martedì 30 giugno 2009

La memoria al di sopra della storia

«Il monoteismo si è retrodatato spontaneamente poiché così imponeva l'ordine della genealogia. Lotta per il primato e lotta per l'anteriorità sono la stessa cosa. Il lignaggio fa titolo, in un mondo nel quale non vi è nulla che possa essere recente e al tempo stesso degno di venerazione. La cronologia è l'argomento di autorità per eccellenza, il mezzo più efficace per sottomettere i nuovi venuti o gli antichi, che il bisogno della causa induce a considerare tali. Retrodatiamo per essere i più forti, e il più forte è colui che può dimostrare ai vicini (e a se stesso) che era là prima degli altri, nel vuoto Primordiale più prossimo all'origine. È in questo modo che, uomo o dio, si arriva a produrre, sotto la pressione degli eventi e con i mezzi di bordo, i certificati di preesistenza necessari. Ci si sorprende non poco quando si apprende, dagli specialisti dell'esegesi storico-critica, che Abramo non era che un piccolo eroe meridionale salito di grado e di anzianità grazie all'intervento di abili redattori. [...]
L'oggetto da trasmettere [...] non esiste anteriormente al processo della sua trasmissione. È il suo percorso che trasforma un discorso in ciò che esso è. [...]
La tradizione inventa, in perfetta buona fede, ciò di cui essa si fa latrice, o, meglio ancora: essa autentica la propria narrazione cancellandosi come racconto (il medium tende sempre a cancellare se stesso, ed è a questa condizione che riesce ad avere successo). La metamorfosi [...] adempie a una funzione vitale per la comunità che ne è, al tempo stesso, materia e motore, enunciatrice ed enunciato. La riscrittura del passato è dinamica, orientata verso il futuro. Il suo compito è quello di conferire significato al presente offrendo un invidiabile centro di attenzione a una comunità che avrebbe buone ragioni per dubitare del proprio avvenire. È per questo che ogni episodio delle Scritture (la cui redazione si prolunga per sette o otto secoli) parla la lingua del secolo in cui è stato scritto, e non quella del momento in cui si suppone si svolgano gli eventi».


Régis Debray, Dio, un itinerario. Per una storia dell'Eterno in Occidente, Raffaele Cortina Editore, Milano, 2002 (pag. 47-48)

Mi si perdoni la lunghezza del brano riportato, ma mi stava a cuore rileggere queste parole dopo la lettura di un significativo post malviniano.

Idee regalo

«La prova che quello del regalo è un autentico rito ci viene data dalle regole ferree che lo governano. Tali regole esigono un tatto straordinario nell'esecuzione, per la buona ragione che sono, in fin dei conti, contraddittorie. Esse cercano di conciliare l'imperativo della reciprocità e dell'uguaglianza con l'imperativo della differenza che non è meno essenziale.
I grandi imperativi del dono definiti da Mauss sono sempre presenti nel regalo contemporaneo: dare-ricevere-rendere. Se uno dei due regali ha un costo maggiore dell'altro, la parte sfavorita non osa manifestare il suo disappunto, ma questo non fa che aggravarlo. La parte favorita, a sua volta, non è più contenta, e si domanda se il valore superiore del regalo ricevuto non costituisca una critica indiretta da parte di chi l'ha donato. Ci si sente sospettati di tirchieria.
Se la differenza tra i regali riflette una forte disuguaglianza economica tra le persone che se li scambiano, il risultato sarà ancora peggiore. Lungi dall'essere soddisfatta, la parte economicamente più svantaggiata sarà divorata dal risentimento. Avrà l'impressione che la si sia voluta umiliare.
La prudenza esige che vi sia fra i regali che ci scambiamo un'equivalenza non meno rigorosa di quanto richiede un baratto. Bisogna imitarsi con il massimo scrupolo, ma dando un'impressione di estrema spontaneità. Ognuno deve convincere la sua controparte di aver obbedito, nello scegliere il regalo che è stato fatto, a un impulso irresistibile, a un'ispirazione folgorante, del tutto scevra dei miserabili calcoli della comune umanità».

René Girard, La pietra dello scandalo, Adelphi, Milano 2004 (pag. 38-39)

Sono preoccupato di quello che potrà regalare Berlusconi ai vari leaders e relative mogli al prossimo G8.

domenica 28 giugno 2009

Situazione

La forza del luogo comune,
dolorosa.
Lo zampillo della pompa nell'erba
sospiro inavvertito.
Il giardino all'imbrunire.
Seggiole in tondo, sdrai.
Sguardi noti s'incrociano: uno solo evasivo.
Generalmente calmi.

Sul rovescio del luogo comune
le campane del vespero. Inascoltate.
Da secoli e secoli a quest'ora
una spoglia ancora calda
di sangue e senso.
E attorno le rondini a migliaia.

Sono io tutto questo, il luogo
comune e il suo rovescio
sotto la volta che più e più s'imbruna.
Ma non può nulla contro un solo sguardo
di altri, sicuro di sé che si accende
dello sguardo mio stesso
contro gli occhi colpevoli
contro i passi furtivi che ti portano via.

Vittorio Sereni, Gli strumenti umani - da Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1986

sabato 27 giugno 2009

Fare politica




Premessa.
Questo sotto sarebbe dovuto essere un "breve" commento a questo ottimo post di nonunacosaseria. Dato che è venuto un po' lungo, ne faccio un post.


Non essendoci in Italia una vera e propria scuola di formazione politica (come in Francia, ad esempio), dal dopoguerra fino a pochi anni fa si diventava politici soprattutto (e quasi esclusivamente) attraverso le scuole dei vari partiti. Il problema principale è che i partiti non sono più degli efficaci selezionatori di un'accettabile classe dirigente. Col senno di poi, persino la scolastica democristiana era qualcosa di più dignitoso dell'attuale situazione; persino i peggiori e oscuri padrini democristiani, al confronto di molti politici odierni, erano dei giganti della Politica.

Se da un lato (a destra) abbiamo l'esempio primo di colui che, da imprenditore, “s'è prestato alla politica” (per rimanerci incollato, purtroppo) – da cui ne consegue, costitutivamente (basti pensare a ciò ch'era ed è Forza Italia), che molti quadri del “partito” derivano dall'esempio fondatore; dall'altro lato (sinistra) abbiamo – dopo le varie rivoluzioni-involuzioni partitiche – il goffo tentativo di seguire, per mimesi d'appropriazione, l'esempio berlusconiano che tanto successo ha avuto ed ha.

Quindi, che fare? Chi può (e come si può) oggi fare politica e farla bene? Chi ne ha la voglia, la forza, il coraggio debitamente depurati da qualsivoglia arrivismo personale che non pregiudichino il fine principale di servizio alla polis?

Io no. Io ho già dei problemi ad amministrare me stesso, figuriamoci il prossimo. Se poi questo quasi quotidiano esercizio di scrittura possa essere considerato “politico” non posso e non voglio essere io a dirlo e a giudicarlo.

L'unica volta che mi sono impegnato politicamente è stata una quindicina d'anni fa in una lista civica (di sinistra) alle elezioni comunali del paese ove abito. Era il 1993, la DC stava crollando in ogni dove. Si presentarono due liste, la nostra (il Leone Rampante) e quella della DC. Arrivammo secondi. Fui eletto in corso di “legislatura” (per la prematura morte del nostro capolista – a proposito: un saluto, caro Mario e un ricordo affettuoso) come consigliere comunale. L'unica cosa di cui mi occupai in quel periodo era di affiggere aforismi nella nostra piccola bacheca di lista situata nel borgo del paese. Tenevo una specie di blog all'aperto antelitteram per capirsi. Mi diverto più ora, anche se a leggermi saranno meno persone. Ho capito ch'era inutile (o quasi) per i cittadini trovare frasi di Platone o Karl Kraus. Ma io mi divertivo a esporre i miei samidzat politici che non c'entravano nulla con i marciapiedi da rifare o le fognature comunali da completare. Eppure sarebbe bastato prendessi all'epoca una tessera di partito qualunque e profondessi, insieme allo studio universitario, un po' d'impegno, un po' di attivismo e, credo (forse presuntuosamente, ma non troppo) che a quest'ora sarei almeno un consigliere provinciale. Non l'ho fatto, non me ne pento. Era solo così per dire, per far capire che fare politica oggi, seriamente, onestamente, e con un briciolo d'intelligenza è tremendamente difficile.

Una escort



[a Patrizia D'Addario]

Una che si svestiva con molta docilità
deponendo in bell'ordine gli indumenti
uno sull'altro senza alcuna impudicizia
e tuttavia senza il minimo dramma di pudore

Ma appena commentando con ironia e con tenerezza
prima perché sapeva essere quello il rituale
e poi perché la pazienza è nelle donne virtù
che più di noi le frena lungo la china della morte

Una che conosceva tutte le lingue del silenzio
e per questo soffriva gli errori delle parole
anche se la parola non è essenza
ma paura d'assenza nell'uomo che la parla

Una che amava il sole e l'oro
e per questo portava tutto il grigio dei doveri
come chi per mancanza di denaro abbia lasciata
sul banco la bella cosa a lungo soppesata*

«Accompagnatrice escort di lusso, exclusive vip companion, bella, sensuale, colta, elegante e raffinata, dotata di sense of humor, disponibile per gentlemen di elevato livello socioculturale ed economico. Posso accompagnarti per pomeriggi, serate, cene, viaggi, incontri di lavoro e di svago. Sensibile e versatile, abile nelle pubbliche relazioni. Mi piace coccolare e adoro tutto ciò che ruota intorno al buon gusto, ciò che mi distingue è la classe, l'educazione e la capacità di adattarmi a qualsiasi ruolo...»

Non sono un esperto, dacché purtroppo (o per fortuna) non ho potuto sperimentare tali prestazioni. Tuttavia, con un rapido giro tra i vari siti dove si reclamizzano le varie escort, soprattutto quelle di lusso e classe, si viene a sapere che esse saranno a tua completa disposizione per qualsiasi tuo desiderio, anche quello di farci credere di essere meglio di Richard Gere o George Clooney. Quindi, va da sé, che quando S.B. dichiara spudoratamente che lui non ha mai pagato una donna in vita sua perché ciò lo avrebbe privato del piacere della conquista, è di per sé una dichiarazione fasulla; ancor più perché per lui 10.000 euro equivalgono ai miei 10 centesimi. E se io potessi portare a letto una come Patrizia D'Addario con 10 centesimi crederei anch'io di averla conquistata col mio fascino da trombeur des femmes.

* Giovanni Giudici, O beatrice, Mondadori, Milano 1972

venerdì 26 giugno 2009

Beato solipsismo

A volte mi piacerebbe essere affetto da solipsismo. Dire: esisto solo io, gli altri non ci sono. O meglio: gli altri esistono solo se li penso. E così, da stasera, seduta stante, Berlusconi lo faccio sparire. Non lo penso, né lo dico più. Non c'è nessun uomo chiamato così. Ah, che soddisfazione, mi dico, da stasera non farò più esistere lo scandalo permanente di questa nostra serva Italia.
Bello contento, mi preparo per andare a letto quando, sul divano, scorgo un libro di fiabe filosofiche che tempo fa regalai alle mie figliole. Chi Po e lo stregone: racconto cinese per bambini e filosofi. In tal libro «c'è una scena in cui il ragazzo, Chi Po, prende lezioni di pittura dallo stregone Bu Fu. A un certo punto questi dice: "No, no! Tu ti limiti a dipingere ciò che esiste! Chiunque può dipingere ciò che esiste; il vero segreto è dipingere ciò che non è!". Chi Po, costernato, ribatte: "Ma che cosa c'è che non è?".»¹
Berlusconi!

1. In realtà, il libro sul divano è una mia invenzione. Però il libro succitato esiste davvero (Oscar Mandel, Chi Po and the Sorcerer: A Chinese Tale for Children and Philosophers, Tokio, 1964) anche se, credo, non vi sia una traduzione italiana. Ho saputo della sua conoscenza tramite Raymond Smullyan, 5000 anni avanti Cristo, Zanichelli, Bologna 1987 (pag. 104).

Sampietrini muliebri



Iran: le donne in prima linea della contestazione

A bocca chiusa



S.B. sulla crisi dichiara: «Ai catastrofisti bisogna chiudere la bocca» e aprire il.

«Catastrofe è la messinscena dell'umiliazione di un individuo usato come una marionetta. Il protagonista, indicato dalla lettera P, è un uomo ridotto allo stremo delle forze, totalmente sottomesso al volere di un regista-burocrate (R) e della sua scattante assistente (A). L'obiettivo di R è quello di suscitare emozione attraverso l'ostentazione di quest'uomo privato della propria dignità, con la premura di non eccedere troppo nell'esposizione del corpo dell'attore per non scandalizzare il pubblico.
Quando il tecnico delle luci (L) punta il riflettore su P, ritto su un cubo nero affinché siano visibili anche i piedi nudi, simbolo di debolezza, dal pubblico parte un convinto, scrosciante applauso. E' a questo punto che P compie un gesto impercettibile ma possente: solleva il capo - che fino a quel momento era stato costretto a tenere chino secondo le indicazioni di R - e fissa il pubblico. Lentamente l'applauso scema e l'invisbile platea scompare in un imbarazzato silenzio»*.

giovedì 25 giugno 2009

Siamo cristiani fino al midollo

«I fatti sono chiari: le guerre occidentali sono appoggiate dal Dio cristiano, e alla sua chiamata alle armi non ci possiamo sottrarre perché siamo tutti cristiani, indipendentemente dalla fede che seguiamo, dalla chiesa che frequentiamo o anche dalla nostra professione di ateismo. Puoi essere ebreo oppure musulmano, puoi rivolgerti al tuo dio con i riti della Santeria, puoi fare parte della Wicca, ma se vivi nel mondo occidentale, psicologicamente sei cristiano, marchiato indelebilmente con il segno della croce nel cuore e nella mente e in ogni fibra del corpo. Il cristianesimo è dappertutto, nelle parole che usiamo, nelle bestemmie che pronunciamo, nelle rimozioni che rafforziamo, nello stordimento che cerchiamo, nella eredità di assassini religiosi della nostra storia: l'assassinio degli ebrei, l'assassinio dei cattolici, l'assassinio dei protestanti, dei mormoni, degli eretici, dei dissidenti, dei liberi pensatori... Se pensi che la tua anima personale sia distinta dal mondo esterno e che consapevolezza e coscienza morale siano localizzate in quell'anima (e non nel mondo esterno) e che perfino il gene egoista sia individualizzato nella tua persona, allora, psicologicamente, sei cristiano. Se la tua prima reazione a un sogno, a una notizia, a un'idea è di operare immediatamente una divisione tra bene e male morali, allora, psicologicamente, sei cristiano. Se associ il peccato alla carne e ai suoi impulsi, ancora una volta, psicologicamente, sei cristiano. Se noti quando un presentimento si realizza, se prendi le sviste come segnali e credi nei sogni, ma poi ti affretti a liquidare queste intuizioni come "superstizione", sei cristiano, perché quella religione mette al bando ogni forma di comunicazione con l'invisibile che non sia Gesù. Quando volti le spalle ai libri e allo studio, per cercare nei tuoi sentimenti intimi risposte semplici a problemi complessi, sei cristiano, perché il cristianesimo dice che il Regno di Dio e la voce del suo vero Verbo sono nell'interiorità. Se la tua teoria psicologica designa certi stati dell'anima con espressioni come ambivalenza, io debole, scissione, crollo, confini incerti, e ne ha paura considerandoli malattie, allora sei cristiano, perché quei concetti esprimono l'adesione a un'autorità centrale, unica e potente. Se pensi che i dati apparentemente casuali della storia abbiano una finalità, segnino in qualche modo un'evoluzione, e che la speranza sia una virtù e non un'illusione, allora sei cristiano. E sei cristiano quando credi che alla fine del tunnel delle umane disgrazie ci attenda la risurrezione della luce invece che la tragedia irrimediabile o il caso o la sfortuna. E, in particolare, sei un cristiano americano quando idealizzi una tabula rasa di innocenza infantile come se fosse la condizione più vicina a Dio. Non possiamo eludere duemila anni di storia, perché noi siamo la storia incarnata, ciascuno di noi è stato gettato sulle spiagge occidentali dello hic et nunc dalle mareggiate di tanto tempo fa.
Possiamo disconoscere la presa del cristianesimo sulla nostra psiche, ma che altro è l'inconscio collettivo se non gli schemi emotivi inveterati e i pensieri non pensati che ci riempiono di pregiudizi che ci piace chiamare scelte? Siamo cristiani fino al midollo. Nelle nostre distinzioni si nasconde san Tommaso, alle nostre buone azioni presiede san Francesco, e migliaia di missionari protestanti di ogni setta immaginabile concorrono nel darci l'innata certezza di essere superiori a tutti e capaci di aiutare gli altri a vedere la luce».

James Hillman, Un terribile amore per la guerra, Adelphi, Milano 2005 (pag. 231-232)

I piedi a terra



Gentili lettrici e lettori che visitate questo luogo marginale della rete, vi comunico con sommo gaudio e grande letizia (senza Noemi ahimè!) che Giornalettismo ha pubblicato un mio elzeviraccio dal titolo «Piccoli borghesi crescono».
Buona lettura.

P.S.
Ringrazio tutta la redazione e il direttore di Giornalettismo di questa opportunità, in particolare Alessandro D'Amato. Piedi a terra è il titolo della rubrica che spero di riuscire a coprire più o meno settimanalmente (e degnamente).

Segnalazione



Vorrei averle scritte io queste dettagliate cronache.

mercoledì 24 giugno 2009

La verità dei fatti.



«Che definizione si può dare della verità?»

«Della verità? La verità è... la verità. Quando Pilato domanda a Cristo, Cristo non dà risposta su cos'è la verità... però la verità esiste, c'è. Ci sono i fatti, naturalmente anche nei fatti c'è l'ambiguità, c'è la possibilità di interpretarli, di sfaccettarli come si vuole, di dissoverli anche, pirandellianamente... Però un fatto è un fatto. E qui vengono proprio mistificati i fatti. Non si riesce più ad avere un'idea del fatto [...] Per me l'esempio più straordinario di giornalismo, di onestà professionale del giornalismo, è quello che racconta quel vecchio inviato del New York Times, Mattews. Lui racconta che una volta i corrispondenti che erano dalla parte di Franco durnate la guerra di Spagna diedero come conquistato da Franco un paese che a lui risultava invece essere ancora in mano ai repubblicani. Mattews prese una macchina, andò in quel paese e fece da lì un telegramma al New York Times; mentre usciva dall'ufficio postale le avanguardie di Franco entravano dall'altro capo del paese. Però lui intanto aveva smentito la notizia falsa: il giorno prima Franco non c'era. Ecco la verità dei fatti. E un potere della verità c'è, lo si può esercitare anche così. Questo dovrebbe essere il giornalismo, dare il fatto del momento. Il giornalismo è come un tribunale in prima istanza, dove hanno valore i fatti. Invece oggi si pratica un giornalismo come cassazione, dove i fatti scompaiono, quello che gli avvocati chiamano "il merito" scompare, ed esiste soltanto la forma...»

Leonardo Sciascia, La palma va al Nord, Gammalibri, Milano 1982 (pag. 176)

La rosa bianca




ad A.E. per il suo compleanno

Coglierò per te
l'ultima rosa del giardino,
la rosa bianca che fiorisce
nelle prime nebbie.
Le avide api l'hanno visitata
sino a ieri,
ma è ancora così dolce
che fa tremare.
È un ritratto di te a trent'anni,
un po' smemorata, come tu sarai allora.

Attilio Bertolucci, Fuochi in novembre.

À bout de souffle

Berlusconi: «La Daddario pagata per parlare».
Poverina, come faceva a parlare con qualcosa in bocca?

martedì 23 giugno 2009

Medicina sociale

Mi piace andare a pescare. In biblioteca. Getto l'amo tra scaffali accessibili e libri direttamente consultabili. Oggi ho pescato un libro di Norbert Elias, Coinvolgimento e distacco, Il Mulino, Bologna 1988. Titolo meraviglioso, vero? Sfoglio l'introduzione dell'Autore, leggo queste domande che faccio subito mie, tanto già mi abitavano ma che ancora non sapevo esprimere (ma ciò che non si sa esprimere esiste? Boh!).

«Perché alla maggioranza della gente pare impossibile e non auspicabile che gli esseri umani imparino a liberarsi dai pericoli che essi stessi costituiscono per gli altri e per sé, allo stesso modo in cui appresero a liberarsi dalla maggior parte dei pericoli con i quali la natura non umana minacciava gli uomini in epoche lontane - o perlomeno limitarli? Eppure tali pericoli erano non meno incontrollabili di quelli da essi stessi creati e che oggi li minacciano. Non è forse vero che la minaccia di una nuova epidemia, in larga parte provocata da agenti non umani, oggi viene affrontata mediante la mobilitazione degli scienziati di buona parte del mondo? Ognuno ritiene del tutto ovvio che trovare una spiegazione, magari un rimedio, per questa nuova minaccia mortale non sia al di là delle possibilità umane. Ma nel caso di guerre o rivoluzioni - disastri umani non certo inferiori anzi spesso superiori alle grandi inondazioni o epidemie - pochissimi penserebbero di ricorrere agli scienziati sociali [aggiungo: filosofi, psicologi, antropologi, economi, letterati, artisti vari, blogger...] per averne aiuti e consigli; e, se lo facessero, questi scienziati potrebbero offrire consigli che ben pochi sarebbero disposti ad accettare e perfino ad ascoltare».

Ragioniamo per assurdo e proviamo ad ammettere (e concedere) che, per un periodo limitato (un anno o due) il Potere politico-economico-finanziario accetti seriamente di mettere i pratica i consigli degli scienziati sociali, consigli volti a far progredire e a migliorare le condizioni di vita della società in generale e dei cittadini in particolare. Bene: esistono dei consigli, delle ricette, delle formule che possano davvero far guarire la società umana dai mali che la tormentano? Esiste davvero la possibilità di scoprire un vaccino contro la stupidità, la cattiveria, l'avidità umane così come gli scienziati medici hanno scoperto dei vaccini contro terribili malattie? Quali medicine possono curare e guarire il corpo malato della nostra società?
Da modesto filosofuccio di provincia quale sono, lancio la mia formula magica, il mio abracadabra: tenere a bada il desiderio.

P.S.
Qualcuno mi aiuta a riempire un'ipotetica cassetta di pronto soccorso umanitario? Non è un compito facile, lo so. Comunque meno difficile che trovare una cura per il Partito Democratico.

Niente

«Dunque, succede: niente. Questo niente, tuttavia, bisogna dirlo. Come dire: niente? Ci troviamo qui dinanzi a un grande paradosso dello scrivere: niente può solo dirsi niente; niente è forse la sola parola della lingua che non ammette nessuna perifrasi, nessuna metafora, nessun sinonimo, nessun sostituto; infatti dire niente altrimenti che con il suo puro denotante (la parola “niente”), sarebbe già colmare il niente, smentirlo: come Orfeo che perde Euridice voltandosi verso di lei, niente perde un po' del suo senso ogniqualvolta lo si enuncia (lo si de-nuncia). Bisogna dunque barare. Il niente può essere preso dal discorso solo di sbieco, di striscio, con una sorta di allusione captante».

Roland Barthes, Il grado zero della scrittura, Einaudi, Torino 2003 (pag. 169).

lunedì 22 giugno 2009

Perché alla fine...

«Perché alla fine che cos'è
tutto il genere umano a paragone
della natura e della universalità delle cose?»
I ragazzi corrono senza fiato.
Le pinete scricchiolano al sole.
Di qui la società è invisibile.
Ma se continuiamo a non volere la verità
sarà terribile la nostra via.
È bene che lo sappiamo una volta per sempre.
La battaglia ebbe luogo prima del bivio
dove la strada fa una larga svolta.
Il nome lo rammenta Livio, lo storico antico.
E non guardare dove le stelle si riproducono? Non volete
nemmeno osservare le piccole persone
che stridono sotto le nostre scarpe?
Come l'agonizzante diventa un sasso lo sapete.
Come si butta via
die Leiche il cadavere spezzato l'avete visto.

Franco Fortini, Paesaggio con serpente (Poesie 1973-1983), Einaudi, Torino 1984

domenica 21 giugno 2009

Un meccanismo di difesa

«La rimozione o la negazione della violenza, anche se si manifesta con caratteri spesso apertamente ideologici o in base a strumentalizzazioni politiche e suggestioni religiose, è parte integrante della psicologia individuale e collettiva di fronte a informazioni terribili, minacciose, inquietanti. È un meccanismo di difesa che è parte integrante di ogni nazionalismo (“Il nazionalista,” ha scritto George Orwell, “non solo non disapprova le atrocità commesse dalla sua fazione, ma ha la notevole capacità di non sentirne nemmeno parlare”) e probabilmente di ogni ideologia fortemente strutturata, certamente di ogni fondamentalismo religioso o etnico. È una modalità con cui i colpevoli giustificano a sé e agli altri le proprie azioni; è la risposta a una “minaccia cognitiva” che rischia di frantumare certezze e credenze. È sempre lo stato, infatti - o comunque un'autorità riconosciuta - ad autorizzare, incoraggiare, organizzare la violenza, dopo aver favorito la costruzione di una visione dle mondo in cui la presenza di altri non è prevista se non come nemici. Ed è per questo che la più ricorrente giustificazione è quella di aver agito per difesa, per reazione, per paura e per la propria sicurezza, considerandosi in questo modo la vera vittima - più di quelle che lo sono state davvero - della situazione violenta»

Marcello Flores, Tutta la violenza di un secolo, Feltrinelli, Milano 2005, pag. 113.

Fatte le debite distinzioni, mi pare che il meccanismo di difesa berlusconiano segua questo schema.

Duro come un cencio

Escort d'Italia, unitevi e rallegratevi. Tiene duro.

sabato 20 giugno 2009

Edelweiss



Non potendo disporre, come il Minculpop, della quasi totalità dei media, il potere berlusconiano ha operato in modo tecnicamente più subdolo e adatto alle moderne democrazie occidentali. Da buon manicheo, Berlusconi oltre ad aver individuato nella sinistrata Sinistra il responsabile di tutti i mali del mondo e delle sue magagne politiche e sessuali, ha creato uno spartiacque tra i media stessi gettando discredito e proclamando l'inattendibilità di tutti quei media che osano mettere in dubbio, criticare, riportare i misfatti del suo operare non solo politico ma anche esistenziale.

Sempre più chiaramente si nota che, secondo lui, non esiste una posizione terza. Qualsiasi critica, qualsiasi registrazione del suo malaffare è Sinistra, è Odio, è Invidia e questo nonostante l'acclarata oggettività dei fatti riportati. Questa sua opinione poi diventa, grazie alla forza dei “suoi” media, Scudo, Contrattacco, Verbo da diffondere. Infatti, i suoi scagnozzi mediatici, professionisti delle tecniche persuasorie, mettono in atto una campagna militare di aggressione preventiva e, insieme, una superba Maginot che consente loro di offrire al suo pubblico (la maggioranza degli italiani) l'immagine di un leader per l'ennesima volta vittimizzato dalle orde dei suoi famelici nemici. E dacché passare per vittima è l'unico modo possibile per vincere nella nostra società pseudo-cristianizzata, molto cattolica e kitsch, ecco che un escremento imbellettato si erge a piccola povera edelweiss (*) da difendere strenuamente da coloro che cercano di estirparla dal suol patrio.

Ma chi vuole realmente buttar giù questo governo? Chi e con che diritto visto che, obtorto collo, esso è stato democraticamente eletto? Possibile che il mostrare comportamenti, pubblici e privati, sia da considerare un atto golpistico? La Sinistra fa pena? Fa pena forse perché non ha niente di concreto da proporre in caso (remoto) di dimissioni e di elezioni anticipate, questo sì. Spazzatura? Ma la spazzatura è dentro le ville e le dimore del potere e non c'è verso di poterla riciclare. Serve davvero un buon inceneritore. La ditta Alfano ne ha congegnato uno con molto lodo.


*È incredibile. Cercando una foto di una stella alpina vo su Google e digito la parola edelweiss. Ecco chi è apparso. Mica male però, non la conoscevo. Cercherò il suo numero quando avrò i soldi per una escort.

venerdì 19 giugno 2009

Un'antica professione



«SIGNORA WARREN: ... Per cosa è educata una ragazza rispettabile se non per colpire la fantasia di un uomo ricco e trarre beneficio dal suo denaro sposandolo? [...] Oh! l'ipocrisia di questo mondo mi dà la nausea! Liz e io abbiamo dovuto lavorare e risparmiare e calcolare proprio come le altre persone; altrimenti saremmo povere come qualsiasi altra buona a nulla che beve e sperpera e pensa che la sua buona fortuna durerà in eterno. Io disprezzo quella gente: non ha carattere; e se c'è una cosa che detesto in una donna, è proprio la mancanza di carattere.

VIVIE: Via mamma: francamente! Non credi rientri in ciò che tu chiami carattere di una donna il suo disprezzo per quel sistema di far denaro?

SIGNORA WARREN: Ma certo. A nessuno piace dover lavovare e guadagnare; eppure tutti lo devono fare: Anch'io molte volte ho compianto una povera ragazza, stanca e avvilita, costretta a cercare il piacere a un uomo del quale non importa un accidente... un cretino mezzo ubriaco il quale crede di rendersi gradito quando prende in giro, infastidisce e disgusta una donna, al punto che non esiste denaro che basti a ripagarla di tanta sopportazione. Ma lei deve sopportare le cose sgradevoli e prendere il ruvido col liscio, proprio come l'infermiere di un ospedale o chiunque altro. Non è un lavoro che una donna possa fare per il suo piacere, Dio solo lo sa; ma a sentire i discorsi della gente pia c'è da credere che sia un letto di rose.

VIVIE:
Eppure ritieni che valga la pena di farlo. Rende.

SIGNORA WARREN: Certo che vale la pena per una povera ragazza, se sa resistere alla tentazione, ed è bella e ben guidata e giudiziosa. È molto migliore di qualsiasi altro impiego che le si presenti...
»

George Bernard Shaw, La professione della Signora Warren, Atto II, (1898-1902), Mondadori, Milano 1966.

giovedì 18 giugno 2009

Cultura e potere

«Il problema della cultura e del potere è, oggi, come sempre, quello dei rapporti tra uomini di cultura e uomini al potere. Supponiamo di scegliere i cento uomini più potenti d'America* (presi da ogni settore del potere) e di metterli tutti in fila; supponiamo poi di scegliere i cento uomini più colti (presi da ogni settore della cultura) e di metterli tutti in fila anche loro. Quanti dovrebbero stare tanto in un gruppo quanto in un altro? Naturalmente la nostra scelta dipenderebbe da ciò che intendiamo noi per potere e per cultura (soprattutto da quel che intendiamo per cultura). Ma se ci atteniamo al significato più o meno comune delle parole, non c'è dubbio che nell'America di oggi si trovano pochissime persone che dovrebbero stare tanto in un gruppo quanto nell'altro, e certamente se ne sarebbero trovate molte di più al tempo in cui furono fondati gli Stati Uniti: nel XVIII secolo, in quella che pure era una zona coloniale periferica, gli uomini al potere si preoccupavano della loro cultura, e spesso uomini di cultura salivano al potere. A questo riguardo io credo noi si sia avuto un grave declino».

Charles Wright Mills, Le élite del potere, (New York, 1956), Feltrinelli, Milano 1959 (pag. 330)

*Ero tentato di sostituire "America" con "Italia" e "Stati Uniti" con "Repubblica Italiana", ma il parallelo salta in mente senza nemmeno questa forzatura.

mercoledì 17 giugno 2009

È successo davvero



Dopo il libro di Luzzatto su Padre Pio, leggo in questi giorni Patria 1978-2008 di Enrico Deaglio e Andrea Gentile (Il Saggiatore, Milano 2009). Perché queste letture mi gettano nello sconforto? Perché alla nostra patria, appunto, è toccata questa sorte? Più leggo, più mi strazio, riprovando lo stesso sgomento che ebbi nella lettura de L'affaire Moro di Sciascia. Nel '78 avevo undici anni. Del sequestro Moro ho un ricordo vivido. Ricordo persino che noi ragazzetti per un periodo smettemmo di andare nei boschi vicino casa per paura d'incontrare i brigatisti. Del 1978 poi ricordo Kempes, Ardiles (centrocampista, giocava col numero 1), Fillol (portiere n°5) Luque, Tarantini, Passarella, Bertoni, e altri calciatori che emulavamo nelle piccole partite nella piazza del paese. Ricordo mio fratello che portò in casa un ciclostile con le notizie e le illustrazioni delle terribili torture della dittutura argentina. Perché? Perché è successo tutto questo? Andreotti e Cossiga sono ancora vivi, pieni di onori e di rispetto, Licio Gelli idem (forse con meno onori e rispetto, ma comunque). Berlusconi e il blocco sociale che lo sorreggono sono l'esito naturale di tutto questo sfacelo, sono il frutto di ciò che il potere in Italia ha seminato trent'anni fa. Ma perché non leggo qualcos'altro? Cosa m'impedisce d'iscrivermi ai Circoli culturali di Marcello Dell'Utri, di scrivere versi alla Gelli (appunto) o alla Bondi (nooo)? Cosa m'impedisce di non accettare tutto questo come cosa buona e giusta? Perché i miei occhi guardano alla storia della nostra Repubblica e piangono invece che ridere ed essere contenti? Non esiste una pillola che mi faccia diventare un Capezzone di provincia?

Guadagnare, adagiarsi o viceversa?

«Daniel Spitzer afferma: “Il tenore di vita dei coniugi X. è piuttosto elevato; secondo alcuni il marito deve avere guadagnato molto ed essersi poi un po' adagiato, secondo altri è invece la moglie che si è un po' adagiata e così ha guadagnato molto.”»

Sigmund Freud, Il motto di spirito e la sua relazione con l'incoscio, (1905) ed. Boringhieri, 1972.

martedì 16 giugno 2009

Homo consumens



«La vita del consumatore è una vita di continuo apprendimento; e, parimenti, di rapido oblio. [Ciò che contraddistingue di più] la vita del consumatore è l'essere in continuo movimento. Se Max Weber ha visto giusto, laddove sosteneva che il principio etico della vita produttiva era la dilazione della gratificazione¹ [...] allora il principio etico che sta alla base della vita consumatore [...] dovrebbe essere il seguente: è illegittimo sentirsi soddisfatti. Per una società che vede nella customer satisfaction la motivazione di fondo e l'obiettivo a cui tendere, l'idea stessa di un consumatore "soddisfatto" non ha nulla né di una motivazione, né di uno scopo: si tratta, semmai, della più terribile delle minacce. [...] I bisogni non devono mai avere fine [ma] non è la creazione di nuovi bisogni [...] ciò che costituisce la maggiore preoccupazione [...] della società dei consumatori. È piuttosto la sistematica tendenza a minimizzare, con toni di disprezzo, i bisogni di ieri, a rappresentarli come imbruttiti, inutili, "sorpassati", e più ancora a screditare l'idea stessa che la vita del consumatore debba essere guidata dalla soddisfazione dei bisogni: è tutto questo che mantiene in vita il consumismo e l'economia dei consumi».

Zygmunt Bauman, Homo consumens, Erickson, Gardolo (TN), 2007 (pag. 23-25)

1 «Ritardare: i piaceri vanno sempre ritardati» G. Gaber, La masturbazione.

Superare la vita nella forma

«Attorno alla mummia di Dio, al di sopra delle acque che battono contro la fortezza, va errando una figura mostruosa: ai margini del vuoto, giallo e colmo di simùn, sta morto il castello del deserto, i tralci sulla parete. Quattromila anni di umanità sono passati, e felicità e infelicità sono state sempre uguali: volgiti via dal tuo prossimo, questo sarà l'insegnamento se adesso risuonerà la colonna di Memnone. Certo, vi siete amati, vi siete appoggiati l'uno all'altro - ma ovunque giriate lo sguardo, cruccio e peso nel cuore. Ma se noi insegnassimo a scorgere la danza a cerchio e a superare la vita nella forma, allora la morte non sarebbe l'ombra, azzurra, in cui stanno immerse le felicità?
La dolcezza del finire, l'ebbrezza del caduco; attraverso a ogni sera il baluginio dell'ultima, attraverso ogni ora lo spossamento orfico, il brivido dell'affondare, la felicità orrida del Sé

Gottfried Benn, “L'io moderno”, da Lo smalto sul nulla, Adelphi, Milano 1992 (pag. 19-20).

lunedì 15 giugno 2009

La salvezza è in noi



«Nella state del 1943 gli italiani erano giunti in fondo alla via che essi avevano scelto ventun'anni prima. Su quella via, breve e diritta, erano balenati dinnanzi ai loro occhi imperi, fortune e grandigie; ma poiché quella via significava la rinuncia degli italiani alla dura lotta, al diuturno sforzo, al rischio continuo in favore della chimera della sicurezza, della pace, della tranquillità, della prosperità assicurata e promessa da altri, quella via doveva necessariamnte fatalmente condurre sull'orlo dell'abisso. Chiunque fosse stato il salvatore, il messia, qualunque fosse stato il verbo, il vangelo, quella era la meta alla quale si doveva arrivare. A quella stessa meta si giungerebbe di nuovo, fra dieci, fra vent'anni, [fra cinquant'anni], se nuovamente gli italiani, ansiosi di trarsi indietro dall'abisso al quale oggi sono affacciati, si affidassero ad un uomo, ad un partito, ad un mito, ad una forza venuta dal di fuori: russa, inglese, americana. Dobbiamo, sì, recitare il mea culpa; ma dobbiamo anche orgogliosamente affermare: La salvezza è in noi e soltanto in noi!»

Luigi Einaudi, Il buongoverno, Laterza, Bari 1955.

Questo passo di uno dei più degni padri della nostra storia repubblicana, un vero liberale, rivela tra le righe una delle ragioni sociologiche più profonde per le quali l'Italia non sarà mai un paese autenticamente liberale. Perché essere liberali nel profondo significa assumere interamente la propria responsabilità personale di fronte alla collettività, significa diventare, ciascuno, re di se stesso - compito questo che l'idea stessa di repubblica sottindente. Essere parte di una repubblica comporta impegno, partecipazione, esercizio responsabile della libertà. Ma la via più breve, più facile è sempre quella maggiormente gradita da noi italiani. Sì, perché essere sudditi è molto più facile che essere cittadini.

domenica 14 giugno 2009

Un critico intermittente

Stamattina mi son svegliato con un'idea: fare il critico militante. Per criticare che? Beh, il mondo com'è e in cui vivo, le cose che mi circondano, per provare a dipanare la matassa di fili che legano la mia esistenza ad altre esistenze, ad altri fatti che non siano miei. Ma ho altresì pensato che per fare il critico militante occorre, necessariamente, un certo impegno e subito sono entrato in crisi. M'è tornato in mente, a proposito d'impegno, un titolo di uno spettacolo di Gaber: «Dialogo tra un impegnato e un non so». E io non so chi sono, o meglio: mi sono accorto che sono solo un misero intellettuale disfatto che ha fatto divorziare, dentro sé, pensiero e azione; sono solo un misero poetucolo pitocco di provincia (allitero bene, vero?) che si è chiuso nella propria fantasia e minima intelligenza e che ha occhi troppo spesso incantati all'orizzonte per accorgersi che sta inciampando; io sono un mezzo uomo che esaurisce la propria vita spirituale dentro l'esercizio di attività intellettuali astratte, a volte remote e prive di qualsiasi nesso con la realtà; io sono uno spiantato, uno letterato che ha provato inutilmente a mettere in pratica la propria passione, ma che ben presto si è accorto che tali passioni è preferibile esaurirle sulla pagina o su questo schermo; io sono un prodotto bastardo del mio tempo: un antifascista naturale, frutto casuale dei geni di chi ha fatto la Resistenza, ma che, tuttavia, non osa resistere appieno per timore della specie da cui spesso e volentieri si vorrebbe allontanare, diventare altro.
Perché io non mi appartengo, non ho alcuna appartenenza. Io non educo, non costruisco, non cerco devoti ammiratori, non fo nulla affinché l'uomo si diriga verso un futuro migliore o diverso. Io mi disfo nelle pagine degli altri, nei pensieri sublimi che tanta parte della nostra storia letteraria (in senso lato) ha espresso. Io vorrei essere solo quel pensiero, quell'intuizione, quel lampo, quel brivido lungo la schiena che ti fa fratello di chi pensa e tiene dritta la spina dorsale dell'umanità.
No, dunque. Nonostante le buone intenzioni io non farò il critico militante. Io mi traggo in disparte, rifiuto l'agone, ho il magone. Io concepisco il mio minimo dovere di esistere solo come spettatore. Certo, avrò occasione ancora d'indignarmi, di aver voglia di prender le armi contro il mare di guai e, combattendo, finirli. Ma sarà solo un grido afono il mio, un soffocato vaffanculo.

sabato 13 giugno 2009

La legittimazione

«Chi detiene il potere cerca di giustificare il suo dominio sulle istituzioni collegandolo, come se si trattasse di una conseguenza necessaria, con simboli morali, emblemi sacri e formule giuridiche largamente accettate e riconosciute. Queste concezioni centrali possono riferirsi ad una divinità o a più divinità, al "voto della maggioranza", alla "volontà del popolo", alla "aristocrazia dell'ingegno e della ricchezza", al "diritto divino del re", o alla pretesa investitura straordinaria del governante. Gli scienziati sociali, seguendo Weber, chiamano queste concezioni "legittimazioni" o anche, a volte, "simboli di giustificazione"».

Charles Wright Mills, L'immaginazione sociologica, Il Saggiatore, Milano 1962, (pag. 16)

Una settimana fa, circa 2.700.000 elettori tra i quasi 50 milioni di aventi diritto (uomini e donne cittadini italiani come me e te, o gentile lettore), sono andati a votare scrivendo il nome Berlusconi. Molti commentatori hanno visto in questo una parziale sconfitta, dacché il Presidente del Consiglio auspicava di superare la soglia dei 3 milioni di preferenze. Io invece, e purtroppo, vi scorgo un'ulteriore conferma di legittimazione. Il blocco sociale del centrodestra (vedi analisi malviniane, fra cui questa) fa ancora perno su quest'oscena figura. Ed è naturale: se fosse questo galantuomo ad esserne il leader, molti elettori del Pdl si sentirebbero smarriti. E smarrita, soprattutto, si troverebbe anche la C.E.I.

venerdì 12 giugno 2009

Educazione civica

«I giornali [la televisione] sono e saranno il principio del male nel mondo moderno: nella loro sofistica essi non conoscono limiti, perché possono scendere sempre più in basso nella scelta dei lettori [dei telespettatori]. Con questo essi dragano la fanghiglia degli uomini che nessun governo potrà più dominare [ovvero potrà meglio dominare]. Saranno sempre pochi quelli che in verità vedono la falsità che c'è nell'esistenza dei giornali [delle televisioni], e di questi pochi solo pochissimi avranno il coraggio di esprimerlo: perché per un uomo è addirittura un martirio il rompere con la maggioranza e la diffusione, che poi lo perseguiterà e lo maltratterà senza posa. [...]
L'effetto demoralizzante dei giornali [della televisione] lo si può vedere anche nel modo seguente.
Chissà se in ogni generazione si trovano una decina, i quali - socraticamente - temano più di tutto d'avere un'opinione sbagliata; ci sono invece migliaia e milioni che anzitutto hanno paura di starsene soli, anche se lo starsene soli fosse l'opinione più giusta.
Ma basta che una cosa sia scritta in un giornale [o vista alla televisione], e si può eo ipso esser sicuri che c'è sempre un buon numero che avranno o manifesteranno la stessa opinione: ergo, puoi benissimo anche tu avere quest'opinione.
In verità, se i giornali di oggi [le televisioni] dovessero, come gli altri negozianti, mettere fuori un'insegna, essa dovrebbe portare la scritta: Qui si demoralizzano gli uomini nel più breve tempo possibile, secondo la più grande misura e al prezzo più basso possibile!»

Søren Kierkegaard,
Diario, Rizzoli, Milano 1992, (pag. 181 e 199-200)

giovedì 11 giugno 2009

Un privilegio geopolitico

*

Anni di studio e di duro lavoro, analisi e controanalisi per studiare e riflettere sulla varie vicende geopolitiche del pianeta e, d'un tratto, scoprire che tutto questo sforzo è stato vano. Egregio Lucio Caracciolo, bastava telefonare a Silvio per tenere in piedi la sua prestigiosa rivista: non c'era bisogno nemmeno di scomodare un intervento di Stefania Craxi.


«Ogni tanto, per Silvio, sfiora l’agiografia. “Umano, troppo umano”, “Miniera di saggezza”… Cosa ha imparato da lui?
»
«Moltissimo. Le dinamiche fra i potenti della terra, per esempio. Cose che normalmente ti paiono lontanissime. Ha presente Sei gradi di separazione? Ecco, se sei ricettivo, ascoltando Berlusconi capisci tante cose dei rapporti umani fra i grandi. Ti pare di cogliere i sismi della geopolitica e nella sfera più privata. Come quando visiti la centrale della Nasa: anche se non sei nello spazio avverti una certa ebbrezza. E poi si impara anche dagli errori… Vicino a lui, comunque, ho sempre avuto la sensazione di stare vivendo un privilegio»*.

L'insufficienza della felicità

Una delle possibili analisi del berlusconismo può partire dal suo ostentato ottimismo e forzata joie de vivre. Vivere nel continuo proclama che tutto va bene, che la vita è bella

«è diventato pura idiozia da quando è strombazzato dall'onnipresente réclame [...] Come gli individui hanno troppo poche, e non troppe inibizioni, senza essere per questo di un briciolo più sani, un metodo catartico che non trovasse il proprio criterio nell'adattamento e nel successo economico, dovrebbe condurre gli uomini alla coscienza dell'infelicità, dell'infelicità generale e della propria, indissolubilmente connessa alla prima, e toglier loro le soddisfazioni apparenti attraverso le quali l'ordine odioso si riproduce e si conserva dentro di essi, come se già non li tenesse in pugno dall'esterno. Solo nel disgusto dei falsi godimenti, nella resistenza all'offerta, nel sospetto dell'insufficienza della felicità, anche dove questa felicità esiste ancora, e tanto più dove è acquistata a prezzo della rinuncia alla resistenza - dichiarata morbosa - contro il suo surrogato artificiale, potrebbe affiorare l'idea di una vera esperienza»*.

si potrebbe, cioè, rimpossessarsi della realtà, riconoscere i propri limiti e difetti, farsene una ragione, non cercare d'imporre i nostri miseri io alla (forzata) attenzione degli altri. Abitare la terra...

*Theodor W. Adorno, Minima moralia, Einaudi, Torino 1979 (pag. 63-64)

Titolismo fallico

Br(ivido) Fallico: "Dobbiamo fare qualcosa di grosso".

mercoledì 10 giugno 2009

Il mito è tra noi

«Che il corso delle cose sia proceduto "dal mito al logos" è una costruzione, oltre che falsa, pericolosa, perché ci induce a credere che in qualche punto nella lontananza del passato sia stato compiuto l'irreversibile balzo in avanti in seguito al quale qualcosa fu definitivamente ricacciato dietro di noi, mentre per il futuro restavano da fare solo passi in avanti»*.

Guardiamo il mondo, guardiamo noi. Se ipotizzassimo (impropriamente) un derby tra le due entità mito e logos, chi sarebbe in vantaggio in questa interminabile partita? Il mito, il nascondimento, abita ancora la nostra realtà. Non tutto è decifrabile, poco prevedibile. Gli sguardi umani sono ancora troppo protesi verso un cielo che abbiamo ripopolato di nuovi dèi. E questi dèi odierni sono ancora più temibili e subdoli, giacché più che esigere un'adorazione incondizionata vogliono che li si imiti. "Fate come noi, siate noi" - gridano, e tutti a correre dietro i loro stessi desideri ingaggiando una corsa sfrenata per salire sul loro scranno. Anche chi cerca di resistere stoicamente mettendone in risalto i difetti non fa che amplificare la loro potenza, la loro indubbia superiorità. La critica, spesso (ma non sempre), diventa un alleato inconsapevole di questo nuovo pantheon.
Occorre allora un nuovo gesto prometeico che smascheri definitivamente l'inganno dell'imitazione e del risentimento (le due facce della stessa medaglia): un gesto che spenga la falsa luce che fa brillare questi nuovi miti. Ogni volta che un uomo si erge a dio di un altro uomo, il logos svanisce dietro l'orizzonte. E il tramonto della ragione... li ha già generati, i mostri.

*Hans Blumenberg, Elaborazione del mito, Il Mulino, Bologna 1991 (pag. 52)

martedì 9 giugno 2009

Scrivere sull'acqua


Sopra Le Philosophe lisant di Jean-Baptiste-Siméon Chardin (Musée du Louvre, Paris)

Sono qui e cito. Sono qui e mi rifugio nei pensieri, nelle parole degli altri. Ma perché non fuggo da questa costrizione, perché non mi tuffo in questa impellente primavera in cerca di un pensiero, di una parola autentica, di una parola mia che sia esente dal lampo del già detto, dalle formule icastiche che mi visitano e a cui do voce? Questo pensavo stasera, camminando col cane fuori nei dintorni. Poi, d'improvviso, ho sentito sopra me uno svolazzìo attutito di pipistrello; ne ho osservato quindi il volteggio. Erano in due, nel crepuscolo. I pipistrelli, in realtà, non c'entrano nulla. Rientro in casa, prendo un libro a caso, Nessuna passione spenta, di George Steiner (Garzanti, 1997). Sfoglio e trovo tre versi, fulminanti, di un poeta americano, Ben Belitt tratti dalla sua poesia This Scribe, My Hand

«All is precarious. A maniac
waits on the streets. Nobody listens. What

must I do? I am writing on water.»


«[Tutto è precario. Un maniaco
aspetta nelle strade. Nessuno ascolta. Cosa
debbo fare? Scrivo sull'acqua.]»

Scrivere sull'acqua mi richiama subito alla mente Gesù mentre scriveva sulla sabbia quando tentavano di lapidare una prostituta. Scrivere sull'acqua, scrivere sulla sabbia. Io scrivo qui, lo mando in onda e mi metto all'angolo della strada indossando un classico impermeabile: sotto, la mia anima messa a nudo. Ecco chi è in realtà il maniaco, l'esibizionista. Fino a che punto però potrò essere sincero con me stesso e aprire del tutto il paletot?

Getto lo sguardo sulla pagina successiva e leggo una mia sottolineatura: «lo slogan radicale degli studenti sessantottini dell'università di Francoforte: "Aboliamo le citazioni"».
Cazzo, dovrei abolire il blog, dovrei abolire me stesso.

lunedì 8 giugno 2009

Distrazione e intrattenimento

«Resta il fatto che a dar[e a Berlusconi] un minimo di tranquillità è la mancanza di un’alternativa credibile al suo infausto modo di gestire i problemi reali del paese, che ancora ha in pugno grazie ad una indubbia capacità di distrazione e intrattenimento.»

Così Malvino chiosa un post di lungimirante analisi politica.

Distrazione e intrattenimento: le due armi principali con le quali Berlusconi si tiene ancora in piedi. Perché la maggioranza degli italiani ha bisogno, evidentemente, di essere distratta e intrattenuta. E chi meglio di colui che possiede e controlla la quasi totalità dei media televisivi, di molti della carta stampata; chi meglio di colui ch'è proprietario (vi ricordate come ha fatto a diventarlo?) della più grande casa editrice italiana; insomma, chi meglio di colui che è il principe dell'industria culturale italiana può riuscire a compiere quest'opera di distrazione e intrattenimento, ovvero di nascondimento (della realtà) e persuasione (pseudo-occulta)?

Magre consolazioni



Non è un merito, ci sono nato. Ma sono proprio contento di abitare in Toscana.
(Benché non abbia alcuna intenzione di fare banzai)

Distratte coincidenze

60.

raccomando ai miei posteri un giudizio distratto, per i poeti del mio tempo:
(perché fu il tempo, dicono, della distratta percezione):
è inutile pensare, adesso,
ai neostrutturalisti dannunziani (e a tutti gli “orecchini” che verranno, se verranno):
(come è inutile diagnosticarli, rigidi, questi sciamani di Lucifero, e le loro squisite
disperazioni, tra le fedi e le speranze dell'ultima spiaggia borghese, tra i lampi
ardenti dell'apologetica indiretta apocalittica):
io non sono così, e non voglio
essere così: (e l'altra sera potevo concludere, all'Italsider, confessandomi chierico):
sono un chierico rosso, e me ne vanto:
(e oggi, guarda, mi sorprendo che canticchio,
facendomi la barba, all'improvviso: “Montale, gli ottant'anni ti minacciano...”):

Edoardo Sanguineti, Segnalibro (Postkarten LXVII poesie, 1972-1977), Feltrinelli, Milano 1989

A volte le coincidenze (letterarie) m'inseguono e sorprendono. Leggendo questa poesia, per esempio. Stamani ho ritrovato una vecchia cartellina con dei ritagli di giornale tra i quali scopro un'intervista a Sanguineti (Repubblica, 13 settembre 2000 a cura di A. Gnoli) dal titolo "Io, Edoardo chierico rosso". Di poi, leggendo un saggio di Berardinelli, L'eroe che pensa, Einaudi, trovo citato di passaggio il saggio di D'Arco Silvio Avalle su Gli orecchini di Montale (1965) che fu uno dei primi, e dei migliori esempi, di critica strutturalistica. E di Montale poi, infine, il rimando sarcastico al suo Falsetto con l'Esterina e i suoi vent'anni. Sanguineti, è tanto che non ti vedo: ma prova tu a prendere in mano i resti di questa sinistra sparpagliata insufflandole un po' di genio.

domenica 7 giugno 2009

Dio è amore, eccetera

Tra l'infinitamente grande (macro-universo) e l'infinitamente piccolo (micro-universo) ci siamo noi nel mezzo, nel centro, infinitamente stronzi.

Sì, Dio è amore eccetera. Ma, Dio caro, perché oltre all'amore v'è anche qualcos'altro di non tanto amorevole come l'amore, tipo: malattia, dolore, violenza eccetera?

Lo so che l'amore è quella cosa che ti far stare bene, che ti fa pensare all'esistenza di qualcosa che ti supera, che ti dà la sensazione precisa che davvero ci sia un significato nell'universo: il tenero abbraccio materno, la stretta di mano paterna, le prime amicizie, i primi amori, i primi inaspettati pompini¹, la donna (o l'uomo) a cui giuri amore eterno, l'amicizia vera, la nascita dei propri figli e il vederli crescere sani e felici, vedere i propri genitori invecchiare in relativa salute fisica e mentale eccetera. Ma tutto questo amore “confinato”, grande e splendente, meraviglioso quanto si vuole, quest'amore è sufficiente a dire che Dio è solo amore e ad ammetterne per ciò stesso l'esistenza? È questo che garantisce l'autorità terrena del Papa, del Pope, dell'Imam, del Rabbino, del Dalai Lama eccetera? Perché che cazzo c'entra l'amore sopra detto con tali Autorità e con le religioni che essi rappresentano? Non sono le religioni un limite a tale amore, dei fallaci tentativi di regolamentarlo?

Non so perché, ma non capisco (o meglio capisco) perché tanti fedeli religiosi queste domande non se le pongano, soprattutto non le pongano a coloro i quali essi ritengono, appunto, autorevoli rappresentanti di Dio in terra.


1. «Lo sai perché dovremmo provare pena per un ateo? Perché quando gli fanno un pompino non ha nessuno da invocare» cit. in Jim Holt, Senti questa, ISBN, Milano 2009

Ho sperato di rinascere

53.

mi accorgo che ho sperato di rinascere: e che la forma giusta, invece, per me, era poi questa
che mi porto addosso:
la mia evoluzione si è arrestata a uno stadio di piedi sudaticci,
di narici eccessive (e, in più, eccessivamente irritabili), di costole distorte
come costolette troppo cotte, di forfore, di gibbosità varie: (il resto, se ci tieni,
te lo aggiungi da sola, qui):
sono arrivato a queste conclusioni in un locale che si chiama
“Gobulìe cupolà”, perché si tiene le sue cupole blu, in effetti, in testa,
e che è una ciai-canà (e insomma una casa da tè), dove ho discusso con un Predrag
della catena cosmopolitismo-nazionalismo-imperialismo (e dell'internazionalismo alternativo):
al telegramma, invece, ho rinunciato:
perché mi accorgo che morire, adesso, non mi serve:


Edoardo Sanguineti, Segnalibro (Postkarten LXVII poesie, 1972-1977), Feltrinelli, Milano 1989

Un sano esibizionismo



Riflessioni a margine di un post di Malvino.

Ma non era questa la vera essenza della democrazia? Ossia, che un giorno tutti i cittadini fossero stati coscienti del proprio potere, della propria uguaglianza, della propria libertà? E di cosa si lamentano questi piccoli servi del potere se non rimpiangere i bei tempi andati in cui un'aristocrazia pensava e rifletteva mentre il popolo bue foraggiava le loro facezie?

Il punto fondamentale è che, bene o male, e salvo rare eccezioni, chi si prende la briga di riflettere, commentare, argomentare, discutere, fare agorà, ossia essere vero cittadino è cosa sgradita al potere, a qualsiasi potere, dacché tale cittadino ha preso coscienza, è uscito dalla caverna, dalla “stalla” e si vuole individuo, si vuole re di se stesso, unica cosa legittima e auspicata nei vari regimi democratici.

Il problema è semmai che ancora troppo pochi cittadini pensano, argomentano, sfruttano le meraviglie dell'alfabetizzazione. Pochi sanno in fondo che chiunque può essere intellettuale, basta lo voglia. Chimici, fornai, commessi, maestri, macellai, spazzini, cineasti, assessori, muratori, medici, informatici, agricoltori, commercianti, industriali, operai, telefonisti, vigili urbani, disoccupati, poliziotti eccetera eccetera: tutti siamo intellettuali, tutti possiamo prendere coscienza di questa possibilità. Basta volerlo. Non si corre il pericolo di essere “esibizionisti” a cercare di pensare. Ci si può anche permettere di pensare a cazzo: questo richiede comunque uno sforzo maggiore che nell'esibirlo come il nostro cugino bonobo.



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sabato 6 giugno 2009

Egomania



«Viene naturalmente all'idea "critica" dell'ego unico centro e perno di verità assunta come dogma (cioè presa a controsenso) e volgarizzata. Da una tale idea dell'ego è impossibile passare al riconoscimento dell'altro e della nostra "comunità" con gli altri.
Una volta presi nel vortice dell'egocentrismo è poi evidentemente impossibile trovare un limite qualsiasi all'espansione illimitata e casuale dell'io.

Invece, tutta la morale possibile per chi abbia, come noi, abbandonato la morale cristiana consiste proprio in questo: ritrovare il senso del limite
».

Nicola Chiaromonte, Che cosa rimane - Taccuini 1955-1971, Il Mulino, Bologna 1995 (pag. 84).

Ma come fa a trovare senso del limite il malato di egomania se, tutt'intorno, soffiano a guance piene per tener ben gonfio e sollevato nell'aere tale smisurato "io"? Un io che quando incontra le folle osannanti che gli stringono o baciano le mani sente scendere, su di lui, come accadeva ai re taumaturghi, un alone divino che lo porta a ritenersi in "odore di santità"?
Berlusconi ha una sola, grande fortuna: di vivere in una società in cui la vittimizzazione è diventata una parodia: qualora un domani smettesse di soffiare il vento favorevole del consenso non subirà nessuna espulsione a Colono, nessuna decapitazione, nessuna piazzale Loreto, nessun lancio di monetine.

venerdì 5 giugno 2009

Armati di manico



«Il povero manico che oggi vedete ingloriosamente giacere in quell'angolo dimenticato, io so che un giorno fu fiorente in una foresta; era pieno di linfa, pieno di foglie, pieno di rami; ma ora invano il solerte artificio dell'uomo tenta di gareggiare con la matura, legando quel fastello di ramoscelli secchi al suo arido tronco; nella migliore delle ipotesi esso è ora il rovescio di quello che era un tempo, un albero capovolto con i rami a terra e le radici per aria: maneggiato da qualunque sudicia donnetta, e destinato a eseguire il suo faticoso lavoro, deve, per capriccio della sorte, far pulite le altre cose e sporcare se stesso; infine, ridotto a un moncherino dalle serve, viene buttato fuori dalla porta o condannato come ultimo uso ad accendere il fuoco. Quando io mi accorsi di ciò guardai bene e dissi fra me: certamente l'uomo è un manico di scopa. La natura lo ha creato forte e vigoroso, in floride condizioni, con i capelli in testa, che sono rami appropriati a questo vegetale ragionevole, finché l'ascia dell'intemperanza non gli tagliato via i verdi rami e non lo ha ridotto un arido tronco. Allora egli ricorre all'arte e si mette una parrucca, stimandosi in base a un innaturale fastello di capelli, tutto coperto da una polvere che mai la sua testa produsse; e adesso questo nostro manico di scopa vorrebbe comparire in scena, orgoglioso di quelle spoglie di betulla che mai aveva portate, e tutte coperte di polvere, sebbene spazzata e raccolta dalla camera della signora più raffinata; e noi osiamo anche deridere e disprezzare la sua vanità, giudici parziali come siamo delle nostre squisite virtù, e dei difetti altrui. Ma una scopa è il simbolo di un albero che sta in piedi sulla testa: mentre un uomo che cosa è, di grazia, se non una creatura capovolta, con le facoltà animali che continuamente scavalcano le razionali, con la testa al al luogo dei piedi, un essere che striscia in terra, e pure si erge, con tutti i suoi difetti, a universale riformatore e correttore degli abusi, a oppressore delle angherie: che fruga in ogni sudicio angolo della natura, portando alla luce le corruzioni nascoste, e una gran polvere dove prima non c'era prendendo intensamente e incessantemente parte proprio a quelle porcherie che pretende di spazzar via? I suoi ultimi giorni sono spesi al servizio delle donne, e generalmente delle meno degne. Finché, ridotto al moncone, come la sua sorella scopa, non sarà messo a calci fuori la porta, o adoperato per accendere il fuoco, al quale altri possono scaldarsi».

Jonathan Swift, Meditazioni su un manico di scopa

La necessaria oscurità del mito

«L'oscurità del mito in generale non risiede nella sua forma espressiva: si fonda da una parte sul mistero della sua origine, e dall'altra sull'importanza vitale dei fatti che il mito simboleggia. Se questi fatti non fossero oscuri, o se non ci fosse qualche interesse a oscurarne l'origine e la portata per sottrarli alla critica, non vi sarebbe bisogno di mito. Ci si potrebbe accontentare d'una legge, d'un trattato di morale, o anche d'una storiella che assolvesse il compito di riassunto mnemotecnico. Niente mito fin tanto che sia lecito attenersi all'evidenza e esprimerla in una guisa manifesta o diretta. Per contro, il mito compare allorché sarebbe pericoloso o impossibile confessare chiaramente una certa categoria di fatti sociali o religiosi, o di rapporti affettivi, che tuttavia si ha caro conservare, o che distruggere è impossibile. Non abbiam più bisogno di miti, ad esempio, per esprimere le verità della scienza: difatti le consideriamo in modo perfettamente "profano", e pertanto esse han tutto da guadagnare dalla critica individuale. Ma abbiamo bisogno di un mito per esprimere il fatto oscuro e inconfessabile che la passione è legata alla morte, e ch'essa porta con sé la distruzione per coloro che vi si abbandonano con tutte le forze. La verità è che noi vogliamo salvare questa passione, e che amiamo teneramente questa sventura ad onta che le nostre morali ufficiali e la nostra ragione le condannino. L'oscurità del mito ci pone dunque in grado di accogliere il suo contenuto dissimulato e di goderne una consapevolezza abbastanza chiara perché scoppi la contraddizione. Si riesce così a porre al riparo dalla critica certe realtà che sentiamo e intuiamo fondamentali. Il mito esprime queste realtà, a soddisfazione delle esigenze del nostro istinto, ma al tempo stesso le occulta in quanto la piena luce e la ragione le potrebbero minacciare».

Denis de Rougemont, L'Amore e l'Occidente, (Paris, 1939), trad. it. Rizzoli, Milano 1977

giovedì 4 giugno 2009

Del suicidio



Avevamo tredici-quattordici anni e, io e un mio caro amico, avremmo voluto essere lui, l'eroe di Kung-fu.

Il filosofo siciliano Manlio Sgalambro definisce il suicida: un «magnifico esecutore degli ordini del fato»; ma appunto perché si muore, ineluttabilmente, quale prigione invalicabile, quale dolore insormontabile, quale gioia suprema, portano un essere pensante alla morte? Leggiamo questa lettera, per la quale credo, in passato, lo stesso Sgalambro fu accusato di istigazione al suicidio (se non ricordo male, ma non chiedetemi le fonti, ricordo a braccio).

«Cara amica, scrive Anatol, voi mi chiedete, in nome della più spietata clarté, che mi autorizzate ad adoperare anche contro di voi, di rispondervi su una questione sempre urgente come quella del suicidio che, voi notate, non trova udienza particolare nella filosofia odierna. [...] Procurerò dunque di rispondervi, brevemente com'è decenza in queste cose. Capisco il vostro giovanile wertherismo. Ma rispondetemi: sino a che punto c'è causalità nel dolore? Ricordatevi, il dolore è una cosa passata. Il segno che resta nella coscienza mentre il corpo ha già dimenticato. Ascoltatemi, trattate i moti dell'animo come i moti dell'intestino. Un giorno bisognerà certo spararsi, ma per intanto viviamo. ("Io sono" non significa "io esisto", secondo la dabbenaggine di Descartes, ma io non mi sono ancora ucciso. Nell'epoca della fine del mondo questo è cartesianismo). Quanto al nostro discorso, sappiamo entrambi che per l'eroe morale esso è sempre possibile, egli ha sempre aperte le porte del mondo, da cui uscire come per una passeggiata. Sorride e tira alla tempia. Via autorizzo a uccidervi, sì, ma solo in un momento di gioia.»¹

Il dolore è nel ricordo, in esso vive e si trascina con noi e, terribile, si ripresenta di quando in quando con tutta la sua forza; per questo, con crudele ironia, Sgalambro ci invita a paragonare i moti dell'animo (il dolore) ai moti dell'intestino; ma ancora più terribile e sarcastico l'invito a uccidersi per realizzare la pienezza del proprio io. Suona un po' come il suicidio di Kirillov, nei Demoni, il suicidio voluto per proclamare l'Arbitrio della propria volontà alla luce della morte di Dio. «Se Dio non c'è, io sono un dio» grida il personaggio dostoevskiano sostenendo la necessità di uccidersi per proclamare con forza la propria assoluta libertà.

«“...tutta la volontà è diventata mia. Possibile che nessuno su tutto il pianeta, avendola finita con Dio e avendo posto fede nell’arbitrio, osi proclamar l’arbitrio, nel senso piú completo? È come un povero che abbia ricevuto l’eredità e si sia spaventato, e non osi avvicinarsi al sacco, stimandosi impotente a possederlo. Io voglio proclamar l’arbitrio. Sia pure da solo, ma lo farò [...]Io sono obbligato a uccidermi, perché il momento piú alto del mio arbitrio è uccidere me stesso.”»

E a chi gli chiede che esistono altri suicidi, Kirillov replica che lui sarà l'unico ad uccidersi «senza alcuna ragione, ma solo per l’arbitrio» e in questo consisterà la sua unicità. Unicità però resa impossibile dalla pretesa kirilliana di perseguire diabolicamente, un'autentica imitatio Christi. Cristo è il modello affascinante per eccellenza dei demoni. Kirillov si uccide cercando di ripetere, come un calco negativo e infernale (demoniaco appunto) il dramma della Croce.

Ma la vera via per imitare Gesù è un altra, da lui stesso indicata. Siate perfetti come perfetto è il vostro Padre nei cieli, come a dire: non imitate me, imperfetto e sconclusionato, imitate Colui che è, l'Essere di questo mondo così come è ora, frutto di una evoluzione; uno strano Essere che si trasforma e che non sa dove vada, sballottato da venti polari e interstellari. Siamo qui in questo spazio tempo, viviamo la nostra vita come possiamo, non facendo di essa una “stucchevole estranea” (Kavafis). Le nostre cellule spariscono quotidianamente, il nostro corpo si trasforma, moriamo un po' tutti i giorni. Che la nostra mente non sbatta come una farfalla contro la luce nera del nulla: questo è l'augurio, cara amica. Non fidarti troppo dei filosofi che cercano di stupire con la loro sagacia. Non sarà molto chiaro e forse sarà un po' disonesto quello che ti dico; ma preferisco porgerti un leggero inganno, come una carezza, perché so - m'illudo di sapere - che un abbraccio è più forte del secondo principio della termodinamica.

Sono addolorato, caro David, profondamente addolorato che in quella stanza d'albergo non ci sia stata nessuna mano amica a te vicino.

(P.S. del giorno dopo. Gioco autoerotico? Scusate l'ingenuità: che vuol dire? Per avere un tiramento ci si mette la corda al collo?)

1. Manlio Sgalambro, Anatol, Adelphi, Milano 1990, pag. 91-92