawkins, L'illusione di Dio, Mondadori, Milano 2007, ora non ritrovo la pagina esatta, lo farò in seguito). Il punto è che con queste sentenze si offre a qualsivoglia religione uno status che permette, ai suoi adepti, di far quello che credono: tagliare prepuzi a infanti inconsapevoli, praticare l'escissione della (o del?) clitoride a ragazzine recalcitranti; un giorno, magari, potranno autorizzare anche qualche piccola autoesplosione privata - così, per il gusto di guadagnarsi un immaginario paradiso.

Ma in fondo... inutile protestare. Occorre una mossa spiazzante. Creare una nuova religione: anche se non subito, tra qualche decennio avrà la stessa dignità delle altre. L'importante, però, è che i pochi saggi in grado di fondarla riescano a metterci dentro molte cose che valga la pena di fare, di credere, di provare. E perché no, fumare marijuana potrebbe essere una di queste.

Truffa del latte




Ho telefonato al numero verde di Mukki Latte, Centrale del Latte di Firenze, per sapere un po' come stanno le cose in merito alla truffa del latte e dei latticini in genere. Una gentile operatrice mi ha risposto che i dirigenti della suddetta centrale comunicano alla clientela che loro, alla ditta incriminata di sofisticazione alimentare, fornivano la loro merce scaduta e non riprendevano niente indietro. Spero sia vero, non ho motivo di dubitarne. Spero, insomma, che Mukki voglia dire fiducia: mica come la Galbani...

martedì 8 luglio 2008

versi improvvisi da piazza navona e non c'ero

Se stasera intervengo in diretta dal palco
e dico di non esser me stesso, tenendo
la voce più bassa del solito falco
che punta la preda e la artiglia, offendo
qualcuno?

Non amo la massa urlante qualunqu'essa sia;
ogni folla annulla il volto dell'uomo e la ragione
svanisce, s'incarta, s'ingolfa, smarrisce la via
e tribola; la piazza da libera diventa prigione.
C'è nessuno?


Datemi un elenco di cose da fare nella mia piccola vita privata per diventare come il battito di quella farfalla brasiliana che provoca spesso uragani in Texas.

venerdì 4 luglio 2008

Conversazione in cielo


Nell'ultimo tiepido cielo sorvolo l'azzurro:

ti cerco fra i rami d'un cerro maestoso

e lì ti ritrovo e trovo il riposo.

Il flusso di parole continue che scava

dentro i nostri più remoti meandri

rivela l'arcano del corpo che cerca

il battito forte, un brivido di eccitazione.

Tenere a bada i desideri, farli discendere

è un mestiere difficile, da attenzione

continua e continuo spudorato pudore

Ma tu sei qui vicino: calda come mai prima

ti avevo sentito; un calore refrigerante

che stempera questo luglio, emani.

Non ho mai avuto mani così delicate

per sfiorare il diafano splendore del tuo incanto.

Intanto un airone sorvola il mio cielo,

solitario si arresta sulla cima d'un formidabile

abete; la punta si flette e monta la panna

di una nube vicina; colgo due lamponi

di meraviglia e ti porgo questa coppa da dèi.