sabato 31 luglio 2010

Ho sognato il Papa

Stamani mi sono alzato e, previa pipì, mi son precipitato sul mio quaderno per scrivere quanto segue:

Cammino nella piazza vecchia del paese. È buio e non capisco se è prima dell'alba o dopo il tramonto. Nella piazza c'è una fonte. Mi avvicino per sciacquarmi la bocca dal sapore amaro del caffè (probabile sia prima dell'alba, quindi). Accanto alla fonte c'è un palazzo d'epoca fascista piantato in mezzo alla piazza per farci abitare il Podestà. A pianterreno ci sono dei grandi fondi finora adibiti a garage e una corte con al centro una palma. Il prete “alternativo” che conosco bene sta ristrutturando tali locali per un suo progetto particolare. È un prete pieno di iniziative lodevoli sotto tutti gli aspetti: spirituali, sociali, culturali, caritatevoli. In questo caso, ho saputo (è il sogno che mi ha fatto sapere che), ha intenzione di aprire una sorta di circolo filosofico-letterario-religioso: un progetto davvero ambizioso per il nostro piccolo paese.

Insomma, sto bevendo alla fonte. Da una delle aperture di uno dei locali da ristrutturare, con passo malcerto tra i calcinacci, esce Benedetto XVI in persona, vestito di bianco (claro), con le scarpe nere e mi sorride. Nello stesso momento passa il prete a bordo di un enorme pick-up giapponese e, dal finestrino, dice al Papa: «allora grazie Maestra, torna presto a trovarci. Mi raccomando per quei finanziamenti, conto su di te». Benedetto XVI sorride, nonostante la polvere gli abbia rovinato il candore della sacra veste. Io sono lì tra loro, nel mezzo, come un ebete. Mi aspetto da un momento all'altro di vedere un cospicuo dispiegamento di guardie del corpo papali e, invece, dalla stessa apertura esce un tipo che mi sembra il sosia del prof. Franco Cardini, salvo che ha i capelli arruffati e un codino. Costui, imbufalito, si rivolge verso me come se mi conoscesse: «io quello lì [il prete, capisco] un giorno lo strozzo». Ed io, che mi rivolgo a lui come se fosse uno dei miei amici avvocati:

«Perché ce l'hai con lui? Perché ha dato del tu al Papa in modo irriguardoso?».

«Ma no», risponde.

«E perché allora?» insisto. «Perché l'ha chiamato “Maestra”?»

E lui: «Nemmeno. Lo chiamano tutti così, i giovani preti».

«E dunque, perché t'ha fatto incazzare?».

«Ebbè, sto nostro pretucolo! Sempre a chiedere soldi, finanziamenti... ma non si vergogna? Io lo strozzo o gli sputo in un occhio, giuro».

Fine del sogno.

Sono in corsa per il nobel della pace


Io, politicamente (e non solo), sono quel pallino rosso, a metà strada tra Nelson Mandela e il Dalai Lama.

Se volete provare cliccate qua.

P.S.
Grazie a Metilparaben per la segnalazione.

Sollevamento pesi

«Ma davvero la pesantezza è terribile e la leggerezza meravigliosa?

Il fardello più pesante ci opprime, ci piega, ci schiaccia al suolo. Ma nella poesia d'amore di tutti i tempi la donna desidera essere gravata dal fardello del corpo dell'uomo. Il fardello più pesante è quindi allo stesso tempo l'immagine del più intenso compimento vitale. Quanto più il fardello è pesante, tanto più la nostra vita è vicina alla terra, tanto più è reale e autentica.

Al contrario, l'assenza assoluta di un fardello fa sì che l'uomo diventi più leggero dell'aria, prenda il volo verso l'alto, si allontani dalla terra, dall'essere terreno, diventi solo a metà reale e i suoi movimenti siano tanto liberi quanto privi di significato».

Milan Kundera, L'insostenibile leggerezza dell'essere, Adelphi, Milano 1985 (traduzione di Antonio Barbato).

«Mi sono liberato da un peso, come con Veronica». S. Berlusconi, ieri.

Berlusconi vuole essere un uomo leggero, perché ritiene che nella leggerezza risieda la libertà; per questo tenta (e a volte riesce) continuamente di liberarsi dai pesi che, a suo avviso, lo tengono attaccato a terra. Berlusconi mira all'assoluto, mira all'essere svincolato, sciolto, bastante a se stesso. Ma per riuscirci gli occorre un ultimo sforzo, definitivo: liberarsi da se stesso, dal peso, dal fardello, dal macigno che il suo essere rappresenta. Ma questo non lo vorrà mai ammettere, nemmeno sotto tortura; e non ci sarà mai alcun dottore capace di curarlo dal proprio male. Berlusconi è un malato ontologico, uno schiavo dell'essere, perché dell'Essere privo. Per esistere ha un bisogno continuo, patologico di assorbire l'essere altrui, moltitudini di altri esseri che gli garantiscano, coi loro bramanti sguardi d'invidia e ammirazione, di essere il Modello Universale. Berlusconi è un antidemocratico perché non credo sia mai riuscito a vivere alcun rapporto umano da pari a pari. Egli o si è sentito, da giovane, sempre inferiore a qualcuno con la smania di raggiungerlo (vedi il suo rapporto col padre, o anche la foto dell'avvocato Agnelli nel suo studio), oppure si sente, come adesso, sempre e comunque, un gradino superiore a qualcuno e l'eccedenza di essere che pretende di sprizzare ammalia, ahilui (ma altresì ahinoi, dato il numero) solo gli spiriti servili, i galoppini, i guitti e i rincoglioniti.

A margine.

Ieri, sul Fatto quotidiano online, c'era un fotomontaggio che ritraeva l'immagine dello scontro finale tra Neo e l'Agente Smith nel terzo film della trilogia di Matrix. Al posto della faccia di Neo c'è quella di Fini, al posto di quella di Smith c'è Berlusconi. Entrambi hanno il pugno proteso sul viso dell'altro. Per chi non ricordasse il film, l'agente Smith era il virus che minacciava di far implodere il sistema “Matrix” stesso; questi, infatti, si moltiplicava a dismisura in una serie indefinita di doppi, che otteneva semplicemente facendo penetrare una sua mano nel corpo di altri personaggi. Beh, Berlusconi gli assomiglia, salvo che, per far diventare o far pensare tutti come lui, usa altri metodi (meno cruenti, per fortuna). Berlusconi-Smith è il virus della democrazia della Repubblica italiana.

Per il momento, Gianfranco Fini rappresenta l'unico suo Neo: vedremo fino a che punto (e con quale forza) egli sarà capace di sacrificarsi per l'amor di patria.

venerdì 30 luglio 2010

Degenerazione e annientamento dello Stato

«Quale situazione potrebbe essere più difficile di quella in cui il cervello si trova di fronte alle circostanze dell'epoca, complicate anche da questioni [celebrative]? E si tratta di un cervello che si è impegnato a tempo - e in buona fede - a una denuncia degli ultimi giorni dell'umanità!¹ Sempre più ricettivo che produttivo, esso accoglie, assieme agli orrori, la sorpresa del ritorno, il pericolo dell'aumento, sorretto invano dalla formula shakespeariana che lega così bene dolore e conforto:

Dio, chi può dire peggio di così non può andare?
Ora è peggio che mai.
E può andar peggio; non è il peggio
finché si può dire: questo è il peggio».

Karl Kraus, La terza notte di Valpurga, Editori Riuniti, Roma 1996 (traduzione Paola Sorge).
¹In riferimento al capolavoro dell'Autore, Gli ultimi giorni dell'umanità

La belva oscura

Quand'ero piccolo (ma anche ora che son “grande”) mia madre mi diceva (mi dice) sempre che «non si cavano gli occhi alla gente e poi, dopo, gli si va a medicare i buchi».

A questo ho pensato quando ho letto queste parole della belva sul Foglio di oggi:

«L’insinuazione [che ho berciato alla Fusani è stata] chiarita ampiamente da altri, era efficace ma piuttosto bassa, e la parte migliore di me se ne scusa con la collega. Ma la parte peggiore voleva per un momento mettersi al livello di questa setta di croniste aguzzine che domandano al malcapitato di turno: “E con quei soldi che voleva farci?”. “Droga pesante e armi”, ho esclamato. La mia attenuante è questa: penso davvero che cattiva magistratura e cattivo giornalismo stiano facendo dell’Italia un oscuro stato di polizia».

La parte migliore di me cerca di medicare ai morsi dati.

La parte peggiore però ha azzannato.

Anch'io, vedendo al teleschermo certi episodi, sbraito e spero, Ferrara, che ti venisse un accidente e ti affibbio i peggiori epiteti, ma almeno non mi sente nessuno, smadonno in solitudine, do un calcio al divano, picchio la mano sul muro e penso a come vorrei ci fossero facce al posto della parete; anch'io dunque ho una parte peggiore, anch'io. Ma il mio è, per ora, sfogo privatissimo, una specie di masturbata indignazione ove la ferocia e la bava si mostrano solo nello specchio del mio bagno. Chi invece ha la possibilità di mostrare i propri umori in pubblico deve assumere le proprie responsabilità, e se ritiene di scusarsi per il proprio comportamento stronzo e violento, deve farlo con tutti i crismi della contrizione. Non deve cioè limitarsi a medicare i buchi provocati: deve restituire gli occhi, e questo può accadere là solo ove il male è emendabile. Se uno è stato così (p)orco feroce davanti alle telecamere verso una collega deve tornare davanti alle telecamere e fustigarsi se ritiene davvero di aver sbagliato, altrimenti assuma la piena responsabilità della propria stronzaggine.

A tutti può capitare di essere stronzi, per carità; ma cercare di separare se stessi, di dividersi in parti (migliori e peggiori) per autoassolversi è una misera giustificazione.

Aveva tutto il tempo e il modo Ferrara di replicare a quelle che considera bassezze giornalistiche proprio in quella sede. Bastava aspettasse il suo turno: di sicuro nessuno gli avrebbe negato la parola. Se c'era qualcuno che ha fatto sembrare l'Italia uno Stato di Polizia era lui, non altri. Era lui il gendarme cileno di Pinochet, o argentino di Vileda, o cubano di Castro. Era lui il violento col manganello e lo sfollagente in mano.

Un quasi romanzo...

... bellissimo, senza quasi.
Adieu, di Giulio Mozzi.


P.S.
La postò anche Malvino tal canzone.

We shall be call'd purgers, not murderers

Dare formalità burocratica ad una vittimizzazione, ovvero deferire ai probiviri e cercare appigli notarili per “cacciare” il nemico, il traditore mi ricorda le modalità sacrificali che il Bruto shakespeariano suggerisce ai suoi cospiratori (ma nel nostro caso è Cesare a voler “sacrificare” Bruto): nel riportare il brano apporterò dei cambiamenti ai nomi per una migliore comprensione della cosa.

UFFICIO POLITICO DEL PARTITO DELL'AMORE La nostra azione gronderebbe troppo sangue, o Berlusconi, se tagliassimo dapprima il capo e squartassimo quindi le membra, trasportati dapprima da ira mortale e quindi dall'odio [...] Cerchiamo di essere dei sacerdoti sacrificali, ma non dei beccai, o Berlusconi. Noi tutti ci leviamo contro lo spirito di Fini; e nello spirito degli uomini non c'è sangue: oh, se potessimo raggiungere lo spirito di Fini senza per questo, di necessità, dover lacerare Fini membro a membro! Ma ahimè, è forza che, per tutto questo, Fini versi il suo sangue! E dunque, o nobili amici, uccidiamolo con coraggio ma non con ira; che si scalchi come un cibo degno degli dèi, ma che non lo si squarti come una carcassa da gettare ai cani. E che i nostri cuori, come degli scaltri padroni, spingano i loro servitori a un atto di violenza ed abbian dopo l'aria di muover loro rimprovero. Tutto questo farà in modo che il nostro proposito appaia necessario e non ispirato dall''odio, dimodoché, apparendo a questo modo agli occhi del volgo, ci si chiami con il nome di purificatori e non con quello di assassini».

William Shakespeare, Giulio Cesare, Atto secondo, Scena prima, traduzione di Gabriele Baldini, Rizzoli, Milano 1963

N.B. In luogo di Bruto ho scelto il nome legione dell'Ufficio Politico del PdL. Il nome Berlusconi sostituisce Caio Cassio, mentre quello di Fini sostituisce Cesare.

giovedì 29 luglio 2010

Resti di ferocia


Resti di zanne di elefante recuperati da un naufragio fenicio risalente al settimo secolo a.C. [*]


Mi sa che tra una trentina di secoli di questo elefante saranno ritrovate solo le fauci.

Sergej Romanov

*

Scrive Sergej Romanov oggi sul Corsera

Preferiremmo che Berlusconi e Fini riuscissero a comporre le loro divergenze e ad accordarsi su un percorso comune.

Chissà chi si cela dietro questo “noi”. Comunque io no, non preferirei.

Ma se il Paese dovesse assistere ancora per qualche settimana a queste logoranti polemiche fra persone che rappresentano i due maggiori poteri dello Stato e appartengono per di più allo stesso partito, sarebbe meglio prendere atto dell’esistenza di concezioni diverse e trarne le conseguenze.

Su forza, io son pronto a trarle, eccome se son pronto.

Il Paese non può affrontare contemporaneamente la manovra finanziaria, i problemi della sua politica industriale (fra cui il negoziato della Fiat con i sindacati), il dibattito sulle intercettazioni, un micidiale sgocciolio di scandali che coinvolgono esponenti della maggioranza, e assistere nello stesso tempo a un paralizzante duello fra il presidente del Consiglio e quello della Camera.

Eppure il Paese sta già affrontando tutti questi problemi: alzo gli occhi al soffitto e constato che lo sgocciolio ha provocato una gora d'umidità dalla quale piccole croste di vernice piovono sulla mia testa.

Berlusconi e Fini hanno compiti istituzionali da cui dipende il funzionamento del Paese. Quanto più bisticciano tanto più perdono autorità e credibilità, componenti indispensabili del loro lavoro. Di grazia, risparmiateci questo spettacolo avvilente, prendete atto con serietà delle vostre divergenze e passate alla ricerca di formule che possano assicurare la continuità e la stabilità del governo.

A me questo spettacolo piace tantissimo e vorrei che continuasse fino alla catarsi finale.

[...] nessuno dei due potrà dimenticare (e Fini lo ha ammesso) che le elezioni sono state vinte dal Popolo della Libertà, il partito che entrambi hanno contribuito a fondare. Possono separarsi e prendere strade diverse, ma non senza ricordare l’impegno comune che hanno assunto di fronte agli elettori.

Questa storia dell'impegno comune è un richiamo per le allodole. Gli impegni comuni, come i matrimoni, sfociano molto spesso in separazioni o divorzi ed entrambi i protagonisti ne sanno qualcosa. Gli elettori, questa massa informe che non sa il proprio nome, possibile debbano avere un trattamento migliore di quello riservato ai figli?

Occorre tagliare il nodo ricorrendo alle elezioni anticipate? Questa sarebbe, in altre circostanze, la più ovvia delle soluzioni.

Sì, e anche la migliore. L'unica cosa negativa è, per me, che si tornerebbe a votare con questa vergognosa legge elettorale. Io rivorrei il proporzionale puro, senza sbarramenti.

Ma le elezioni coglierebbero alcune forze politiche impreparate, rischierebbero di dare risultati incerti e soprattutto aprirebbero nuovi scontri, nel peggiore dei momenti possibili, tra forze che dovrebbero invece lavorare insieme nell’interesse del Paese.

Ma come si fa a lavorare insieme a Berlusconi? Si può solo lavorare per Berlusconi non insieme a lui. Si può essere solo suoi zerbini, o cani da guardia più o meno feroci. Vedere la belva Ferrara ieri sbavare mi ha fatto un certo che.

Occorre dunque pensare a un governo di transizione con un programma circoscritto e destinato a durare sino alla fine della legislatura, come quello che fu presieduto da Lamberto Dini fra il 1995 e il 1996?

No. Il parlamento attuale è composto dai nominati di partito. Voltare pagina, please. Anche Romanov è d'accordo.

La prospettiva si scontrerebbe con Berlusconi, convinto di poter governare sino alla fine della legislatura; tradirebbe la volontà degli elettori e avrebbe, oltretutto, l’effetto di rappresentare, per un sistema politico non ancora consolidato, un pericoloso passo indietro.

Infatti.

Se si vogliono evitare le elezioni serviranno buona volontà e immaginazione. Occorrerà forse ringiovanire il governo, allargare la coalizione, impostare programmi che tengano conto anche delle idee di Fini e dei suoi seguaci. La soluzione comporterà qualche sacrificio sia per le posizioni del presidente del Consiglio, sia per quelle del presidente della Camera. Ma Berlusconi e Fini dovrebbero ricordare che il Paese ha spesso l’abitudine di punire nell’urna il partito e la persona a cui viene attribuita la responsabilità delle elezioni anticipate. Oggi il presidente del Consiglio ritiene di poter dimostrare che la colpa è del presidente della Camera. Domani, forse, gli elettori potrebbero giudicare diversamente. Una intesa fondata sulle vere esigenze del Paese, invece, gioverà a coloro che avranno seriamente tentato di realizzarla.

Io non voglio che giovi niente a questo governo e a questa maggioranza parlamentare. Spero proprio che domani gli elettori smentiscano gli auspici di Berlusconi oggi che crede di dare la colpa a Fini. Vi ricordate cosa successe al suo primo governo quando fu “tradito” da Bossi vero? Alle elezioni successive Berlusconi perse, nonostante avesse sbraitato contro l'infame traditore. E ci furono cinque anni di governo di centrosinistra (pardon: di tre governi di centrosinistra), balordo quanto ti pare, ma qualsiasi cosa andrebbe bene rispetto a questo attuale sfacelo.

Do you remember Lipitiresco?

«Non possiamo parlare? Devi andare proprio adesso, senza darci nemmeno la possibilità di discuterne?»

Lui fa un gesto di impazienza.

«Sono anni che cerco di parlarti. Devo andare via per chiarirmi le idee. Ti chiamo quando torno.»

Rose sa che Ben è deciso, e anche esasperato.

«Non sei nemmeno arrabbiato?» le chiede. «Lanciami qualcosa, picchiami se vuoi, ma Cristo, reagisci.»

«No, non sono arrabbiata» risponde Rose. «Non so che che cosa provo, ma non ho certo voglia di picchiarti.»

Di colpo Ben si dirige verso la porta.

«È per sempre, non è vero? Non è solo per un periodo.»

Ben si volta verso di lei, la faccia pallida.

«Credo di sì. Non ti amo più.»¹

Catherine Dunne, La metà di niente, Guanda, Parma 1999 (traduzione di Eva Kampmann).

¹Allora: non ho letto (ancora) il libro della Dunne. Lo sta leggendo mia moglie. Ho sfogliato solo l'inizio ove ho trovato questo dialogo le cui ultime parole hanno ispirato quanto segue. Un grazie anche al ricordo di questo spettacolare ensemble di prugnolo e di mammolo.


Avrei voluto, anzi, avrei dovuto stare zitto, non dire niente, andarmene senza giustificare alcunché, giacché dire «non ti amo più» non è vero, ora che ci penso, nella misura in cui non amo abbastanza me stesso. Infatti, dire alla persona con la quale abbiamo condiviso lotte, baci, figli, abbracci, sogni, cibo, docce, desideri, bisogni e innumerevoli altri particolari che formano una vita a due – ecco, dire a quella persona «non ti amo più» si avrebbe il diritto di dirlo solo quando avessimo davvero, e profondamente, cominciato ad amare se stessi.

Il bene è incancellabile, altro che sopportazione, altro che croste della grigia quotidianità che non si vogliono staccare.

E sicché io e tu dovremmo, nel caso fosse vero ed entrambi sentissimo la cosa come nostra, dirlo insieme all'unisono: «non ci amiamo più» ma non andiamo via, teniamo, conserviamo quel che ci resta, che ci fa incrociare le gambe sotto le coperte.

«Non ti amo più»; oppure: «amo un'altra/un altro»: che menzogna. Dire: «amo me stesso, finalmente: ciao, e grazie di tutto»: che verità. E siccome non siamo sinceri, “spontanei”, altrimenti non ci piacerebbero la lettura, il cinema, gli sceneggiati, la finzione in generale, allora continuiamo ad assistere allo spettacolo degli altri che si lasciano, tra schiaffi, dolore, orgoglio, rassegnazione e simulata nuova felicità. Tutti a sperare che la vita possa dare altre possibilità. Tutti a dire «voglio ricominciare a vivere» come se si fossero mai fermati. L'illusione di spezzare la propria storia dai fili che la legano al passato, allagando i propri ricordi, disfacendoli nella piena della presunzione, no, non è possibile. Perché noi siamo innanzitutto produttori di ricordi e si comincia a capirla questa cazzo di vita quando si riesce a vinificarli, a metterli in barrique di rovere francese, per tirarli fuori al momento giusto, alla giusta ora per stapparli poi e brindare al fatto che in un certo punto della storia di questo universo noi siamo stati vivi e abbiamo “prodotto” un barlume d'amore.

«Fa meno freddo stanotte, non trovi cara?».

«Sì, hai ragione: e poi il vino era talmente buono che ce l'ha fatto passare».

mercoledì 28 luglio 2010

Prosit

Allora, sono contento perché Giulio Mozzi ha dato enorme spazio alla mia lettera (vedi post sotto). Di più: egli mi ha subito risposto, chiedendomi ulteriori chiarimenti. Poi sono intervenuti altri lettori, lo stesso Demetrio Paolin e altri gentili commentatori, che con garbo e cortesia, hanno serenamente stroncato le mie fisime letterarie. Sono un po' meno contento. E io che credevo di aver avuto una buona idea. Che dilettante. Devo bere qualcosa. Corro in bagno a vedere se mia moglie avesse un po' di Tantum Rosa.

P.S.

Mi piacerebbe tanto credere che l'effetto di straniamento che ho provocato a Federica sia per lei cosa positiva.

Una lettera aperta

caro Giulio,

ieri ho letto su Vibrisse la presentazione del libro di Demetrio Paolin, La tragedia negata (ho scaricato anche il pdf del libro, leggerò). A un certo punto, verso la fine, è scritto che tale libro

«si pone [...] come lettura indispensabile per chiunque abbia intenzione di affrontare un’analisi completa del terrorismo rosso e nero così come viene raccontato nella maggior parte dei romanzi italiani».

Questa frase mi spinge a scriverti questa lettera aperta per sapere la tua opinione su alcune cose che riguardano la letteratura, in ispecie l'italiana. Scrivo a te perché sei un “professionista” (o specialista, se preferisci) e della scrittura e della lettura (ovverosia per quanto pubblichi come autore e per quanto fai pubblicare come consulente editoriale).

La domanda è questa: qual è lo stato dell'arte letteraria in Italia?

Ti dico come la vedo io la questione.

Qualcuno scrive un libro di narrativa, un buon libro con una bella storia, manda il manoscritto a una casa editrice che dimostra interesse e lo fa esordire pubblicandolo. Il libro piace subito al pubblico, magari vince un premio importante, ha successo e resta in cima alle classifiche di vendita per settimane. Lo scrittore esordiente diventa così uno scrittore affermato, riconosciuto. L'oggetto libro, ciò che ha pensato e scritto, diventa la carta di accesso nel pantheon degli scrittori sotto contratto dai quali le case editrici aspettano con ansia i loro prossimi lavori per essere volentieri pubblicati con su scritto “ecco il nuovo romanzo dell'autore de...” e così via. Fine della storia.

Ecco, ti richiedo: lo stato dell'arte letteraria oggi è solo questa cosa? Dietro i libri di un Piperno, di un Giordano, di uno Scarpa, di una Mazzucco, di una Avallone (cito i primi che mi vengono in mente) cosa c'è oltre quanto descritto sopra? Per carità nulla di male, anzi giù il cappello a chi riesce a diventare uno scrittore professionista. Ma, ripeto, cosa c'è oltre questo, dietro cioè la buccia della copertina e della storia in sé narrata? Ovvero, c'è negli scrittori il senso di stare facendo, appunto, letteratura? Ovvero ancora: dietro questo meccanismo di “scrittura-vendita-lettura” resta qualcosa che domani, non ora ma domani, gli «studenti canaglie» addenteranno per sapere di che pasta è composto l'uomo/la donna di oggi? La maggior parte dei romanzi italiani di oggi cosa sapranno raccontare agli italiani di domani? Un Demetrio Paolin del futuro che tipo di libro potrà scrivere in riferimento a questa tarda epoca berlusconiana? Come questi scrittori professionisti di oggi saranno gli scrittori a cui domani fare riferimento, sui quali o dai quali imparare o disimparare, meditare o rifiutare nella stessa misura di quanto è accaduto e sta accadendo con gli scrittori di ieri?

E ancora: quanto i nostri scrittori contemporanei sono innestati nel grande albero della storia della letteratura che cammina a fianco della Storia umana nel suo complesso, lasciando tracce di vita più o meno significative che si ritrovano scritte nelle nostre mani esitanti e nei nostri occhi avidi di conoscere il senso del nostro cammino, o di cogliere il bello e la gioia, o di percepire il dolore e la rabbia, la possibilità o l'impotenza?

In buona sostanza, mi piacerebbe, caro Giulio, sentire la tua opinione sul fatto che ci sia, o meno, negli scrittori di oggi la consapevolezza di stare facendo letteratura, di essere dentro una tradizione, anche per tradirla; oppure se in essi c'è solo quell'idea a cui sopra mi riferivo, vale a dire: scrivere per essere pubblicati, venduti, eventualmente letti.

Il mio timore è che anche per quanto riguarda la letteratura stia accadendo quanto è già accaduto per la musica nel suo complesso ove gli apici nei rispettivi generi sono stati raggiunti e dove adesso l'unica modalità rimasta è quella di essere, tra i musicisti, tutti degli epigoni (sia pur dignitosissimi) castrati però nella loro eventuale pretesa di raggiungere altri vertici, di inventare altri stili, di scoprire nuovi mondi.

Infine, una considerazione sul caso Saviano: possibile che egli sia l'unico scrittore capace di avere una valenza politica oggi in Italia? Possibile che solo lui (ed è un bene da salvaguardare, per carità!) abbia questo potere di incidere la pelle del potere mentre le parole scritte da altri scorrono via dal potere come sapone sotto la doccia? Il potere della parola, potere che nel Novecento gli scrittori anche in Italia hanno avuto, è andato completamente perduto?

Ecco, ho finito. Ti auguro una buona giornata di scrittura e lettura.

Con stima tuo L.

martedì 27 luglio 2010

Deficit di immaginazione

«Mio padre era molto intelligente e, come tutti gli uomini intelligenti, molto buono. Una volta mi disse che avrei dovuto guardare molto bene i soldati, le uniformi, le caserme, le bandiere, le chiese, i preti e le botteghe dei macellai perché tutte quelle cose sarebbero presto scomparse e avrei così potuto dire ai miei figli che io le avevo viste. Sfortunatamente, la profezia non si è ancora avverata».

Jorge-Luis Borges, Abbozzo di autobiografia, in Elogio dell'ombra, Einaudi, Torino 1971 (traduzione di N.T. Di Giovanni).


«C'è da dire che l'uniforme dei pompieri è la meno figlia di puttana di tutte le uniformi, e che il giorno in cui con l'aiuto di milioni Quilapayùn e di Cedròn¹ manderemo a quel paese tutte le uniformi latinamericane, si salveranno soltanto quelle dei pompieri e addirittura inventeremo loro dei modelli più vistosi per farli contenti mentre estinguono incendi o salvano povere fanciulle oltraggiate che hanno deciso di buttarsi giù da un ponte per mancanza di meglio».

Julio Cortàzar, Un tal Lucas, Einaudi-Gallimard, Torino 1994

¹Amici “eccentrici” di Lucas.

Mi chiedo: esiste ancora qualcuno, nel mondo pseudo-avanzato, capace di immaginare (non dico sperare, dico fantasticare) profezie del genere? Corpi militari a parte, s'intende.

La virtù dello sciacquone

Non so se essa esista né se possa essere considerata una patologia, ma io sento di essere come affetto da una sorta di ciclotimia morale; vale a dire, a volte mi sento a mio agio nei panni di un perfetto flâneur disincantato che di fronte alle cose del mondo assume un atteggiamento distaccato e tollerante, da pessimista cosmico che sa che niente di nuovo accade sotto il sole, e che l'umanità è un legno troppo storto per avere la pretesa di raddrizzarlo; a volte, invece, mi sento un rigido fustigatore del malcostume e del malaffare che ci circonda, e m'impunto, lancio strali, severi moniti, sprezzanti giudizi, nutrendo forse l'illusione di poter correggere le storture umane.
Bene, di fronte a notizie come queste di un giovane inglese che ha inventato un sistema per produrre energia elettrica dagli sciacquoni, indosso i panni del bacchettone e dico: ma porcadellativvùgeneralista come mai certe notizie, certi casi non vengono esposti e premiati mediaticamente almeno quanto le puttanate che generalmente ammorbano i telespettori di tutto il globo terracqueo, e in particolar modo quelli del Mediterraneo centrale, nello specifico della penisola e isole italiane? No, non dico mica di riproporre Portobello alla Enzo Tortora. Dico solo di mostrare alla massa desiderante oltre al successo facile e alla ricchezza raggiunta attraverso giochi a quiz stupidissimi, grandifratelli, zeligghe, icsfattori e amici vari e altri meccanismi imbonitori dello spettacolo e della canzone che nulla di concreto apportano all'umanità né tantomeno all'Italia, anche casi in cui il genio applicativo del genere umano si mostra su fronti che portano effettiva ricchezza, perlomeno mentale. Stimolare l'intrapresa umana insomma, e non soltanto con il giro di Sol ormai esausto e sfinito: ha detto tutto Battisti. Stop. La musica leggera di oggi è quasi tutta merda, tirate lo sciacquone, si produca altra energia.

lunedì 26 luglio 2010

Siete tutti uguali voi uomini

Fantasia di fine luglio

Ehi, non mi si muove, non mi si muove. Che cosa, fa lui, che cosa non ti si muove. Ma lui, quest'oggetto che ora dovrebbe muoversi, cazzo, proprio ora che dovrebbe, ora, che ho pagato la tariffa richiesta, ora, che sono qui con questa bella bionda che guarda fuori dal finestrino la luna piena di sant'Anna e lui no, invece, non guarda, non si muove, sta lì, impalato, no, non impalato, imbolsito ecco, fermo. Ah, beh, allora ti ci vorrebbe qualcosa, un aiutino, una vitamina. Quale vitamina. Ma la vitamica C e che cazzo. La bionda ha smesso di guardare la luna, si è immalinconita per fortuna, le scende una specie di lacrima che sembra una goccia d'inchiostro. Aveva troppo ombretto, la bionda, che si scioglie con la lacrima che scende e che traccia una scia brunita sulla guancia destra, Dio, non guardarla la lacrima che ti viene sete e non hai nulla da bere in questa auto senza aria condizionata, senza chinotto del presidio di Savona. Per fortuna fuori il traffico è lontano, i grilli hanno avviato la loro partitura notturna, la bionda apre lo sportello, fa mica caldo, anzi, la bionda esce e si mette davanti al cofano che dà su una scarpata, si china e si sente la bionda teneramente fare pipì, ecco forse si muove, ma cosa, no è solo uno stimolo analogo a quello della bionda, abbiamo bevuto troppa birra boema, sai, la bionda aveva nostalgia di casa, mi ha detto che viene da České Budějovice, io no, le ho detto, ho fatto finta di essere di Vinci, sai è facile dopo intavolare un discorso su La dama con l'ermellino, ma io detesto i polacchi, mi ha detto la bionda, son troppo cattolici per i miei gusti, come ti chiami, le ho chiesto, Cecilia, mi ha risposto, io Ludovico, sai, sì ma io mica te l'ho chiesto come ti chiamavi, non lo volevo sapere, me ne frego, tanto siete tutti uguali voi uomini, quando vi prende l'uzzolo. L'uzzolo, proprio così mi ha detto, non ci credi, la bionda è una donna forbita e il mio problema è che io quando vengo assimilato al mio genere nella sua totalità mi sento subito un verme, e non mi si muove più. Di più: vorrei smettere di averlo tra le gambe, dirle: guarda io non sono come tutti io non ho niente vedi, sì vedo, lei mi fa e abbozza un sorriso, e poi guarda la luna di sant'Anna e io guardo lei e quanto è bella e penso che le ho dato una certa cifra per certe cose e che ora invece la cosa più eccitante che potrò fare sarà quella di pisciare sopra a dove ha pisciato lei.

Amore 77


«E dopo aver fatto tutto quello che fanno, si alzano, si lavano, si mettono il talco, si profumano, si pettinano, si vestono, e così progressivamente tornano a essere ciò che non sono».

Julio Cortàzar, Un tal Lucas, Einaudi-Gallimard, Torino 1994

Cricche



SOLLEVIAMO L'ITALIA


P.S.
Perdonatemi, non son bravo come Massimo Bucchi al fotomontaggio.

domenica 25 luglio 2010

Lucas, le sue comunicazioni

Allora, le cose stanno in questi termini.

Ho “aperto” questo mio blog con il mio nome e cognome, lucamassaro.blogspot.com (mi ritrovo benissimo nelle motivazioni di questo splendido post di Metilparaben). Successivamente, sulla scia dei blog che prediligo¹, ho dato un nome suo proprio al mio blog.

Un tal Lucas, riprendendo il titolo di un racconto di Luìs Sépulveda, tratto da Le rose di Atacama, Guanda (qui le ragioni, e anche qui). Da tale racconto son venuto a sapere che il suddetto titolo era preso in prestito da un più lungo racconto dello scrittore argentino Julio Cortàzar.

Di quest'ultimo, giuro, non sapevo altro che il nome e il fatto che egli era ed è considerato uno dei massimi scrittori latino-americani del Novecento: di lui avevo sfogliato solo un breve libro di racconti, Storie di cronopios e di fama, Einaudi.

Popinga, tempo fa, scrisse un mirabile post omaggio allo stesso Cortàzar. Me ne invogliò la lettura, ma attesi.

Alcuni giorni or sono ho scritto un mail di stima a uno dei pochi collaboratori (non continuativi, nel senso che non lo si trova con una frequenza settimanale) della Domenica del Sole 24 Ore che vale la pena di leggere: Gianluigi Ricuperati.

Egli ha avuto la benevolenza di rispondere ai miei complimenti, ringraziandomi e sorprendendosi che il titolo del mio blog fosse lo stesso di un libro di Cortazàr.

Allora ho cominciato a reperire i libri dello scrittore argentino. Adesso sto leggendo Un viaggio premio, Einaudi, e alcuni dei Racconti della prestigiosa Biblioteca della Pléiade (una collana Einaudi-Gallimard). In quest'ultima edizione è contenuto anche il lungo racconto Un tal Lucas. Ieri, con un misto di curiosità e timore, ho iniziato a leggere, a leggermi. A stupirmi. A dirmi: che meraviglia. Che fortuna. Serendipità. Sono basito davvero. Altro che il teletrasporto nel tempo o nello spazio. Leggere Cortàzar è conoscere non un pianeta, né un sistema solare, ma un'intera galassia. Io non so che dire, solo che sono incredibilmente contento di aver dato al mio blog il nome di Un tal Lucas.

Non posso, per ovvie ragioni, riportare tutto quanto sto leggendo, ma credetemi: sarebbe da copia-incollare². Tuttavia, permettetemi di riportare questo capitoletto:

LUCAS, LE SUE COMUNICAZIONI

Siccome non scrive solamente, ma gli piace anche passare dall'altra parte e leggere quello che scrivono gli altri, Lucas si sorprende talvolta di quanto gli riesca difficile capire certe cose. Non che siano argomenti particolarmente astrusi (orribile parola, pensa Lucas che tende a soppesare i termini sul palmo della mano e a familiarizzare con loro o a rifiutarli a seconda del colore, del profumo o del tatto), ma all'improvviso c'è come un vetro sporco fra lui e quello che sta leggendo, da cui impazienza, rilettura forzata, incazzatura in arrivo e infine gran volo della rivista o del libro contro la parete più prossima con relativa caduta e sordo plof.

Quando le letture finiscono così, Lucas si domanda cosa diavolo possa essere accaduto nell'apparentemente banale passaggio dall'enunciante all'enunciato. Domandarselo gli costa fatica, perché per quanto lo riguarda non si pone mai tale questione e per rarefatta che sia l'aria della propria scrittura, per tanto che certe cose possano arrivargli e imporsi solo al termine di lunghi travagli, Lucas non dimentica mai di verificare se l'arrivo sia valido e se il suo imporsi sia indolore o meno. Gli importa poco della situazione dei singoli lettori perché crede, in misura misteriosamente multiforme, che nella maggior parte dei casi andrà a pennello come un vestito su misura, non rendendosi perciò necessario cedere terreno né all'andata né al ritorno: fra lui e gli altri ci sarà sempre un ponte finché lo scritto nascerà da seme e non da innesto. Nelle sue più deliranti invenzioni c'è talvolta qualcosa di così semplice, di così rubamazzetto. Non si tratta di scrivere per gli altri ma per se stessi, ma se stesso deve anche essere gli altri; così elementary, my dear Watson, che è quasi avvilente, e vien da domandarsi se non ci sia un'inconsapevole demagogia in quella solidarietà fra mittente, messaggio e destinatario. Lucas osserva la parola destinatario sul palmo della mano, le sfiora il dorso e la restituisce al suo limbo incerto; non gli importa un fico secco del destinatario visto che ce l'ha lì, a portata di mano, a scrivere quello che lui legge e a leggere quello che lui scrive, quante storie.

Julio Cortàzar, Un tal Lucas, Einaudi-Gallimard, Torino 1994 (traduzione di Vittoria Martinetto).

Che onore dunque per me avere questo nome del blog. Ma soprattutto: che onere. Ci tornerò sopra.

¹Vado a braccio, mi perdonino i non citati: Galatea, Malvino, Formamentis, L'Estinto, Fabristol, Weissbach, Eschaton, Due colonne di taglio basso, Piovono rane, Gians, Granturchese (già Devarim), Tommy David, Vibrisse, Brotture, Nonmoltocredente, Noncontromaper, Nonleggerequestoblog, Manteblog, Ealcinemavaccitu, L'amorale (già IliadeXXXIII: torna Alex, mi manchi), Leucophaea, Nonunacosaseria, Phastidio e altri che aggiungerò domani (così come domani vi linkerò, ora è tardi scusate).

²Caro Formamentis, sai che trovo molte similitudini tra i tuoi salti nell'iperreale e quelli di Cortàzar?

sabato 24 luglio 2010

I love you Babe

Qualche riflessione in merito alla tesi di laurea di Barbara Berlusconi (d'ora in poi: Babe). Innanzitutto: congratulazioni alla neo-laureata. Di poi: certo che ha ragione la professoressa Roberta De Monticelli a dire certe cose, ma ella non ha criticato Babe, bensì il rettore dell'Università San Raffaele, Don Luigi Verzè: è a lui che andrebbero lanciati gli strali di manifesta sudditanza nei confronti dell'Imperatore, come ben ha mostrato anche Michele Boldrin (mi piacerebbe sentire con quali argomenti Massimo Cacciari replicherebbe alle critiche di questi).

Ma torniamo a Babe: essere figli di Silvio Berlusconi (d'ora in poi: Cesare) non è una colpa: sono cose che càpitano, raramente, ma càpitano. E poi, in fondo, perché non nutrire la speranza che, a volte, i figli siano migliori dei padri (o madri) soprattutto in regimi "imperiali" come il nostro? Secondo me, a bocce ferme, la cosa migliore sarebbe leggere la tesi di Babe senza alcuna pregiudiziale. Certo che una figlia di Cesare studi e si laurei su Amartya Sen è una notizia che dovrebbe riempire di gioia: è come se la figlia di Putin si laureasse su Anna Politkovskaja, come se la figlia di Bush si laureasse su Noam Chomsky, come se la figlia di Chavez si laureasse su Jeorge-Luis Borges, come se la figlia di Fidel Castro si laureasse su Friedrich von Hayek, come se la figlia di Ahmadinejād si laureasse su Salman Rushdie, come se la figlia di Cosentino si laureasse su Saviano, come se la figlia di Dell'Utri si laureasse su Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, come se la nipote del Papa si laureasse su Richard Dawkins.

Inoltre, in tutta questa polemica, non ho ben capito se la tesi di Babe sia stata considerata meritevole di pubblicazione dalla suddetta università. Se così fosse sarebbe, credo, possibile richiederne copia in lettura. Addirittura sarebbe doveroso che qualche casa editrice si facesse avanti per pubblicarla, magari anche quella piccola e marginale con sede a Segrate e presieduta dalla sorella Marina.

Infine: tra i figli di Cesare, Babe è quella che preferisco; non vorrei che una subdola campagna mediatica di certa cattiva stampa di sinistra me la sciupasse anzitempo. Non è il caso, no, per favore. I figli sono gli unici che possono commettere un parricidio (simbolico o meno).

La Mujer de Las Palmas

*

Chissà se tra dieci-dodicimila anni, a partire dai resti scheletrici di colei che attualmente occupa la carica di ministro del turismo, i futuri antropologi sapranno ricostruire scientificamente una donna così carina.

venerdì 23 luglio 2010

Cercasi preti padani

Un giorno, quando in molte parrocchie padane gli attuali preti, plaudenti alla nuova alleanza tra tribalismo e cattolicesimo, andranno in pensione, da chi saranno sostituiti?

La base leghista, che tanto tiene alle tradizioni, dovrebbe cominciare a preoccuparsi. Eliminando a priori l'ipotesi di sacerdoti negher, terun, musi gialli e musi aztechi, su chi potranno contare per celebrare messa? È giunto il momento che le famiglie padane autentiche si sacrifichino, ciascuna imponendo a uno dei figli delle proprie (numerose?) cucciolate di seguire l'indispensabile vocazione sacerdotale.

E infatti, come scrive oggi Avvenire, il calo delle vocazioni

È una realtà con cui gli istituti religiosi sono chiamati a fare i conti, rilanciando al tempo stesso il proprio carisma con linguaggi non obsoleti. Ma puntare sui «serbatoi» di chiamate all’estero non è la strategia giusta. «Occorre non perdere la speranza ed essere convinti che il Signore continua a chiamare alla vita consacrata proprio là dove una congregazione è sorta e affonda le sue radici». Lo sostiene, con dati alla mano raccolti in otto anni d’esperienza, il messicano Germán Sánchez Griese, laico consacrato del Regnum Christi, organizzatore in tutto il mondo di corsi per animatori vocazionali.

In fondo, come prosegue l'articolo, basta poco per stimolare la domanda: esempi luminosi sono quelli della

suor Elvira Maria de Witt [la quale] ha riferito come nella laicissima Olanda – dove i non credenti sarebbero poco meno di un terzo della popolazione, che supera i sedici milioni e mezzo di abitanti – si è servita di Internet per far conoscere il suo convento tramite un blog. E fra le ragazze che hanno iniziato a scrivere, le novizie – assicura la religiosa, ex cantante lirica originaria di Amsterdam – non sono tardate ad arrivare: almeno due all’anno. Un risultato sorprendente. È successo anche ad altre suore nel nostro Paese: dopo aver attuato per sette o otto anni le metodologie apprese, hanno visto sorgere nuove vocazioni autoctone, italiane al cento per cento.

Ben due vocazioni all'anno con un solo blog! Pensate un po' cosa potrebbe ottenere il raduno annuale della camicie verdi a Pontida! Se finora Bossi ha tentennato non sarà stato mica perché aveva un figlio a rischio seminario (della gioventù), che magari poteva recare qualche danno alle vocazioni future?¹

Insomma, è giunto il momento che anche la Lega contribuisca seriamente a proporre un cammino di fede al popolo padano: adesso, più che portare l'acqua del Po dal Monviso a Venezia, è giunto il momento di portarla nelle acquasantiere delle chiese del proprio territorio affinché nuovi preti autenticamente granapadani dop possano garantire omogeneità alla propria comunità. L'identità è importante, anche per impartire sacramenti e dire messa.

¹Fare il consigliere regionale è mestiere talmente attraente di suo che non rischia di far crollare il suo appeal anche di fronte ad esempi come il Trota.