martedì 4 gennaio 2011

Cioè, io mi faccio carne


«Ma se è vero che il desiderio è una coscienza che si fa corpo per appropriarsi del corpo d'altri inteso come totalità organica in situazione con la coscienza all'orizzonte, qual è il significato del desiderio? Cioè: perché la coscienza si fa – o tenta invano di farsi – corpo e che cosa si aspetta dall'oggetto del suo desiderio? Sarà facile rispondere, se si riflette, che, nel desiderio, io mi faccio carne di fronte all'altro per appropriarmi della carne dell'altro. Questo significa che non si tratta solamente di sentire delle spalle o dei fianchi o di attirare un corpo contro il mio: bisogna anche sentirli con quello strumento particolare che è il corpo in quanto invischia la coscienza. In questo senso, quando sento quelle spalle, non si può dire solamente che il mio corpo è un mezzo per toccare le spalle, ma che le spalle d'altri sono un mezzo per me di scoprire il mio corpo come rivelazione affascinante della mia fatticità, cioè come carne. Così il desiderio è desiderio di impadronirsi di un corpo in quanto questo atto mi rivela il mio corpo come carne. Ma il corpo di cui voglio impadronirmi, lo voglio come carne. Ora, è proprio quello che non è per me: il corpo d'altri appare come forma sintetica in atto; come abbiamo visto, non si può percepire il corpo dell'altro come carne pura, cioè come oggetto isolato che ha con gli altri questi delle relazioni di esteriorità. Il corpo d'altri è originariamente corpo in situazione; la carne, invece, appare come contingenza pura della presenza. È di solito nascosta dal belletto, dai vestiti, ecc; soprattutto, è dissimulata dai movimenti; niente è meno “in carne” di una danzatrice, anche se nuda. Il desiderio è un tentativo di svestire il corpo dei suoi movimenti come di vestiti, e di farlo esistere come pura carne; è un tentativo di incarnazione del corpo dell'altro. Solo in questo senso le carezze sono appropriazione del corpo dell'altro; è evidente che, se le carezze non consistessero che nello sfiorare o toccare, non potrebbero avere alcun rapporto con il potente desiderio che pretendono di colmare; rimarrebbero alla superficie, come gli sguardi, e non potrebbero rendermi padrone dell'altro. Si sa quanto sia insufficiente la famosa frase: “Contatto di due epidermidi”. La carezza non vuole essere un semplice contatto; sembra che solo l'uomo possa ridurla a semplice contatto, ed allora vien meno al suo significato. Perché la carezza non è un semplice sfiorare: ma un foggiare. Carezzando l'altro, io faccio nascere la sua carne con la mia carezza, sotto le mie dita. La carezza fa parte dell'insieme di cerimonie che incarnano l'altro. Ma, si può obbiettare, non era forse già incarnato? No. La carne dell'altro non esisteva esplicitamente per me, perché percepivo il corpo dell'altro in situazione; non esisteva per lui perché la trascendeva verso le sue possibilità e verso l'oggetto. La carezza fa nascere l'altro come carne per me e per lui. E con carne, intendiamo una parte del corpo, cioè il derma, tessuto connettivo, e, precisamente, epidermide: non si tratta più necessariamente del corpo “in riposo” o addormentato, benché spesso è così che rivela meglio la sua carne. Ma la carezza rivela la carne spogliando il corpo della sua azione, scindendolo dalle possibilità che lo circondano: è fatto per scoprire sotto l'atto la trama d'inerzia – cioè il puro “essere-là”– che lo sostiene: per esempio, prendendo e carezzando la mano dell'altro io scopro, sotto la presa, che la mano è, prima di tutto, una massa estesa di carne e di ossa che può essere presa; e, similmente, il mio sguardo carezza, quando scopre, sotto il salto delle gambe della danzatrice – che esse sono per prima cosa – la forma lunata delle cosce. Così la carezza non si distingue per nulla dal desiderio: carezzare cogli occhi o desiderare è la stessa cosa; il desiderio si esprime con la carezza come il pensiero col linguaggio. E la carezza rivela la carne in modo assai particolare: afferrare l'altro è rivelargli la sua inerzia e la sua passività di trascendenza-trascesa; ma carezzare non consiste in questo. Nella carezza, non è il mio corpo come forma sintetica in azione che carezza l'altro: ma è il mio corpo di carne che fa nascere la carne dell'altro. La carezza è fatta per far nascere con il piacere il corpo dell'altro all'altro ed a me stesso come passività toccata in quanto il mio corpo si fa carne per toccarlo con la propria passività, cioè carezzandosi di contro a lui piuttosto che carezzandolo. Per questo i gesti d'amore hanno un languore che potrebbe dirsi studiato: non si tratta di prendere una parte del corpo dell'altro, quanto di portare il proprio corpo contro il corpo dell'altro. Non tanto di spingere o di toccare, in senso attivo, ma di porre contro. Sembra che io porti il mio braccio, come un oggetto inanimato, e che lo ponga contro il fianco della donna desiderata: che le mie dita che faccio scorrere sul suo braccio, siano inerti in cima alla mia mano. Così la rivelazione della carne dell'altro si fa per mezzo della mia carne; nel desiderio e nella carezza che l'esprime, mi incarno per realizzare l'incarnazione dell'altro; e la carezza, realizzando l'incarnazione dell'altro mi manifesta la mia incarnazione; cioè io mi faccio carne per indurre l'altro a realizzare per-sé e per me la sua carne e le mie carezze fanno nascere per me la mia carne in quanto è, per l'altro, carne che lo fa nascere come carne; gli faccio gustare la mia carne con la sua carne, per obbligarlo a sentirsi carne. E di conseguenza il possesso appare veramente come duplice incarnazione reciproca. Così, nel desiderio, c'è il tentativo di incarnazione della coscienza […] per realizzare l'incarnazione dell'altro».

Jean-Paul Sartre, L'essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 1965 (traduzione Giuseppe Del Bo, pagg. 440-442 dell'edizione del 2002).

4 commenti:

Anonimo ha detto...

Come sostengo da sempre (da quando ero adolescente): Eros è Conoscenza. Conosco me, conosco l'altro, usando un linguaggio che è molto più profondo ed intimo di qualsiasi parola. E per far questo non si arriva a "scopare", basta uno sguardo, o, appunto, una carezza. Infinita bellezza e profondità del desiderio reciproco di due corpi, immagine del Sé. Sartre è uno dei miei autori preferiti, con Simone De Beauvoir, sua compagna.
Grazie per la suggestione potente (tu lo sai che con me sfondi una porta aperta...).

sirio59.mm ha detto...

Non certo 'facezie corporali': è il Desiderio l' assoluto ed indiscusso protagonista dell' incontro di due corpi. Il piacere, come culmine del rito, ne comporta l' immediata sconfitta. Inizialmente il rituale magico e quasi sciamanico che la coscienza stava operando tendeva, in realtà, attraverso gli atti che conducono al reciproco possesso della carne, a realizzare una sorta di "trascendenza reciproca e simultanea": è soltanto attraverso l' altro corpo che mi è dato, infatti,di avere certezza dell' oggettività del mio. Solo in relazione all' altro diventiamo qualcosa, riusciamo ad essere qualcosa; altrimenti la "condanna ad essere liberi", che come umani ci caratterizza, ci porterebbe direttamente nelle fauci del nulla.
Nonostante l'auto-imposta "freddezza" di quest' opinione, caro Luca, è anche per questa inesauribile magìa che possiamo tollerare di vivere sotto il peso del sospetto dell' irrilevanza, dell' inutilità, dell' assurdità, dell' assenza di troppe risposte. Mi pare anche perfino plausibile immaginare che il primo verso del capostipite dei poeti sia nato sotto la suggestione di un desiderio di carnale amore... Morena

Gians ha detto...

Non saprei caro Luca se posso concordare su tutto, lo scritto sia chiaro è splendido e scorrevole da leggere, ma il fatto che mai e poi mai faccia riferimento a quella particolare scintilla che solo dal cervello si scaturisce in occasione di una carezza particolare, mi lascia un vuoto che almeno per me è incolmabile: non si desiderala la carne, ma la materia che la muove.

Gians ha detto...

..dal cervello scaturisce.