mercoledì 19 maggio 2010

Un dito sul petto

In memoria di un fotoreporter e di due soldati (grazie a Milleorienti)

«I due sono in un soi sperduto, lungo le nere acque mortifere di un klong (tra poco spieghiamo tutto). Se il calore si potesse liquefare, sarebbero immersi fino alle caviglie nell'acqua bollente, invece ti sta appiccicato addosso come una cosa stretta e calda. Uno dei due è un viaggiatore, si vede subito. I thailandesi non si portano dietro niente, lui sì. Ha una specie di borsa da postino, ci tiene le sue cianfrusaglie. La carta geografica di Bangkok (Bangkok è un paese), il passaporto (in modo da poter verificare ogni tanto la propria identità), il suo quaderno per appunti rilegato in lino rosso (in cui deve annotare quel viaggio), un po' di questo, un po' di quello, di tutto un poco. È troppo ingombrante, quel tascapane, e dà molto nell'occhio. I poveri che gli passano accanto o stanno graziosamente adagiati per terra (i ricchi viaggiano in automobile) lo guardano con desiderio. Nel soi [via trasversale di una grossa arteria trafficata] la grande città sembra improvvisamente molto lontana. I due sono fermi sotto un albero dal colore verde intenso. Dietro uno steccato di legno cadente si leva una musica incantatrice, una musica thailandese. Parole di misteri, suoni di velluto. L'odore non è buono, da qualche parte c'è una botola aperta sul mondo degli inferi. Il viaggiatore indietreggia un poco perché l'altro gli ha puntato un dito sul petto. Ma... è proprio un dito? Al sole sembra una punta di freccia dorata. E quando le foglie spesse e grasse dell'albero tropicale si spostano davanti al sole, somiglia a un lucido pennino per incidere. O qualcosa del genere. A ogni modo è puntato dritto sul petto del viaggiatore. Ma l'uomo che minaccia in realtà ha un viso simpatico. Facile, tanto non esiste».

Cees Nooteboom, Il Buddha dietro lo steccato, Feltrinelli, Milano 1997

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