domenica 31 ottobre 2010

Beneficenza: intelligenza o deficienza?


Su Il Sole 24 Ore di oggi si può leggere, a pag. 13, un articolo di Gideon Rachman, giornalista del Financial Times, «Il business più bello? È la beneficenza. Bill Gates racconta i suoi progetti suoi e di sua moglie per debellare l'Aids, la malaria e la poliomelite». Titolo originale dell'articolo: «Lunch with FT: Bill Gates». Senza questo titolo non si capirebbe, poi, l'epilogo dell'articolo. Eccone alcuni stralci, nella traduzione di Lidia Filippone.

«Sono seduto su uno sgabello da bar. Dall'altra parte di un tavolo rotondo di metallo, il secondo uomo più ricco del mondo sorseggia una Diet Coke, mangia patatine fritte con le dita e mi spiega la storia del vaccino antipolio. Bill Gates sarebbe ancora l'uomo più ricco del mondo, se non continuasse a regalare i suoi soldi. Adesso, dopo aver donato 28 miliardi di dollari alla Bill & Melinda Gates Foundation – che finanzia cause umanitarie nel campo della salute, dello sviluppo e dell'istruzione – è rimasto con gli ultimi 54 miliardi di dollari […] Avvistiamo una cameriera e Gates ordina una clam chowder e un cheesburger. Prendo anch'io un cheesburger, con una salsa al granchio, e ci mettiamo a parlare della vita a Seattle».

Prima cosa rilevare: una dieta simile fare rizzare tutti i capelli in testa a un Ceronetti o a un Pietrini (per es.). D'accordo, però questa mi sembra una considerevole prova che ciò che si mangia non determina ciò che si è. Proseguiamo ancora un po' la lettura.

Gates «Mi racconta che guida ancora personalmente la macchina per la città. Incuriosito dalla sua mancanza di ostentazione, gli chiedo se ha degli hobby costosi. Non proprio, il suo gioco preferito è il bridge e “per quello basta un mazzo di carte”. Allora è un asceta? Gates si schernisce: “No... Ho un bell'ufficio. Ho una bella casa... Non mi nego molte cose stupende. È solo che non ho un hobby costoso”».

E soprattutto: non compromettente, ehm ehm...

«A qualche chilometro di distanza, però, sorge la villa hi-tech di Gates, che si dice valga 125 milioni di dollari, completa di biblioteca con una citazione da Il grande Gatsby sul soffitto».

A villa san Martino, o a palazzo Grazioli, sul soffitto delle biblioteche, cosa vi sarà scritto? Amo la vita e le belle donne? Oppure vi sono lucernari ove, sul far dell'estate (e non solo) brillano la sera, verso mezzanotte, splendide lucciole?

Digressioni a parte, l'incontro con Gates prosegue in modo molto interessante e simpatico.
Mi piace, di Gates, la sua “voglia di sapere” e il suo essere disposto a “imparare” di nuovo.
Mi piace la sua posizione politica, very liberal. Leggete quello che pensa a proposito della Cina e del pericolo cinese e vi renderete conto. Divertente il finale, che riporto:

«Bevo il mio caffè e chiedo il conto. Mentre estraggo la carta di credito, Gates ha un'aria leggermente divertita. “Sicuro di voler pagare lei? – chiede – Ho molti soldi”.
Non ne dubito. Ma la regola prevede che sia il Financial Times a pagare il pranzo. Non vogliamo chiedere la carità di Bill Gates. Ci sono molti altri disposti ad accettarla».

Berlusconi, uomo generoso, di cuore, che aiuta chi ha bisogno, spero che qualcuno gli abbia messo sotto gli occhi questo articolo la sera prima di andare a dormire. Ci sono molti altri, con e senza tette, con e senza culi, da diciotto a novantotto anni a chiedere la carità e disposti ad accettarla.

A parte. Leggere questo post di Federica, mi raccomando.
Ancora più a parte. Io uso Linux, Ubuntu 10.

sabato 30 ottobre 2010

Piero, io vorrei che tu, Luigi ed io...


Stamattina sono stato a ri-trovare Piero. Era tempo che non lo facevo, da quando v'erano i ponteggi per il restauro degli affreschi (lì si che lo potevi vedere vis-à-vis). Sono entrato nella basilica di primo mattino soprattutto per schivare l'aria fredda, tagliente, e per non aspettare fuori, in piazza, l'arrivo di un caro amico (ero in anticipo). Sono entrato, dicevo, e dentro non v'erano che due persone: un anziano inginocchiato che sillabava mute preghiere e una giovane donna di bell'aspetto che s'apprestava a uscire dopo essersi fatta il segno della croce. Mi sono tolto il cappello, sono entrato in Cappella (de' Bacci) e mi sono ri-letto e ri-goduto la Leggenda dal vivo, solo, in silenzio.
Ripercorsa la narrazione, sono uscito. L'amico era fuori, davanti ai Costanti, puntuale, dieci mesi che non ci vedevamo. Due ore di piacevolissima conversazione davanti a un caffè.
Casa. Leggo questo post di Malvino, ripenso alla Leggenda, soprattutto alla battaglia di Eraclio e Cosroè, e mi chiedo due cose: la prima, se la Chiesa Cattolica avesse oggi a disposizione un potenziale bellico come quello ai tempi di Eraclio, essa sarebbe allo stesso punto della sinusoide perseguitati-persecutori-perseguitati? La seconda, se Piero fosse vivo oggi quale tipo di Leggenda racconterebbe? Per esempio, gli sarebbe consentito di torturare ebrei?

Sali & Tabacchi

Sono stato a un Sali & Tabacchi,
ho comprato solo sale
non tabacco:
avevo voglia di conservarmi.
Mi sono fatto insaccato,
mi sono spalmato
la pelle di sale e di aromi
con mani sapienti, norcine.
Se qualcuno mi passa vicino
gli comincia la salivazione
e chiede due etti di me.
Ho sempre sognato
di diventare affettato
carne vicina all'osso.
Jamón Massaro e melone:
la prego signora mi assaggi
mi addenti, mi dica
se ho sapore di vita.


venerdì 29 ottobre 2010

Blob e l'Assoluto

«[Quanto] è successo mercoledì sera non doveva accadere. Non doveva in assoluto, ma in particolare su una rete del servizio pubblico. Per portare fino in fondo un raffinato giochino intellettuale, Blob non si è minimamente preoccupato di rispettare le regole, alle quali evidentemente si sente geneticamente superiore. Le regole della fascia protetta. Le regole del buon gusto e del buon senso, la regola che ti dice: rispetta sempre la sensibilità della gente, non offenderla mai gratuitamente; perché si sa che la quasi interezza del pubblico, a quell’ora, non può possedere l’abilità critica per decodificare il giochino».

Mi piacerebbe far sapere a Umberto Folena che scrive questi editoriali assoluti su Avvenire, «che la quasi interezza del pubblico» tra le 20 e le 20,10 non guarda Blob su Rai Tre, ma qualcos'altro (purtroppo). E altresì che, di contro, chi lo guarda (Blob appunto), oltre a «possedere l'abilità critica per decodificare il giochino», non si sente affatto geneticamente superiore al resto del pubblico: memeticamente sì, e lo sfido del contrario. Venga Folena venga, accertiamoci chi ha più stronzate in testa. Può darsi io, non lo escludo, ma anche se così fosse com'è bello essere infettato da memi differenti dai suoi.

Un concavo che allude a un convesso



Cosa cambia l'uomo? O sono delle conversioni ideologiche e/o spirituali (da Damasco ad Arcore), o l'amore. Per restare in campo politico: guardate Fini da quando è innamorato della Tulliani.
Il problema principale di Berlusconi è che, da troppo tempo ormai, non è più innamorato di qualcuno/a. Per vedere l'ultima volta ch'è stato innamorato, infatti, bisogna risalire ai tempi in cui corteggiava l'ex attrice ed ex moglie Veronica Lario. Se non ricordo male, egli andava a teatro a vederla e la tempestava di rose rosse dopo ogni spettacolo. La storia la conosciamo: Veronica cedette alle avances del Cavaliere, si sposarono ed ebbero tre figli.
Da quando l'innamoramento di Berlusconi verso Veronica è finito egli, mi sembra, non abbia più avuto occasione di (ri)vivere simile esperienza.
Questo per una ragione principale: si può essere o diventare innamorati di qualcuno/a solo se, dentro noi, sentiamo, percepiamo una sorta di vuoto di essere. Chi lo può riempire, colmare questo vuoto? La persona amata. La condizione per vivere l'esperienza dell'innamoramento è questa: sentire che dentro noi esiste uno spazio, un concavo che allude a un convesso (che attende un convesso), per raggiungere una pienezza d'essere prima inconcepibile e, di fatto, irraggiungibile veramente: solo la magica unione di due innamorati può considerarsi, a giusto titolo, bastante a se stessa.
Chi è pieno di sé, chi si sente autosufficiente, chi si dichiara invincibile, chi non confessa mai alcuna debolezza interiore vera, insomma: chi è innamorato di sé non potrà mai vivere (o rivivere) questa esperienza unica, ineguagliabile.
Proclamare, come fa Berlusconi, la propria autosufficienza ontologica è chiara patologia: l'essere umano, chiunque sia, è, per definizione, imperfetto, e su questa imperfezione fonda la sua vera natura. La malattia ontologica prevede varie gradazioni, ma i suoi vertici di pericolosità si raggiungono quando o si è troppo pieni di sé o di sé troppo vuoti. La normalità, la sanità ontologica (vorrei dire mentale) sta nel mezzo (o quasi: l'angolo giro dell'essere può essere più o meno esteso: la migliore condizione, per stare bene è stare tra i 200° e sotto i 300°¹. Angolo concavo dentro di noi, dunque, sufficiente autonomia, ma non pienezza di sé).
Il problema di fondo è che, come tutte le malattie ontologiche, anche quella di Berlusconi è contagiosa: egli ha impestato molta gente con la propria sicumera, molti Sancho Panza che vivono nella luce riflessa della pazzia del loro Cavaliere Aberrante.


¹L'ideale, direte, sarebbe un angolo piatto (180°): due metà che si uniscono e saldano perfettamente. Ma l'ideale lo lascio all'idea, alle anime gemelle, ai pochi fortunati che lo vivono veramente.

giovedì 28 ottobre 2010

Le spire del dire

Andante palazzeschiano
Avere da dire, soffrire, non dire,
ingoiare il non detto
per non soffrire da reietto.
Non sparire tra le spire;
e tu mi volevi venire a dire
che io avrei dovuto dire...
Ma io, le ho detto, non posso
- Come non posso? - ha risposto
- Non vuole, è cosa diversa.
Allora il mio dire ha fatto,
per così dire, traversa.
Il silenzio è comparso:
mi sono dato indisposto,
mi sono morso un orecchio,
mi sono fatto sordo
nel rifiuto di guardare lo specchio.
Ho chiamato un garante
per difendermi da me stesso
che prendesse le veci
di questo io ormai vecchio
che non riesce a dire o a non dire.
Alla debole luce di un Venere
vicino, mi privo del caldo,
della parola, la lascio stampata,
qui, sola, beneducata
ché detta diventa suono beffardo.
Dottore, dottore mi aiuti
a dire alla vita che passa davanti
a dirle qualcosa, qualcosa che resta
e magari si stampi come un'ombra
che fissa i contorni
del mio malcerto cammino? - Bravo
è sulla strada giusta, ritorni
giovedì prossimo, stessa ora
stessi pensieri di scavo, di testa.
Si sforzi durante la settimana.
Dottore, ma porca puttana
io mi sforzo, mi sforzo;
ma nel dire sono bloccato,
il dire mi sembra un reato;
il mio corpo non dice, dottore,
mi offra un microclisma
per espellere questa anima compressa
mai in pace con me, né con se stessa.
- Si disgiunga, si sdoppi, si autocommissioni
una parte in deroga, mandi avanti
colui che le sembra nascosto,
il suo io recitante, che interpreti
quello che lei vorrebbe dire e ridire.
Ma dottore! io mi sento morire
se mi scambiano l'io per un altro,
un io che non mi rappresenta
un io ch'è solo una ripetuta assenza.
- Si calmi, il suo tempo è finito. Ora vada:
rimetta il soprabito, conosce la strada.

mercoledì 27 ottobre 2010

La paura di ogni padre è di avere un figlio come Langone

Qual è la paura di ogni
padre? Di avere un figlio
adultero? Figuriamoci. Un figlio evaso-
re fiscale? Non prendiamoci in giro,
ogni padre andrebbe fiero di un figlio
capace di liberarsi dalla schiavitù delle
tasse. La paura di ogni padre è di avere
un figlio frocio. Forse oggi più di un
tempo perché nelle antiche famiglie nu-
merose qualcuno che si prendesse la
briga di produrre nipoti lo si trovava
sempre, mentre invece nelle odierne fa-
miglie striminzite basta la disgrazia di
un figlio poco propenso e addio cromo-
somi. Vendola e Grillini, avanguardisti
dell’estinzione, possono ridere di Rocco
Buttiglione (che da buon cristiano ha ri-
cordato che l’omosessualità è peccato)
perché loro di figli non ne hanno, e che
ne sanno. Ma un padre queste cose le sa.
Camillo Langone, Preghiera, Il Foglio 27 ottobre 2010


Non lo so se mio padre abbia mai avuto questa paura. Se fosse vivo, seduta stante glielo chiederei. Ma dato che egli ora vive solo nel ricordo, cerco nei miei – da lui tramandati – 23 cromosomi per sapere se anch'io possa un giorno pensare così, vale a dire come pensa e scrive e prega il Langone. Se così fosse, vi prego, sputatemi addosso. Certo, riguardo al mio essere padre io ho due femmine e il rischio è un po' diverso; e poi abito un'epoca e in una società in cui mi pare facile pensare diversamente dal Langone. Ma, in fondo, quando uno conquista qualcosa, come un w.c con lo sciacquone Geberit a doppio tasto per regolare il flusso dell'acqua, non è mica che per farsi eccentrico pensatore uno cominci a farla nel lavandino o nel bidet, così per fare i dispetti e farsi notare dalla mamma. Suvvia Langone sia più educato e, soprattutto, se ci tiene tanto alla produzione della prole, si trovi una neocatecumena compiacente e, invece di pregare, ci dia sotto se ce la fa.

Luca's Version 2


«“I tuoi cinque zecchini, dall’oggi al domani diventeranno duemila”, disse la Volpe. “Duemila!” ripeté il Gatto. “Ma com’è mai possibile che diventino tanti?” domandò Pinocchio, restando a bocca aperta dallo stupore. “Te lo spiego subito”, disse la Volpe. “Bisogna sapere che nel paese dei Barbagianni c’è un campo benedetto, chiamato da tutti il Campo dei miracoli. Tu fai in questo campo una piccola buca e ci metti dentro per esempio uno zecchino d’oro. Poi ricopri la buca con un po’ di terra: l’annaffi con due secchie d’acqua di fontana, ci getti sopra una presa di sale, e la sera te ne vai tranquillamente a letto. Intanto, durante la notte, lo zecchino germoglia e fiorisce, e la mattina dopo, di levata, ritornando nel campo, che cosa trovi? Trovi un bell’albero carico di tanti zecchini d’oro, quanti chicchi di grano può avere una bella spiga nel mese di giugno.” “Oh che bella cosa!” gridò Pinocchio, ballando dall’allegrezza “appena che questi zecchini gli avrò raccolti, ne prenderò per me duemila e gli altri cinquecento di più li darò in regalo a voi altri due.” “Noi, gridò allora la Volpe, non lavoriamo per il vile interesse: noi lavoriamo unicamente per arricchire gli altri.” Non so perché mi abbia preso l’impulso di riportare la storia all’idea che Paolo Mieli e Massimo D’Alema stiano consigliando Gianfranco Fini». Andrea's Version del 27 ottobre 2010.


Sì, può darsi benissimo che D'Alema e Mieli stiano consigliando Fini come Marcenaro intende. Ma, se così fosse, il loro obiettivo non è impiccare a un ramo di una grande quercia il Presidente della Camera dei Deputati, bensì un altro burattino, al quale crescono i capelli e non il naso.

In onda

Lucas stamani si è alzato così.

martedì 26 ottobre 2010

Mamma gli Gnostici!

«Più o meno consapevolmente, le tesi che sostengono [i laicisti] vengono presentate come verità indubitabili, come certezze assolute, perché hanno il loro fondamento nel razionalismo illuministico e nelle scoperte scientifiche. A ben riflettere, tuttavia, tanto la ragione illuministica quanto la conoscenza scientifica devono fondarsi innanzitutto sulla kantiana consapevolezza dei propri limiti, devono essere costantemente critiche e autocritiche, perché la conoscenza umana è appunto fallibile e ci si deve accostare alla verità con l’umiltà di chi sa di non sapere o di incorrere facilmente in errore. Nel linguaggio del laicismo e dell’ateismo scientista si trova invece tutto meno che l’umiltà intellettuale; anzi, per chi ha qualche familiarità con la tradizione gnostica, vi si scorge lo stesso atteggiamento 'sapienzale' unito a una certa saccenteria. Ma la convinzione di detenere in esclusiva la verità non è il solo elemento che ci conduce a considerare i laicisti come dei nuovi gnostici. Ad esso si accompagna infatti la loro esplicita tendenza a dividere in due la comunità umana proprio come faceva l’antica gnosi: da una parte i non credenti seguaci della sola dea ragione e unici protagonisti del progresso sociale, civile e culturale; dall’altra i credenti, inesorabilmente condannati alla dimensione della subcultura religiosa».

Roberto Timossi, dalle pagine di Avvenire di oggi (pag. 27), potrebbe anche aver ragione, ma – a ben riflettere (per lo meno io ci ho riflettuto) – «la kantiana consapevolezza dei propri limiti» e «la convinzione di detenere in esclusiva la verità», mi sembrano più appannaggio dei chierici (credenti o non credenti) che dei laici (credenti o non credenti).
Se la Gnosi è un vizio, i veri laici è da un pezzo che hanno smesso di fumare.

Come una pera matura

Il mezzo della vita

Di gialle pere il suolo
e colmo di rose selvagge
pende nel lago, voi cigni del cuore,
e il capo di baci ubriaco
nell'acqua tuffate
ch'è santa e non turba.


Ahimè, dove li prendo,
ora ch'è inverno, i fiori, e dove
del sole la luce, della terra
l'ombra? Al freddo muti
se ne stanno i muri, nel vento
stridono le banderuole.

Friedrich Hölderlin, Alcune poesie di Hölderlin, Einaudi, Torino 1982 (traduzione di Gianfranco Contini).

Gioia ogm

Un uomo, una penna, una pena, una noia:
speriamo che tutta la gioia
manipolata non sia
geneticamente
ma sfiorata da mani di fata, da niente
che male faccia o male sia.

Quasi quasi metto una bomba
dentro me stesso, dentro questo vuoto d'essere
per vedere se ancora più a fondo
possa andare, alle dimesse
vestigia d'uomo destinato alla tomba:
povero cavernicolo, ossa sparse,
già di per sé abbastanza fossilizzato
da tristi legami.
Ma tu dimmi se in fondo mi ami
così esisto, resisto, mi vedo
mi distinguo tra le comparse.

E se esco lo schiaffo del vento
mi regala un sorriso
e non il ghigno perennemente spento
che trasforma in muso il viso.

(Così sento la mia faccia disegnarsi
ritrovare un profilo che temevo perduto
che qualcuno un tempo aveva visto nel muto
ritratto di un pianista del Cinquecento).

lunedì 25 ottobre 2010

Gli scrittori e lo zero

Ieri sera, intervistato da Fazio, Sandro Veronesi - dopo aver presentato il suo ultimo romanzo XY - ha detto, riprendendo una famosa frase di Alberto Moravia, che gli scrittori valgono zero, che insomma non contano nulla, non hanno alcuna rilevanza "politica". Certo, è vero: in Italia abbiamo Berlusconi, in Russia hanno Putin... ma in America hanno Obama. Obama non è forse un figlio della narrativa americana contemporanea migliore (e non solo americana)? Boutade a parte, io penso che non sia completamente vero l'assunto di Moravia, ripreso da Veronesi.
Non lo è soprattutto per una ragione: gli scrittori, quelli veri, quelli che più si legge e si ricorda e che maggiormente vengono editi, letti, tramandati, non hanno mai avuto la pretesa, attraverso le loro opere, di raddrizzare il legno storto dell'umanità: non hanno mai auspicato società perfette, non hanno mai teso trappole assolutistiche per la moltitudine. Alcuni hanno pure profetizzato, presagito scenari che poi, puntualmente, si sono verificati, alcuni anche peggiori da come erano descritti. Ma questo non ha mai voluto dire che la loro narrazione visionaria doveva diventare la gabbia nella quale rinchiudere l'inquietudine umana. Gli occhi dello scrittore svelano barlumi di senso ovunque, che il lettore, il singolo lettore, individualmente e mai collettivamente, può cogliere per assumere come un farmaco da prendere con le dovute precauzioni. Troppa luce a volte può essere accecante, occorre sempre filtrarla con le dita di una mano, come avviene con lo shock della luce artificiale in un brusco risveglio notturno.
Soprattutto: una delle ragioni per cui le parole dello scrittore sembrano valere zero è perché esse sono arte cristallina: esse non possono sopportare di essere fossilizzate in slogan politici d'accatto. La descrizione di un tramonto, o di un biscotto inzuppato in una tazza di tè del pomeriggio, non potranno mai essere ritorte dentro la vuotaggine della retorica politica, non potranno mai essere espresse dentro un consiglio di amministrazione. Tali parole sono lì, alla portata di chiunque, di individui soli che tirano fuori il loro salvagente per non affogare nel mare dei luoghi comuni che li circondano. Leggete una frase, una sola di Nabokov, per esempio, e poi non sorprendetevi se davanti a voi vedrete brillare un sorriso di completa soddisfazione intellettuale.

«Un sentimento beato riempiva tutto il suo essere, una nebbia pulsante che di colpo si metteva a parlare con voce umana. Nulla al mondo poteva uguagliare quegli istanti. Inchìnati al dio immaginario, onora ciò che entra senza porte dalla periferia del sogno, il raro, il dono che la plebe manda a morte. Come alla patria giura fedeltà ai giochi d'illusione e fantasia. Soltanto i cani vegliano in città. La strada è buia. Un'auto porta via per sempre l'ultimo usuraio. È l'ora dei poveri, dei folli, dei poeti. La notte estiva è così sonora, e inventa sempre nuovi alfabeti... La foglia, guarda, accanto a quel lampione, ha un abito di verde taffetà: stasera ballo in maschera! Al portone si è incollata l'ombra di Baghdad. La luna strizza l'occhio a Pietroburgo. Oh, giura che - -».
Vladimir Nabokov, Il dono, Adelphi, Milano 1991 (pag. 199 traduzione di Serena Vitale)

domenica 24 ottobre 2010

Alleanze monoteiste

Scena. La Farnesina, sala riunioni.

YHWH Scusate il ritardo.
ALLAH Sempre ultimo te.
DIO Su, porta pazienza: è il più anziano tra noi.
ALLAH Va bene, va bene. Ma anche tu, insomma, potevi venire da solo.
DIO E dài: io sono uno e trino.
YHWH Questa storia non mi ha mai convinto. Va bene lo Spirito Santo, è incorporeo e diffonde un profumo soave. Ma come ti sei permesso di portarti dietro quel capellone del tuo figliolo in questa sfarzosa sede diplomatica? Puzza come una capra, almeno potevi dirgli di farsi una doccia.
DIO Lo so, lo so... sono anni che mi fa penare, non mi vuole dar retta. Addirittura una volta mi accusò di essere impotente, a me, che l'ho generato.
ALLAH Ah ah.
YHWH Ma insomma, bando alle ciance. Perché ci hanno invitato qui? Lo sapete? Che a me tutta questa umidità non fa per niente bene.
ALLAH È stato il ministro degli esteri italiano a invitarci per proporci una Santa Allenza monoteista contro gli atei che cominciano a prendere campo e a diffondere maldicenze su di noi.
DIO Preoccuparsi degli atei? Ma se sono quattro scalzacani. O che ci stanno a fare i nostri preposti terrestri? Che se la sbrighino da soli.
ALLAH È questo il punto: Frattini ha chiamato noi perché da soli i nostri preposti non riescono a mettersi d'accordo.
YHWH Per forza, son sempre a litigare su chi di noi sia più bellino e meritevole di lode. M'hanno fatto du' coglioni che se esplodo gli rimando un diluvio universale.
DIO Che proponi per caso una nuova panspermia galattica?
YHWH Sì, una bella trombata generale, come suggerisce il mio psicanalista privato, Sigmund.
ALLAH Ma voi pensate sempre a questo? A me invece eccitano le armi, le spade, le bombe. Suvvia, datemi una mano, lasciate che i miei cari iraniani costruiscano le loro belle bombettine e poi ci si gode lo spettacolo come il Dottor Stranamore.
DIO O Allah, non hai mica più dieci anni, o smettila di giocare ai soldatini. O manda un altro profetino, un po' meno rissoso e con la barba meno a punta, che riesca a calmare le acque e proponga pace amore e libertà.
ALLAH Che segaioli che siete diventati.
YHWH Non è questione di essere segaioli. È che lo spettacolo umano ancora mi diverte. Vederli arrabattarsi, combinarne delle belle, arrivare a credere che persino noi non esistiamo. Allah, non avere tutta questa fretta, tanto le supposte nucleari prima o poi, un giorno se le infileranno e tu sai dove. Lasciamoli giocare, divertirsi: ma non vedi da che gente amano farsi governare?
DIO Già, e questo ministro italiano non capisce proprio un beneamato...
ALLAH Però via, l'è un bel palazzone questo. Ora capisco perché quel rintronato del mio Gheddafi ci viene volentieri a bivaccare a Roma.
DIO A proposito, dopo che avremo finito la riunione, mi accompagnereste in Vaticano? Non mi va di andarci da solo a trovare il mio rappresentante ufficiale. Mi fa venire il latte ai ginocchi.
ALLAH Ok, però promettimi che mi farai avere una divisa e un'armatura da guardia Svizzera.
YHWH E a me, di visitare la Cappella Sistina: ancora non ho visto come mi ha disegnato Michelangelo.

sabato 23 ottobre 2010

Dello sfilarsi una camicia

«Sono a posto, a postissimo, la pigrizia e l'impazienza si mescolano nello sbadiglio, provo a sfilarmi la camicia senza terminare di sbottonarmi, forse senza neppure cominciare. La mano saggia il brivido svogliato della schiena, racimolando le grinze traboccanti dai pantaloni, questo gomito si piega nel conato scarsamente convinto, la mia testa è prigioniera del grigio, dovrebbe essere già fuori, ma qualcosa si è ovviamente inceppato nel meccanismo. Il popeline mi soffoca, mi costringe ad ansare, quel bottone resiste sul mio polso quasi fosse un chiodo confitto nell'osso, vano sperare che il gomito vinca l'opposizione. Ma non ho scelta, il grigio stinge, inumidito dal mio ansare, ho smarrito il senso dell'orientamento, la facoltà di verificare l'esatta posizione della mano che annaspa, del collo che si torce. Meschino gomito denigrato, il chiodo si sconfigge, il grigio mi abbandona la bocca, i buchi del naso, gli occhi, guardo il bottone sul pavimento, e non so considerarmi salvo».

Oreste Del Buono, I peggiori anni della nostra vita, Einaudi, Torino 1971

La politica rotta, la politica amata

Io non sarò mai un politico, non potrò mai risolvermi a un impegno politico serio, di quelli di partito o di movimento (di corpo o di anima). E la ragione è semplice: io non sopporto le incrostazioni del linguaggio, la perenne volontà del politico di professione di fare del linguaggio un abominevole luogo comune, di privare ogni parola del suo significato originario; il politicante, per fare il simpatico, l'originale o lo pseudorivoluzionario, trasporta sì la parola nell'agone politico, ma la devitalizza, le toglie le nervature, le sfumature, le ambiguità, la rende innocua e soporifera. Il politico parla sempre per frasi fatte e, dato che l'esercizio lo impone, deve reiterare a molteplici microfoni tali frasi; e le parole in esse contenute sono talmente sfinite di sentirsi ripetere a vanvera che si arrendono al vuoto semantico e si sgonfiano di ogni significato.
Prendiamo la parola rottamazione. Il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, baldo trentacinquenne, dichiara che il Paese «ha gli stessi problemi da vent'anni» e che i leaders del centrosinistra «sono sempre lì, non si schiodano dalle poltrone nonostante le sconfitte» [*]. Ora, a parte che i chiodi (o le viti) alle poltrone sono indispensabili per restare in piedi, si può notare che il Renzi, con un eufemismo estratto dagli incentivi legati al mercato dell'auto, traspone la parola rottamazione al campo politico poiché vorrebbe “rottamare” i leaders del suo partito o movimento e sostituirli con politici più giovani. Io sono sicuro che, quando ha preso corpo in lui questa banale idea d'accatto, egli si è illuso di trovare uno stereotipo di facile comprensione popolare e, prima dicendolo sottovoce, poi con voce più alta e diffusa, ripeti e ripeti, gli è sembrato di essere venuto in possesso di uno slogan di sicura presa elettorale. Può darsi, non lo escludo. Escludo però che il Renzi abbia riflettuto più di un minuto sulla assoluta dabbenaggine del concetto di rottamazione che, se riportato un attimo nel suo contesto, suona così: un consumatore, incentivato dallo Stato, decide di cambiare auto se la sua, di auto, è vecchia almeno dieci anni, per comprarne una nuova, nuovissima, non seminuova, né tantomeno a chilometri zero. Figuriamoci, dunque, se il consumatore potrà immaginare di comprare un'auto come quella che aveva, con gli stessi optionals e con più di dieci anni alle spalle di attività politica! 

venerdì 22 ottobre 2010

Lasciare liberi i possibili

«Il filosofo ha la funzione, il filosofo si cura e ha la passione di proteggere al meglio il possibile, preserva il possibile come un bambino, lo avvolge come un neonato, è il guardiano delle sementi. Il filosofo è il pastore che pascola, sulle alture, il gregge confuso dei possibili, pecore pregne e tori frementi, il filosofo è il giardiniere, incrocia e moltiplica le varietà, salvaguarda la macchia boschiva primitiva, veglia sul tempo delle intemperie, portavoce dei tempi nuovi della storia e della durata, vacche grasse e vacche magre, il filosofo è il pastore della molteplicità.
Il filosofo non ha più ragione, non custodisce né l'essere né la verità. Il politico ha la funzione di avere ragione, lo scienziato ha la funzione di avere ragione, ci sono abbastanza funzionari della verità perché non se ne aggiungano altri, il filosofo non si circonda di verità come di una corazza o di uno scudo, non canta né prega per arrestare la paure notturne, desidera lasciare liberi i possibili. La speranza sta in questi margini, e anche la libertà».
Michel Serres, Genesi, Il Melangolo, Genova 1988 (pag. 97, traduzione di Gaspare Polizzi).

Sostituire la parola blogger al filosofo, pensa Lucas, questa la sua massima ambizione. Lasciare liberi i possibili modi di essere, quali essi siano. Ma i possibili sono possibili?
Scrive Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi (13,12):  «Videmus nunc per speculum in aenigmate, tunc autem facie ad facies». Allora o è ora o non è. Lo specchio è qualcosa che riflette non enigmi, ma facce che ti seguono ovunque e non sempre sono le tue, mormora Lucas. È nello specchio che il possibile altro si manifesta; ma non basta la comprensione intellettuale per coglierlo, per catturarlo, per sentirlo nostro: occorre un brivido di compartecipazione, di ritrovata unità. Sfilarsi il doppio di dosso, farne bucato, restituirlo alla luce, appenderlo «su fili e su ali, al vento e al caso [e] col favore di una musa» asciugarlo per reindossare i panni di colui che ha vissuto finora per conto nostro: la vita va avanti,

La vita va avanti! La fita fa afanti!”
gridavan di naso novanta elefanti
o meglio sessanta, di cui trenta affranti,
tra anziani ed infanti non erano venti,
un sol pachiderma barriva tra i denti,
nessuno fiatava: da sempre era immerso
nel pieno silenzio l'immenso deserto.
Toti Scialoja, La mela di Amleto, Garzanti, Milano 1980

Lucas parla per enigmi: è l'unico modo per risolversi.

Le mani in tasca

Affondi la mano in tasca in cerca dei piccoli sassi
è lì che scovi un tremore agghiacciante come un ammanco
la tua mano che mentre fruga li distingue con brevi scosse
uno dall'altro per cieco conteggio scoraggiante anche
perché ogni sasso varrebbe un mesetto della tua vita.


Quanti ne sono rimasti? Devi cominciare da capo
la conta così alla cieca improbabile che riesca
le dita son troppo ghiacce per stabilire un prima e un dopo
è inconsueto che le mani cerchino il gelo nelle tasche
proprio vero il contrario ma questa tramontana è stranita.

Toti Scialoja, Rapide e lente amnesie (1994), da Poesie, Garzanti Milano 2002

giovedì 21 ottobre 2010

Quando siamo padroni di avere non aculei, ma mani aperte

«In tutto questo – scelta degli alimenti, del luogo e del clima, degli svaghi – domina un istinto di autoconservazione, che si esprime nel modo più inequivocabile come istinto di autodifesa. Non vedere, non sentire tante cose, non farsene avvicinare – prima accortezza, prima prova che non siamo un caso, ma una necessità. Gusto è la parola ricorrente per designare questo istinto di autodifesa. Il suo imperativo non ci comanda solamente di dire no, quando il sì sarebbe un segno di “altruismo”, ma anche di dire no il meno possibile. Dividersi, separarsi da ciò che ci costringerebbe continuamente al no. Ragione è questo, che le spese fatte per difendersi, per quanto piccole, una volta diventate regola, abitudine, determinano un depauperamento straordinario e del tutto superfluo. Le nostre grosse spese sono la somma di tutte le piccole spese abituali. Il difendersi, il non-farsi-avvicinare è una spesa – non ci si deve ingannare su questo punto – è uno sperpero di forza a fini negativi. Proprio per il costante bisogno di difendersi, si può diventare tanto deboli da non potersi difendere. – Mettiamo che uscissi di casa e trovassi, invece della quieta e aristocratica Torino, una qualunque piccola città tedesca: il mio istinto dovrebbe bloccarsi per ricacciare tutto ciò che di quel mondo ottuso e meschino vuole penetrarlo. O se trovassi una grande città tedesca, questo vizio trasformato in edifici, dove non cresce niente, dove ogni cosa, buona o cattiva, è importata. Come potrei non diventare un istrice? – Ma avere aculei è una dissipazione, un doppio lusso, quando siamo padroni di avere non aculei, ma mani aperte...
Un'altra accortezza nell'autodifesa è quella di reagire il più raramente possibile, di sottrarsi a situazioni e condizioni in cui si sarebbe in certo modo condannati a mettere in mostra la nostra “libertà”, la nostra iniziativa, diventando così un semplice reagente. Come paragone prenderò il rapporto con i libri. Il dotto, che in fondo non fa che “compulsare” libri – circa duecento al giorno per il filologo medio – finisce col perdere completamente la capacità di pensare per conto suo. Se non compulsa non pensa. Quando pensa risponde a uno stimolo (– un pensiero letto) – e alla fine reagisce e basta. Il dotto dedica tutta la sua forza dire sì o no, a criticare ciò che è stato già pensato – ma egli stesso non pensa più... Il suo istinto di autodifesa è infrollito; altrimenti si difenderebbe dai libri. Il dotto – un décadent. – L'ho visto con i miei occhi: nature dotate, ricche e libere, già a trent'anni tutti “morti dal leggere”, ridotti come fiammiferi, che si sfregano perché facciano scintille – dei “pensieri”. – La mattina presto, all'inizio del giorno, freschi, all'aurora della propria forza, leggere un libro – bene, per me questo è vizioso! – ».

Friedrich Nietzsche, Ecce homo, (a cura di Roberto Calasso), Adelphi, Milano 1969


Lucas si distende come foglia secca di vite lungo un filare nell'attesa che uno sperso acino dello stesso cada, dolce come zibibbo, sulla sua punta della lingua sì da suggere terra e vento e assumere l'ultima luce di un ottobre ancora propensa a spargere tocchi lievi di tepidità.
La foglia, la terra, il cielo, il corpo steso nella polvere che percepisce, scomodo, le orme di una ruota di trattore: i pensieri sono già in cantina, pronti a essere passati in barrique. Stagionarsi, maturare senza fretta, sapere che di tutto quello che traversa la mente un giorno potrà essere bevuto, è consolazione, è ricchezza strappata alla miseria del tempo che scorre. Compulsare la vita, già, quando saremo padroni di avere non aculei, ma mani aperte...

Iene del Menga

Guardo poca televisione, pochissima. Blob mi basta a riempirmi di vuoto. Tuttavia, stasera, la tv accesa per caso sulla trasmissione Le Iene, ho visto una cosa raccapricciante. Una iena faceva un servizio su un caso di un falso cieco totale che percepisce, a quanto pare, la pensione di invalidità. Lo sapete come funziona: telecamera nascosta, prendono il lestofante in flagrante reato. Il signore anziano gioca a carte, fa la spesa, legge l'orologio, attraversa la strada senza tema di essere investito. Preso, è un falso invalido, sputategli in un occhio, dategli uno schiaffo, mettetelo in prigione che gli serva da lezione. Voilà, la sete di sangue del pubblico onesto, che guarda la tv in panciolle dopo una dura giornata di lavoro, è soddisfatta. Ma vaffanculo: alle Iene e a Striscia la notizia e a tutto questo genere di tv specchio per le allodole. Allocchi di telespettatori che non siete altro. Sì, evviva, togliete la pensione percepita illegittimamente a quel signore anziano che balbetta giustificazioni assurde davanti a un microfono che sembra la spada del vendicatore solitario. Si, privatelo del maltolto però qualcosa dovete dargli in cambio, visto che ha fatto da cavia alla vostra smania di valorosi vendicatori, visto che è lui il vero protagonista, lui che vi ha permesso di fare audience: quindi dategli i soldi di un blocco pubblicitario, o iene, che non siete mai in grado di azzannare le vere carogne di questa povera Italia.

mercoledì 20 ottobre 2010

Una domanda a Federica

«La sua piaggeria [del giornalista che intervista Saviano] è veramente imbarazzante. Solo che nessuno lo rileva perché ci sono personaggi verso i quali ogni distanza critica sarebbe giudicata grave, e anche perché la comunità fittizia di Repubblica ha il suo pantheon proprio come quelle del Giornale o di Libero. La differenza non sta di sicuro nel fatto che il trattamento giornalistico riservato ai santi delle tre (o due?) diverse chiese sia difforme, ma nel fatto che a noi quei santi là non piacciono.»


Federica Sgaggio ha molte ragioni soprattutto nello smascherare la “santificazione” dei personaggi pubblici (in questo caso, Roberto Saviano). Però, mi chiedo e le chiedo, se questo personaggio ha realmente qualcosa da dire e ciò che dice è uno schiaffo al potere (occulto o meno) e un sostegno, una speranza per la civiltà di un paese, non è che a forza di fare le pulci al fenomeno si rischi di buttare via il bambino con lo sporcizia dello show businness

Tre quarti di essere

«Che fare? Non smettere di dire con forza che senza giustizia non c’è equità, che i problemi del Paese non possono più aspettare, che il Paese siamo noi. In ogni luogo, dove capiti, a cominciare da qui. Finché c’è voce c’è speranza. Allora basta con le chiacchere da bar, basta con la voglia di richiudersi nel privato». WW

Lucas si guarda intorno: è matematico, il mondo è composto da una maggioranza di brave persone che manifestano se stesse come possono o vogliono. Insomma, là fuori non tutto è buio, notte senza luna, i Jeckyll sono più degli Hyde. Lucas non crede molto nei buoni propositi, nella voglia di muovere le mani, nel fare per... Per carità, certo che ci sono persone meravigliose che riescono a consolare i passanti disperati, che portano luce nelle tenebre, che risollevano i caduti. Ma ognuno deve farlo – Lucas pensa – secondo la propria vocazione, la propria sensibilità. Lucas teme il rischio di diventare come Uolter/Celestino che voleva partire in Africa e poi si è ritrovato a scrivere lettere al Corriere della Sera. No, meglio non lanciarsi se uno non ha le physique du rôle.

«Compagni,
la questione mai si porrà a scrittori che intendano e vivano la propria missione come polene di prua, sporte sulla rotta della nave, a ricevere tutto il vento e il sale dei marosi. Punto. E non si porrà

perché essere scrittore / romanziere / narratore

vale a dire affabulante, immaginante, delirante, mitopoietico, oracolo o chiamatelo ics,
significa in primissimo luogo
che il linguaggio è, come sempre, un mezzo
ma questo mezzo è più che un mezzo,
è come minimo tre quarti
[…]
non si conoscono limiti all'immaginazione
se non quelli del verbo;
linguaggio e invenzione sono nemici fraterni
e da tale lotta nasce la letteratura,
il dialettico incontro della musa con lo scriba,
l'indicibile in cerca della sua parola,
la parola che si nega a dirlo
finché non le tiriamo il collo
e lo scriba e la musa si conciliano
in quel raro istante […]

- D'accordo, - dice qualcuno, - ma di fronte alla congiuntura storica lo scrittore e l'artista che non siano mera Torredavorio hanno il dovere […] di lanciare il loro messaggio a un livello di massima ricezione. Applausi.
- Ho sempre pensato – osserva modestamente Lucas, – che gli scrittori cui lei alludeva fossero la maggioranza, ragion per cui mi sorprende questa ostinazione nel voler trasformare una maggioranza in unanimità. Di che cazzo avete tanta paura? E a chi se non ai rancorosi e agli sfiduciati possono dar fastidio le esperienze diciamo estreme e pertanto difficili (difficili, in primo luogo per lo scrittore, e solo poi per il pubblico, è il caso di sottolinearlo) quando è ovvio che pochi soltanto le portano a termine? Non sarà, amico mio, che per certa gente tutto quello che non è immediatamente chiaro è colpevolmente oscuro? Non ci sarà una segreta e talvolta sinistra necessità di uniformare la scala di valori per poter sollevare la testa dalle onde? Dio buono, quante domande»¹.

Quante domande Lucas, quante domande. E le risposte le diano gli uomini e le donne del fare. Meno si fa, più si è. Più si è, più si diventa. Ancora un quarto d'ora e la piazza sarà piena di gente che pensa. Una minoranza, va bene, ma è già abbastanza.

¹Julio Cortázar, Un tal Lucas, Einaudi-Gallimard, Torino 1994 (traduzione di Vittoria Martinetto).

martedì 19 ottobre 2010

"Preghiera" per giovani intellettuali

Langone offende, provoca, vuole che qualcuno gli sputi in un occhio così dopo può andare in giro a fare il martire dandy alla Moshe Dayan. Il punto è che se poi quel qualcuno (forza Christian), invece di sputargli, gli dà davvero un bello sculaccione intellettuale, c'è anche caso che dopo si lamenti, il bifido fogliante lefebvriano. Ricordiamogli dunque che dopo tanto pregare è venuta l'ora anche per lui di lavorare.

lunedì 18 ottobre 2010

È ora d'accennare

Stanco della vita, io? Non scherziamo.
Ma se me le mangio con gli occhi, ancora,
tutte le sue insegne, se non c'è amo
al quale non abbocchi! Semmai è ora


d'accennare, questo sì, a qualche addio,
cominciare a spegnere le candele
e chiudere gli spartiti, un leggio
per volta fino all'ultimo, al più fedele


degli strumenti... Quale? La memoria
sussurra i due violini, il cuore un flauto
o il tuo silenzio - ma io so che una storia
si fa da sola, che è empio o almeno incauto


scriversi il finale. Basti l'atroce
strozzarsi in gola, vero, della voce.

Giovanni Raboni, Quare tristis, Mondadori, Milano 1998