martedì 31 gennaio 2012

Famigerate spallucce

Anni fa (sarà stato il 1993, piena Tangentopoli), più o meno in questo periodo dell'anno, ebbi la fortuna (!?) di viaggiare nella tratta Milano-Sion, sul Cisalpino, seduto di fronte a Gayla (credo con la y), una stupenda modella di Armani (così ella mi disse, che sfilava per lui). Bella era bella, era poi sola e, ma tu guarda il caso, avevo il posto prenotato proprio davanti a lei. Confrontai più volte il numero scritto nel mio biglietto con quello scritto sopra il sedile, per essere sicuro di non aver preso un abbaglio: nessun dubbio, quel sedile era mio e lei era davanti a me. 
Silenzio imbarazzato fino a Gallarate, furtivi sguardi reciproci (soprattutto i miei), nel tentativo elegante di imbastire un approccio (intanto controllavo più volte se puzzavo di sudore: avevo fatto una corsa bestia per non perdere quel treno. Il diretto che mi aveva portato in centrale da Firenze era un'ora in ritardo, solo due minuti per andare da un binario a un altro, che fiatone!). 
A Sesto Calende, dopo aver finito la lettura di un rotocalco, Gayla tirò fuori dalla sua borsa Morte a Venezia. Era il momento. Posai un attimo il Purgatorio di Sermonti (con la supervisione di Contini), tirai fuori dal mio zaino Tonio Kröger e le dissi, cercando di assumere un tono ironicamente cattedratico: «Suggerisco anche questo, dello stesso autore». 
Fu così che iniziammo a parlare di letteratura, di arte, dei miei inutili studi filosofici e del suo lavoro da modella. Dio, quant'era bella, la voce calma e suadente e, soprattutto, percepivo la sua benevolenza nell'ascoltare le mie fole letterarie ed esistenziali. La piacevole conversazione fu interrotta soltanto a Iselle, quando tre doganieri (due uomini e un pastore tedesco) entrarono nel vagone per dei controlli di routine. Arrivarono da me, da noi, quando il treno era nel pieno del tunnel (del Sempione). Avevo i capelli leggermente lunghi, uno zaino un po' sospetto e lo sguardo estasiato da cotanta bellezza. 
«Documenti», mi chiesero. A me e basta, naturalmente, non appena dissi che no, «purtroppo io e la signorina non viaggiamo insieme pur se viaggiamo insieme». 
Mi fecero aprire lo zaino e si concentrarono su una piccola borsetta dove tenevo rasoio-sapone-spazzolino-dentifricio e due barattolini di pillole, uno di echinacea e uno di rosa canina (ero fissato con la fitoterapia). 
«E queste cosa sono?», mi chiese uno dei due, quello più giovane. 
«Beh, c'è scritto mi pare», risposi con tono dimesso. 
«Non faccia lo spiritoso» e aprirono i piccoli barattoli e li fecero annusare al pastore che mi fece una faccia triste come di chi si giustificasse che non era sua la colpa. Di poi, il più anziano, prese il mio dentifricio alle erbe, svitò il tappo, e fece annusare anch'esso al cane, il quale - attratto si vede dal ricordo dei profumi selvatici di timo e ortica - lasciò una piccola goccia umida del suo naso proprio nella filettatura del tubetto e cominciò a sbavare. Un pastore nostalgico, insomma.
Mi lasciarono lì con lo zaino sottosopra senza nemmeno scusarsi del disturbo i due ligi doganieri, solo il  cane mi fece un cenno di saluto leccandomi una mano.
La conversazione con Gayla riprese senza ritrovare l'incanto di prima. A Sion poi lei scese; la madre, che stava aspettando ai piedi del binario, salì per aiutarla a scendere i bagagli. Era una madre dallo sguardo severo, altoborghese, sorpresa che la figlia parlasse con uno scalzacane come me. La stava aspettando per raggiungere il rifugio in quota, su a Crans Montana. Subodorai odore di muffa, nella madre intendo, e avrei voluto essere Robin Hood in quello stesso momento per centrare una freccia sul culo della signora, fasciato in una tuta doposci color fucsia. Ci eravamo scambiati gli indirizzi, io e la figlia, e ci scrivemmo, successivamente qualche cartolina. Ma niente di più. Non c'erano cellulari ancora, e internet venne poi. Chissà in quale parte di mondo sarà ora e se, in certe fredde sere, tra il lusco e il brusco, si ricorderà di me. Ne dubito.
Ma perché io, intanto, mi sono ricordato di lei e dell'episodio dei doganieri?
Per questo.
A fine 2011 almeno 11 miliardi sono stati esportati illegalmente all'estero. Sono tornati i famigerati spalloni: negli ultimi tre mesi dell'anno i sequestri di valuta ai valichi di frontiera sono aumentati di oltre il 50%. Le esportazioni di lingotti d'oro verso la Confederazione elvetica è cresciuta tra il 30 e il 40%. "Il flusso in uscita di capitali e di beni pregiati, dall'inizio di gennaio, è in aumento esponenziale", conferma Befera. Che avverte: "Alcune banche svizzere hanno cominciato ad affittare le cassette di sicurezza dei grandi alberghi, perché non sono in grado di esaudire l'abnorme quantità di richieste che hanno dai clienti italiani". 
I famigerati spalloni. Ché, forse, se all'epoca fossi stato uno di loro, la signora, madre della modella, mi avrebbe fatto gli occhi dolci e invitato a seguire al rifugio lei e la figlia?

lunedì 30 gennaio 2012

I am very happy without radio

Ogni tanto la radio festeggia un anniversario per dire che no, non è morta, che anzi è viva vivissima, che ci gira e ci canta e ci parla gente ganza, gente figa, colla barba o colla parrucca, l'importante è che parli, e che parli sempre senza che quello che dice intervenga veramente nella vita che scorre e che passa, una grassa risata dietro il microfono s'intende. E poi consigli per gli acquisti, numerosi acquisti, gingle e spot, reclame e pubblicità, sponsor e messaggi promozionali, l'è tutto un vendere tanto qualcuno che compra c'è sempre, hai voglia che tanto chi ha i soldi ascolta la radio, che alla radio passano i messaggi subliminali, le vere rivoluzioni di costume, i veri sommovimenti di corpo, alla radio si scoprono tendenze, si dettano mode, alle radio ironiche, alle radio di quasi contestazione, alle radio di prime pagine da sfogliare che tanto ho tutto quel tempo per leggere poi gli articoli di fondo, e le telefonate, avete mai voi telefonato in diretta e interloquito ironicamente col conduttore, avete mai voi mandato affanculo qualcuno in diretta radiofonica, io no, sono sempre stato educato, persino quando a prima pagina c'è l'acuto Giorgio dell'Arti, hai capito, quello del foglio dei fogli che giustificava Berlusconi, tanto intelligente quell'uomo rubrica, e piglio il meglio io, mica i ganzi di radio debenedetti. A me piace Radio Capitale con la e finale. O Radio Pazienza, Andrea intendo, la radio a fumetti. O Radio Plutonio in diretta dal Giappone. Non ascoltare la radio è più importante che ascoltarla, giacché la radio dà l'impressione ruffiana di colloquiare in diretta con te e non è vero affatto. Tu di là, ovunque tu sia, in auto oppure mentre stai facendo un lavoretto e vuoi che qualcuno tenga compagnia alla tua mente, hai la falsa impressione che quelli al microfono si rivolgano a te con la loro sequela di cazzate e di informazioni. E invece no. Essi si parlano addosso, diarree di parole virali che infettano la mente e spegni di corsa quell'apparecchio, buttalo in terra e fracassalo pensando a una faccia da radio qualsiasi e impara a mettere musica e parole da te.

Le cose che avete costruito, vi hanno reso ciò che siete

Se Giglioli avesse scritto “un po' stronzo” riferendosi a Marchionne, l'avvocato Giovannandrea Anfora (che nome e cognome straordinari, proprio da avvocato) non avrebbe avuto, dal suo assistito, l'ordine di intimare, allo stesso Giglioli, di eliminare la frase incriminata («Nasce la Nuova Panda: ed è già un po' stronza»).

Non so se avete visto la pubblicità della Nuova Panda che ci dovrebbe far sentire orgogliosi come italiani costruttori di automobili, non solo per i soliti triti cliché che l'estero ci affibbia. «È il momento di decidere se essere noi stessi, o se ci vogliamo accontentare dell'immagine che ci vogliono dare», dice la suadente voce maschile dello spot. Qui è la Fiat Group che parla, ma non parla per sé: parla agli italiani, anche a me. E io mi sento leggermente preso per il culo da una pubblicità del genere. In tutti questi anni di produzione automobilistica hanno perso consistenti fette di mercato, fino ad arrivare a uno scarsissimo 20% del totale delle auto vendute, e vengono a rinfacciarmelo a me, a noi italiani? Non esiste altro caso al mondo di esterofilia automobilistica come in Italia. Sì, la Ferrari: la Ferrari un cazzo. Andate in Francia o in Germania a vedere in un qualsiasi parcheggio di una qualsiasi cittadina, contate le auto presenti e poi fate la percentuale di auto nazionali e di auto estere.
Chi ha la colpa se la Fiat ha perso tutto questo mercato in Italia? Gli italiani o la Fiat stessa?
Diceva Ford che quando vedeva passare un'Alfa Romeo si toglieva il cappello.
Io quando vedo passare un'auto del gruppo Fiat, mi ride il femminile singolare di ciò che Ford si toglieva.
Ma non sono contento di questo, no.

domenica 29 gennaio 2012

Consecutive


Così alta che non andavo mai oltre il suo seno.
Così casta che non guardavo mai il suo giardino.
Così fiera che stavo a mille miglia da sua mano.
Così smarrita che mai sfidava un suo domani.
Così scaltra che mai baro la giocava con tre carte.
Così volpe che ti avrebbe fiutato a mille metri.
Così tetra che avrebbe offeso chiaro vetro.
Così bella che l'avrei fatta musa di mia parte.

Giovanni Orelli, Un eterno imperfetto, Garzanti, Milano 2006

A parte.
Il mezzovolto sopra riportato appartiene a Marisol, persona, mujer, indigena. Che voce, che tristezza (vedi video a, circa, 1'10'').
La poesia di Orelli non c'entra nulla con la condizione delle donne in Bolivia. È che cercavo un volto bello che non avessi mai visto e mi sono imbattuto in questo e, ripeto, nella voce. Non credevo che la società boliviana fosse così patriarcale e maschilista. E meno male c'è Morales presidente dal 2006.

La ritirata del capitale

A Olympe, alla sua impresa pedagogica.


A Davos si riscopre il concetto di classe. Tutta colpa della divisione dei cessi. Forse che sia questa la ritirata del capitale?
Ho già detto che sto entrando, in punta dei piedi, nell'edificio teorico di Marx. Quello che comincio a leggere nelle pareti d'ingresso è che il comunismo non può e non deve essere uno stato ma un movimento che tenta di abolire la divisione dei cessi in modo strutturale non per invertire l'ordine dei fattori tra sfruttati e sfruttatori, bensì per permettere agli individui trasformare la storia particolare in storia universale.
«Nella storia fino ad oggi trascorsa è certo un fatto empirico che i singoli individui, con l'allargarsi dell'attività sul piano storico universale, sono stati sempre asserviti a un potere a loro estraneo [...], a un potere del cosiddetto spirito che è diventato sempre più smisurato e che in ultima istanza si rivela come mercato mondiale. Ma è altrettanto empiricamente dimostrato che col rovesciamento dello stato attuale della società attraverso la rivoluzione comunista [...] e l'abolizione della proprietà privata che con essa si identifica, questo potere così misterioso [...] verrà liquidato, e allora verrà attuata la liberazione di ogni singolo individuo nella stessa misura in cui la storia si trasforma in storia universale. Che la ricchezza spirituale reale dell'individuo dipenda interamente dalla ricchezza delle sue relazioni reali [...]. Soltanto attraverso quel passo i singoli individui vengono liberati dai vari limiti nazionali e locali, posti in relazione pratica con la produzione (anche spirituale) di tutto il mondo e messi in condizione di acquistare la capacità di godere di questa produzione universale di tutta la terra (creazioni degli uomini)».
Karl Marx-Friedrich Engels, La concezione materialistica della storia, 1845-46, traduzione di Fausto Codino, Editori Riuniti, Roma 1971
Premetto che a me convince molto tale piano teorico (e anche pratico) di liberazione, ma sento che esso non deve essere guidato da qualcuno (un partito, per esempio), ma vissuto singolarmente; e questo, lo so, è difficile. La coscienza individuale è quella che conta; e, altresì, quello che sta un millimetro sotto la coscienza: il desiderio. Cosa desideriamo veramente, o meglio: il prendere coscienza della necessità della rivoluzione, riuscirà a modificare i nostri stessi bisogni e desideri? Ricordiamo, infatti, che una volta soddisfatti tutti i bisogni primari, l'uomo desidera ancora. E cosa desidera se non l'essere? Voglio dire: nella nostra vita non ci può essere uno stato di quiete, di perfezione, di felicità assoluta. Siamo più o meno tutti con l'acqua alla gola, cambia solo il sapore dell'acqua, la capacità di berne quantità di amara e salata e putrida, o chiara e fresca e dolce.
E penso a Laura anch'io. Tutti abbiamo una Laura che spegne e accende le nostre lacrime e le nostra risa. A intermittenza.
Sono dentro questo palazzo e mi muovo a modo mio. «Da ognuno secondo le proprie capacità, a ognuno secondo i propri bisogni». Qualcuno sa indicarmi la porta del bagno?

sabato 28 gennaio 2012

Buon seriggio*

Vincent Van Gogh, L'Allée aux deux promeneurs.
Io sono quello sulla destra, l'altro/a sei tu.

*Chiara e splendida fusione di sera e pomeriggio che da poco ho conosciuto grazie a Me.

venerdì 27 gennaio 2012

Una tacca d'uomo


Solo per dire che stasera la connessione internet via adsl non mi funziona. Uso la chiavetta usb che dove abito va solo a una tacca, quindi potete immaginare. Volevo solo condividere un disagio, una subitanea crisi di astinenza, uno smarrimento. Non potere accedere alla rete come una forma di sottile tortura. Mi rendo conto che internet fa parte della mia vita come mai avrei potuto immaginare, come mai avrei pensato potesse accadere. Ma è accaduto e indietro non voglio tornare, anche perché, per me, vivere una parte consistente di vita qui dentro – sembrerà sconvolgente ma è così – è come una ricchezza, un godimento, una gratificazione intellettuale e d'essere profonda, giacché vivere qui è una specie di moltiplicazione del mio stesso vivere. Ed è per questo che non potervi accedere diventa come una privazione d'essere. Per me la vita internettiana è un continuo andare sui banchi di una universale università dove, oltre ad ascoltare, ogni tanto, ogni tanto spesso, alzo la mano e dico la mia e mi sento bene nel dirla; e se non potessi fare questo sentirei, come sento ora, una tremenda voglia di uscire, di andare nelle piazze, nelle strade, sotto portici o in chissà dove, solo che se vado fuori, quasi sicuramente, non “esporrei” i miei pensieri come faccio qui, li terrei trattenuti, ovvero non consentirei al mio pensare l'azione, ma la difesa, perché fuori è difficile prendere un proprio simile e dirgli così d'acchito come la si pensa, si rischia di essere invadenti, inopportuni, piccoli folli in cerca di applausi. Mentre qui uno lascia la propria testimonianza senza preoccupazione, solo una controllatina ortografica, la ricerca di qualche riferimento e appiglio culturale e poi via, si digita il tasto pubblica, e si lancia il proprio s.o.s. Se si è sufficientemente onesti, ovvero se non si è proprio dei figli di puttana strutturali, è probabile che prima o poi qualcuno venga a soccorrerti. A me è capitato, a me càpita. Sento braccia intorno a raccogliere quella piccola porzione d'essere che si fa chiamare un tal Lucas.

Arte venatoria

Questa è una cartuccia

Questa è una mezzacartuccia

Questo è lo schioppo

Questi sono i tordi

giovedì 26 gennaio 2012

Al cavaliere d'oro*


Sei tutto ciò che è d'oro
nel grande mondo.

Io cerco le tue stelle
e non voglio dormire.

Vogliamo coricarci tra le siepi,
e mai più rialzarci -

baciare dolci sogni
nascenti in mano nostra.

Rose coglie il mio cuore
dalla tua bocca.

Ti amano i miei occhi, e tu ne insegui
lo svolìo di farfalle.

Che cosa fare, se
tu non ci sei.

Neve nera mi goccia dalle palpebre;
morta io, gioca tu con la mia anima.

Else Lasker-Schüler, Ballate ebraiche e altre poesie, La Giuntina, Firenze 1985 (traduzione di Maura del Serra).

An den Ritter aus Gold

Du bist alles was aus Gold ist
In der großen Welt.

Ich suche deine Sterne
Und will nicht schlafen.

Wir wollen uns hinter Hecken legen,
Uns niemehr aufrichten.

Aus unseren Händen
Süße Träumerei küssen.

Mein Herz holt sich
Von deinem Munde Rosen.

Meine Augen lieben dich an,
Du haschst nach ihren Faltern.

Was soll ich tun,
Wenn du nicht da bist.

Von meinen Lidern
Tropft schwarzer Schnee;

Wenn ich tot bin,
Spiele du mit meiner Seele.



*Nessun riferimento al cavaliere di fango (dopo 18 anni di campo).

Diciotto anni di campo e niente carciofi

Stavo per dimenticare che oggi è la giornata della memoria... della discesa in campo di Berlusconi. Meno male che il solerte Antonio Palmieri me lo ha ricordato personalmente (cliccate sull'immagine). Diciotto anni fa, in una triste sera di gennaio, il mezza cartuccia, pelle di miele e capelli di pece, comunicò via etere le sue intenzioni politiche. Diciotto anni di divertimento e sofferenza insieme. Diciotto anni per irrancidire un'Italia di burro. Detrattori o sostenitori a parte, ricorderemo il suo enorme ego, non ancora del tutto sgonfio, sospeso lì a mezz'aria, come una mongolfiera piena di Otelmi e di Malgiogli che si tuffano per cercare di arrotondare la pensione. Un calcio in culo e giù - Silvio vola nello spazio, alla ricerca di una solitudine che è condannato ad avere solo il giorno in cui morirà.

Top Fisherman


Le location de' servizi fotografici fashion (lochescion/fescion rima baciatissima) sono sempre più eccentriche e sorprendenti. In questo servizio, la modella Inguna Butane interpreta The Angel of Circeo, per la regia fotografica di Federico De Angelis.
Quello che mi chiedo è se anche il pescatore a riposo, seduto sull'enorme tubo corrugato, percepisca anch'egli qualche centinaio di euro dalle Maison Paule Ka e Martin Margiela, così per risollevare l'economia della zona.

Fattorie padane

Chissà dove qualcuno viaggia a rotta di collo verso di te,
a velocità incredibile, viaggiando giorno e notte,
per tormente e calura desertica, attraverso torrenti, per passi angusti.
Ma saprà dove trovarti,
riconoscerti nel vederti,
darti la cosa che ha per te?

Qui non cresce quasi niente,
eppure i granai scoppiano di farina
i sacchi di farina arrivano agli architravi.
I corsi d'acqua scorrono con dolcezza, ingrassano i pesci;
gli uccelli oscurano il cielo. Può bastare
che la ciotola di latte sia messa fuori la sera,
che noi a volte lo pensiamo,
a volte e sempre, con sentimenti contrastanti?

John Ashbery, At North Farm, in Un mondo che non può essere migliore, Luca Sossella, Roma 2008, traduzione di Damiano Abeni con Moira Egan, 

Somewhere someone is traveling furiously toward you,
At incredible speed, traveling day and night,
Through blizzards and desert heat, across torrents, through narrow passes.
But will he know where to find you,
Recognize you when he sees you,
Give you the thing he has for you?

Hardly anything grows here,
Yet the granaries are bursting with meal,
The sacks of meal piled to the rafters.
The streams run with sweetness, fattening fish;
Birds darken the sky. Is it enough
That the dish of milk is set out at night,
That we think of him sometimes,
Sometimes and always, with mixed feelings?

mercoledì 25 gennaio 2012

Ci vuole calma

Calma e gesso. La guerra tra “poveri” non porta da nessuna parte se non allo sfilacciamento totale dei tenui legami della convivenza civile.
Sputare le proprie ragioni in faccia alle ragioni altrui fa sì che nessuno veramente venga colpito: entrambi gli sputi, incontrandosi, si annullano e le parole-saliva cadono a terra lerciando il nostro cammino.
Il problema è sempre lo stesso, che si ripete dall'alba dei tempi: la comunità umana trova pace soltanto solo se riesce a canalizzare la propria rabbia, il proprio odio, la propria violenza verso un obiettivo comune. E oggi, come ieri, il busillis è trovare questo nemico almeno un minuto prima della catastrofe generalizzata, della guerra vera e propria.
Siamo ancora maledettamente primitivi sotto questo punto di vista. Nonostante esista una scienza che spiega le cause della crisi – cause che sono intrinseche ai meccanismi di funzionamento del sistema capitalistico – noi umani ci facciamo cogliere sempre dalla parte della ragione perché tutti gli altri hanno torto.
A forza espellerci, a forza di dare la colpa a questo o a quello, non riusciremo mai a venirne fuori e resteremo aggrovigliati nei nostri risentimenti, finché questi non esploderanno nella violenza indiscriminata, nel ritorno all'orda primitiva che si picchia i pugni sul petto per far sentire a tutti la propria possanza.
La scena iniziale di 2001 Odissea nello spazio è l'insuperabile rappresentazione di quello che veramente siamo.
Non ho soluzioni da dare. Leggo, m'informo, partecipo marginalmente al disagio che ci investe. Non stiamo affatto bene come umani. Non riusciamo a darci obiettivi, immanenti obiettivi, che elevino consapevolmente la nostra specie verso quelle cose minime che ci renderebbero collettivamente meno affamati di giustizia.
Sia chiaro: esistono i padroni ed esistono gli schiavi. Esiste lo sfruttamento e il depauperamento di qualcosa che appartiene a tutti i viventi, umani compresi. Ma bisogna prima di tutto essere realisti nel riconoscere che, questo gioco bastardo delle parti, ci vede protagonisti casuali di una lotta che dovremmo rifiutare di combattere se l'obiettivo è soltanto cambiare ruolo. Vale a dire: bisogna confessarsi amaramente che se noi fossimo loro (e con loro intendo chiaramente quella fottuta minoranza di potenti-roditori del mondo) saremmo come loro.
27 Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, perché siete simili a sepolcri imbiancati, che appaiono belli di fuori, ma dentro sono pieni d'ossa di morti e d'ogni immondizia.28 Così anche voi, di fuori sembrate giusti alla gente; ma dentro siete pieni d'ipocrisia e d'iniquità.29 Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, perché costruite i sepolcri ai profeti e adornate le tombe dei giusti 30 e dite: "Se fossimo vissuti ai tempi dei nostri padri, non saremmo stati loro complici nello spargere il sangue dei profeti!" 31 In tal modo voi testimoniate contro voi stessi, di essere figli di coloro che uccisero i profeti. 32 E colmate pure la misura dei vostri padri! (Mt, 23).
Le parole di Gesù sono inequivocabilmente vere. Senza questa coscienza primaria, basica, non potremo tentare di raggiungere l'altra, la scientifica. Solo a condizione di queste conoscenze minime che dovrebbero penetrare le nostre menti, potremmo andare da un Bill Gates (non certo uno dei peggiori) e dirgli: «Cazzo dici, Bill: disfatti di tutto, mantieni solo il necessario per vivere bene e poi parliamone».
E adesso vado a letto ché domani devo pescare trote e cogliere le ultime nespole (non mi chiedete spiegazioni di quest'ultima frase).

Salassoterapie


Povera Demi. Secondo me sono state le sanguisughe (vedi a 10'15'')

Sono tutti uguali gli americani


Per favore, qualcuno che se ne intende può fare un grafico così anche per i presidenti del consiglio italiani succedutesi nello stesso periodo di tempo dei presidenti americani sopra riportati?

(via)

La superficie impenetrabile delle cose

Ho trovato questa poesia qui. È del poeta americano Dana Gioia. Mai sentito prima (perdonate l'ignoranza). Ho provato a tradurre veloce, a tradire, qualcosa che mi sembra essere bello. 


Do not expect that if your book falls open
to a certain page, that any phrase
you read will make a difference today,
or that the voices you might overhear
when the wind moves through the yellow-green
and golden tent of autumn, speak to you.

Things ripen or go dry. Light plays on the
dark surface of the lake. Each afternoon
your shadow walks beside you on the wall,
and the days stay long and heavy underneath
the distant rumor of the harvest. One
more summer gone,
and one way or another you survive,
dull or regretful, never learning that
nothing is hidden in the obvious
changes of the world, that even the dim
reflection of the sun on tall, dry grass
is more than you will ever understand.


And only briefly then
you touch, you see, you press against
the surface of impenetrable things
   Se il tuo libro si apre a una certa pagina,
   non aspettarti che ogni frase
   che leggi faccia la differenza oggi,
   o che le voci che puoi udire
  quando il vento soffia dentro il giallo-verde
  e la tenda d'oro dell'autunno, parlino con te.

  Le cose maturano o si prosciugano.
  La luce gioca sulla superficie
  scura del lago. Ogni pomeriggio
  la tua ombra ti cammina accanto al muro,
  «e i giorni sono tristi e grevi
  sotto il vago vocio delle messi»*. Un'altra
  estate è andata,
  e in un modo o nell'altro sopravvivi,
  opaco o pentito, e non comprendi che
  nulla è nascosto negli evidenti
cambiamenti del mondo, che anche il debole
  riflesso del sole sull'erba alta e secca
  è qualcosa che non potrai più capire.

E solo per breve tempo che poi
tocchi, vedi, stringi a te
la superficie impenetrabile delle cose.


Invito chi vuole a proporre una versione della medesima. Intanto ringrazio Kees Popinga per l'aiuto al verso tra virgolette (e lo prego di fare una versione migliore, oh quanto migliore, della mia).

martedì 24 gennaio 2012

Lingue sfigate

Scusate la curiosità: ma si pronuncia Maicol o Miscel?

Qualcosa nella realtà è cambiato

«Quando tutte le prerogative di nascita e di ricchezza sono distrutte, quando tutte le professioni sono aperte a tutti, e si può giungere da soli all'apice di ciascuna di esse, una carriera immensa e facile sembra aprirsi davanti all'ambizione degli uomini, ed essi si immaginano volentieri di essere chiamati a compiere grandi cose. Ma l'esperienza quotidiana s'incarica di correggere questo modo erroneo di giudicare. La stessa uguaglianza che permette a ogni cittadino di concepire grandi speranze, rende tutti i cittadini deboli individualmente. Circoscrivere le loro forze, permettendo in pari tempo ai loro desideri di espandersi [...] Hanno distrutto gli irritanti privilegi di alcuni dei loro simili; incontrano la concorrenza di tutti. Il limite ha cambiato forma anziché posto. [...] La costante opposizione che regna fra gli istinti che l'uguaglianza genera e i mezzi che essa fornisce per soddisfarli, tormenta e affatica gli animi [...] Per democratica che sia la condizione sociale e la costituzione politica di un popolo, si può star certi che ogni cittadino coglierà sempre accanto a sé molti elementi di costrizione, e si può prevedere che volgerà ostinatamente lo sguardo solo da quella parte».

Alexis de Tocqueville, La democrazia in America, [citazione presa da R. Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, Bompiani, Milano 1965, pag. 107]

Era qualche giorno che giravo intorno a questa citazione con l'idea di scriverne qualcosa. Gli appunti presi non mi convincevano, gli strali sui tassisti meno. Eppure qualcosa volevo dire partendo dal fatto che vivere in una repubblica, per di più democratica, comporta un periodico rinnovamento dei codici che regolano la vita civile, giacché - mi pare ovvio - che qualcosa che si è stabilito un tempo, cinquanta o trent'anni fa, oggi possa essere riconsiderato secondo una nuova prospettiva. Questo è, o almeno dovrebbe essere, un principio valido per ogni sana convivenza civile e democratica che tenga conto, innanzitutto, dell'interesse generale dei cittadini.
Ripetiamo alcune cose basiche. Nel '46 nacque la Repubblica. Nel '48 fu approvata la Costituzione. Da essa sono scaturite tutte le leggi che regolano il nostro vivere. Il codice penale, il codice civile, il codice tributario, il codice stradale, eccetera. Anche il codice che regola il funzionamento della professione dei tassisti. O dei farmacisti. O dei notai. O degli insegnanti. Eccetera.
Prendiamo la Scuola: chiunque, dal dopoguerra a oggi, può notare che essa è strutturalmente cambiata nel corso degli anni. In peggio o in meglio... non importa qui stabilirlo, ma essa, come istituzione codificata, è cambiata e cambia continuamente. Prendiamo, invece, i farmacisti. Cos'è cambiato da allora? Il fatto che, tranne pochissimi, non fanno più preparazioni galeniche e che ogni farmacia vende ogni ben di multinazionale. E i tassisti? Non hanno più le auto gialle, ma bianche; non avevano il navigatore, lo hanno. La struttura del lavoro di molte categorie è rimasta tal quale a quando fu concepita la prima regolazione dello stesso, tranne poche, non certo strutturali modifiche .
Giravo intorno, dicevo, a queste idee senza sbocco, quando oggi ho letto questo post di Giulio Mozzi che ha dato una possibilità in più al mio (s)ragionare:
qual è il senso dei vincoli? Perché nelle precedenti legislature furono stabiliti? Perché oggi si tolgono? Se si cambia una legge, è di solito perché qualcosa nella realtà è cambiato: che cosa dunque è cambiato oggi rispetto a cinque, dieci, venti anni fa? Perché vent’anni fa aveva senso dover chiedere la licenza per aprire un negozio, e oggi non ha più senso?
Ecco, che «qualcosa nella realtà è cambiato», è pacifico. Ed è evidente che, fatti salvi i punti cardinali della Costituzione, tutte le procedure che regolano il nostro vivere civile, il nostro lavoro, eccetera, debbano essere riesaminate quando il loro dettato cozza contro la nuova realtà delle cose. Il problema fondamentale è che, quando vengono fatte queste regolazioni, quale che sia il governo, per avere una reale efficacia e una loro intrinseca giustizia costituzionale, esse dovrebbero essere applicate in modo da “registrare come un motore” tutto il funzionamento della macchina-Stato.
E la ragione per cui il vero colpo tra capo e collo agli italiani dipendenti della riforma delle pensioni, pur lasciando tanta amarezza nella popolazione, non ha provocato una protesta paragonabile a quella dei tassisti o dei camionisti, è perché in questo caso, il governo ha distribuito il colpo su milioni di cittadini facendoli partecipi di un sacrificio (non voluto) per il bene del Paese.
Nel mondo democratico occidentale, il modo migliore per ottenere dei vantaggi è cercare di farsi passare da vittima. Nella moltitudine è difficile che tutti coloro che la compongono assumano su di sé questo ruolo sacrificale. Non così nelle piccole categorie professionali, che urlano come baccanti il loro dolore, stando lì pronte ad azzannare il primo politico che passa scambiandolo per un vitello. È questa la vera ragione per cui mette più in crisi una nazione una minoranza rumorosa che scalpita per quella che considera un'ingiustizia ai suoi danni, che una maggioranza di agnelli sacrificali che mesti accettano vengano tolti gli adeguamenti dei loro stipendi all'inflazione.

lunedì 23 gennaio 2012

Immagino le mani

(via)
Non avrei mai creduto che un vestito simile potesse avere tasche.

Sono nato, è successo


Sono nato, è successo. Da quel giorno non sono più stato me stesso. Da quel giorno è stato tutto un sognare il ritorno nel caldo che intorno mi avvolse e mi tenne. Era inverno – la luna in acquario – e venne il momento preciso che ho segnato oggi nel calendario. Stavo dormendo, e una donna di nome Marisa – la levatrice – mi tolse il velo di liquido amniotico di dosso, mi tagliò e unse l'ombelico e mi guardò dritto nelle palpebre socchiuse, sillabando: «Amico, è finita: è arrivata la vita. Su piangi che apre i polmoni, non è più un mondo di pesci, ma di coglioni. Piangi se ci riesci
che piangere fa bene. Le lacrime non sono sangue che richiama le iene».
Poi mi ricordo che tutto fu bianco, tranne i capelli scuri di mia madre, mia madre che mi prese
e mi dette di sé nutrimento. Poppare è stata una delle esperienze più gratificanti della mia vita.
Io me li ricordo bene quei momenti, sono rimasti impressi come pochi altri nella mia mente, me le sono segnate tutte le volte che mi sono attaccato al seno materno e ho mangiato. Poi è finita, d'altronde. Ma sono uno di quelli che non ha mai capito la necessità dello svezzamento. Mi sarebbe piaciuto ragionare all'epoca sulla cosa.
Ora sono qui, in un inverno diverso, meno freddo, meno intenso – qui a veder nascere un'idea che mi sono fatto di quel giorno particolare. Sono nato in una casa e in una casa sono adesso a far nascere un'idea che ho di me stesso, di quello che ero e che sono, perché sono quello che ero. Un principio antropico personalizzato: di fatto sono nato, di fatto esisto; e dato che esisto – e mi rendo conto di esistere, allora è vero che sono nato e che posso conoscere una piccola, infinitesima, porzione di universo. A cominciare da me. Ma da dove comincio? Da dove sono nato. È successo. Da quel giorno non sono più stato me stesso...

domenica 22 gennaio 2012

Forever articolo 18

La domenica, giorno festivo, è un giorno buono per parlare dell'articolo 18. Ne ha parlato lo stesso Monti poco fa dall'Annunziata; ne hanno scritto un editoriale Alesina & Giavazzi. È su quest'ultimo che vorrei fare alcune considerazioni. 
Gli economisti esordiscono scrivendo che, dopo le liberalizzazioni, per il governo Monti è il momento di metter mano a
la riforma del mercato del lavoro. Al centro c’è una questione di equità fra padri e figli. E di equità tra cittadini protetti dai sindacati e cittadini coinvolti nelle liberalizzazioni [...] La riforma dei contratti di lavoro deve liberare i giovani da una dipendenza forzata dai loro padri e dalle loro madri.
E fin qui d'accordo. Siano liberati i giovani dai legami, non solo economici, con la famiglia. Liberalizziamo le famiglie. Ma come? Facendo un nuovo piano di edilizia popolare per offrire case ai giovani a un prezzo accessibile? No
Per abbattere questo muro [del precariato giovanile] c’è una sola via: eliminare l’articolo 18. Sbaglia chi ripete che non è una battaglia che valga la pena di combattere. È una battaglia fondamentale.
Tale risolutezza, tipica di chi batte i pugni sul tavolo per cercar di dar più credibilità alle proprie convinzioni, non mi convince per nulla. Vale a dire: io non mi fido di quanto questi economisti liberal vanno proponendo. Guardate in Inghilterra cosa è accaduto dopo anni di liberalizzazioni spinte (ne ha cominciato a parlare Olympe, e spero scriva altri post sulla questione) e di riforma del mercato del lavoro.
Ma Alesina & Giavazzi sono così persuasi delle giustezza delle loro idee che credono addirittura che
in un momento di grande incertezza, come quello che stiamo attraversando, gli imprenditori sono restii ad assumere con l’inflessibilità dell’articolo 18 proprio perché sono insicuri sul futuro della loro azienda. Quindi è proprio in un momento difficile che l’articolo 18 preoccupa gli imprenditori. Quando tutto va bene e si è ottimisti, assumere per la vita è facile per tutti.
Assumere per la vita? Ché l'articolo 18, da quando esiste, ha impedito totalmente i licenziamenti in tutti questi anni? Ma dove hanno vissuto o vivono A&G? 
Chi pensa sia stato l'articolo 18 a provocare il declino industriale del Paese, cerca solo alibi affinché gli ingegnosi imprenditori abbiano ancor più le mani libere nei rapporti coi loro dipendenti. Chi pensa che abrogando l'articolo 18 fabbriche come la Omsa (o centinaia di altre) avrebbero mantenuto la loro produzione in Italia, mente sapendo di mentire. E infine, chi pensa che l'articolo 18 sia la causa della recessione, sa perfettamente di star dicendo una sciocchezza per cercare di allontanare l'attenzione pubblica dai veri problemi che attanagliano il sistema capitalistico (per essi rimando sempre a Olympe).
Ma cosa dice di tanto spaventoso per gli imprenditori l'articolo 18?
L'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori afferma che il licenziamento è valido se avviene per giusta causa o giustificato motivo.
ll lavoratore può presentare ricorso d'urgenza e ottenere la sospensione del provvedimento del datore fino alla conclusione del procedimento, della durata media di 3 anni.
Il giudice, in assenza dei presupposti di " Giusta causa " o " Giustificato motivo " può dichiarare l'illegittimità dell'atto di Licenziamento e ordinare la reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro. In alternativa, il dipendente può accettare un'indennità pari a 15 mensilità dell'ultimo stipendio, o un'indennità crescente con l'anzianità di servizio.
Nelle aziende che hanno Fino a 15 Dipendenti, se il giudice dichiara illegittimo il licenziamento, il datore può scegliere se riassumere il dipendente o pagargli un risarcimento. Può quindi rifiutare l'ordine di riassunzione, conseguente alla nullità del licenziamento.
La differenza fra riassunzione e reintegrazione è che, nel primo caso, il dipendente perde l'anzianità di servizio e i diritti acquisiti col precedente contratto (tutela obbligatoria).
L'unica cosa che non va nell'articolo 18 è che esso andrebbe esteso a tutti i lavoratori, ovvero anche alle imprese con meno di 15 dipendenti. In poche parole: l'articolo 18 andrebbe esteso alla vita stessa, però qui il problema diventerebbe filosofico e non credo che la filosofia della vita stia molto a cuore agli economisti liberal.

Twitteraggi

A tempo perso, ogni tanto apro il mio account su Twitter. Preciso: io Twitter lo uso solo per rinviare quello che pubblico qui, non altro. Non motteggio, mi viene difficile. Ma stamani ho aperto la mia pagina twitteriana e, cosa strana, vi trovo una sfilza di cinguettii einaudiani (dacché, tra i miei following, v'è Giulio Einaudi Editore):

Non ho nulla contro le citazioni; figuriamoci, fondo gran parte di questo blog su di esse. Ma trovo abbia poco senso (per usare un eufemismo) che esse vengano sparate così, alla cazzo di budda (cit.). Citare così mi sembra un tentativo disperato di seminare cultura, un po' come un povero soffione cittadino che disperde i suoi semi al vento nella speranza inutile di perpetuare la sua specie sull'asfalto. 
Se di questo citazionismo masturbatorio siamo vittima io e il cardinal Ravasi, passi; ma se ci cade anche un editore di rilievo come Einaudi, che nasce come impresa culturale ancor prima che economica, mi sembra veramente deleterio e irriguardoso nei confronti degli stessi autori citati.
Comunque, impressioni mie a parte, ho twittato una risposta @Einaudieditore, questa:
E cosa strana, ma simpatica, essi mi hanno risposto:
La risposta mi spinto poi a chiedere:
e mi hanno tolto la curiosità così:
Questo accade, insomma, nell'epoca del twitteraggio culturale. 
Twittare, più che cinguettare, mi sembra una salivazione continua di pensieri che sputiamo agli altri per mostrarci arguti e intelligenti, simpatici e interessanti. Per catturare l'attenzione e ottenere riconoscimento. Il problema è che a forza di sputare si resta spesso a gola secca. Allora si cercano le fonti, ci si abbevera al sapere altrui e si sputano citazioni.

«L'arancio mio che se n'andava»

È morto Vincenzo Consolo e mi dispiace. Ho qui davanti a me Retablo (Sellerio) del 1987, un libello formidabile, un attacco folgorante degno dell'incipit di Lolita.
«Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha ròso, il mio cervello s'è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia. Poi il tramonto, al vespero, quando nel cielo appare la sfera d'opalina, e l'aere sfervora, cala misericordia di frescura e la brezza del mare valica il cancello del giardino, scorre fra colonnette e palme del chiostro in clausura, coglie, coinvolge, spande odorosi fiati, olezzi distillati, balsami grommosi. Rosa che punto m'ha, ahi!, con la sua spina velenosa in su nel cuore.
Lia che m'ha liato la vita come il cedro o la lumia il dente, liana di tormento, catena di bagno sempiterno, libame oppioso, licore affatturato, letale pozione, lilio dell'inferno che credei divino, lima che sordamente mi corrose l'ossa, limaccia che m'invischiò nelle sue spire, lingua che m'attassò come angue che guizza dal pietrame, lioparda imperiosa, lippo dell'alma mia, liquame nero, pece dov'affogai, ahi!, per mia dannazione».
È quando ci si imbatte in brani del genere che la letteratura prende quota e ci trasporta in un mondo particolare fatto di suoni che a ripeterli, come una preghiera, provocano suggestioni, silenzi, piccole beatitudini., profumi di parole che arrivano dalla costa. Una specie d'incanto, forse inutile, fola passeggera come un sorso di spremuta al mattino appena alzati con l'amaro in bocca. Consolo consola e diverte. Apre la mente e la dispone a ricevere facili consolazioni.
C'è un passaggio, più avanti nel libro, che mi piace riportare
«Ero rimasto là impalato, sopra la rena della spiaggia di Falcone, mentre la tartana carica di piantine compiva l'ultimo viaggio (l'alta rocca del Tindaro, col santuario in cima, si rifletteva capovolta dentro l'acqua) scivolando verso il veliero grande che avrebbe portato gli aranci e i limoni a Napoli, ad Amalfi, a Genova, a Marsiglia di Francia, quei teneri alberelli destinati ai nobili palagi, alle regge delle capitali. Prigionieri per sempre dentro vasi, dietro vetrate di verande, logge, passaggi, scaloni, serre, giardini d'inverno, curiosità e sollazzo per dame e cavalieri d'alto lignaggio. Impalato e accordato a seguire con lo sguardo l'arancio mio che se n'andava, lì sopra la prua della barca, distinguibile fra gli altri per una fettuccia rossa che avevo annodato al suo tronco gracile. Arancio mio, unico, raro, che io avevo creato, secondo la fantasia e l'amore mio e secondo l'arte che m'insegno mastro Scilipòti (ristoro e pace all'anima sua in qualsiasi regno di là ove si trovi*), gran maestro d'innesti del mio paese di vivai chiamato Mazzarrà: grembo, nutrice, madre d'ogni pianta d'agrume, limone o arancio, credo o lumia, bergamotto, mandarino o chinotto che si trovi in questa terra di Sicilia e oltre.»
* Il “regno di là” ove si trova Mastro Scilipòti è il Parlamento, luogo dov'egli pratica, più che l'arte degli innesti, quella dei protesti. 

sabato 21 gennaio 2012

Nuovi pomodori pelati Pajero

*
La suddetta multinazionale nipponica ha comprato la AR Industrie Alimentari S.p.A. il più importante gruppo privato nel settore delle conserve alimentari in Italia ed uno dei maggiori al mondo. 
Non ho niente da dire al proposito, solo che quando vedrò passare una Mitsubishi non mi toglierò il cappello come faceva Henry Ford quando passava un'Alfa Romeo, ma prenderò l'apriscatole. 

Taxismo impunito

Ogni categoria professionale ha il diritto di protestare, di essere ascoltata dal governo e di contrattare gli accordi mediante le proprie organizzazioni sindacali. Anche i tassisti. 
Ma nessuna categoria professionale può avere il diritto di fare queste cose:
Della rabbia dei tassisti fa però le spese Massimo Cacciari. Passa di lì per caso con Piero Dello Strologo e Mario Epifani. Qualcuno lo riconosce e comincia a insultarlo. “Bravi, bravi, voi del Pd si avete fatto un bel regalo”. Cacciari tira dritto. Non pensa neppure che quelle parole siano indirizzate proprio a lui. Dal gruppo di tassisti si stacca un drappello di esasperati. Inseguono i tre e quando imboccano i portici della Borsa li accerchiano. Cacciari si ferma. «Ma che vi ho fatto io?», fa segno con la mano. Continua a camminare. Una decina di tassisti lo accerchia, comincia a strattonarlo. Uno, con il volto coperto da una sciarpa si rivolge così a Dello Strologo. «Stavolta passi e non ti facciamo niente, ma sappi che se finisce male, diamo fuoco alla città». Nel frattempo Cacciari ed Epifani hanno attraversato via Venti. Sono a poche decine di metri dal Bristol. Momenti follia, scatta la caccia all’uomo. Cacciari a stento riesce a rifugiarsi dentro il Bristol e deve ringraziare i vigili che a fatica riescono a creare un cordone di sicurezza. Un operatore di Telenord viene spintonato e preso a calci da due manifestanti con il volto coperto. Quindi i tassisti minacciano gli altri cronisti e li “invitano” andarsene. 
Cosa dovrebbero fare le operaie della Omsa, allora, ai cosiddetti manager della Golden Lady company? Passargli i collants tra le palle, stringere a cappio e appenderli a un pino silvestre? Se esse li avessero aggrediti come è stato aggredito Cacciari di sicuro ognuna avrebbe avuto l'indomani a casa la digos. Ma non ci sarebbe stato bisogno, dato che le loro proteste sarebbero state “controllate” da agguerrite pattuglie della celere. A Genova poi, che conoscono bene il territorio e con la Diaz sempre a disposizione.

venerdì 20 gennaio 2012

A far che tu chiami Dio?

Finardi, il Finardi di Sugo, era (è) un signor cantautore. 
Poi venne Dolce Italia e qualcosa cambiò.
Al prossimo Festival di Sanremo Finardi canterà una canzone intitolata E tu lo chiami Dio. Non escludo sia una bella canzone. Sono molto curioso di sentirla. Le presentazione, però, affidata - non so quanto informalmente - ad un'intervista per Avvenire, mi fa presagire il peggio (teologicamente parlando, s'intende).
Infatti, dopo aver ascoltato il brano in sala prove, Gigio Rancilio (!), l'intervistatore chiede.

È un bel paradosso dei nostri tempi che a cantare a Sanremo il valore delle fedi sia un’artista non credente.  
«No, perché tanti non credenti come me, si interrogano molto spesso su Dio. Noi musicisti abbiamo da sempre un rapporto speciale con la trascendenza. Io, poi, è da quando sono bambino che frequento il repertorio sacro».

Fin qui nulla di strano. Anch'io - che non oso definirmi non credente perché in fondo credo a tante cose, anche che domani mattina, all'alba, spunti il sole (nuvole permettendo) - m'interrogo spesso su Dio. Anzi: interrogo spesso Dio direttamente che si fa prima. Infatti, non ho mai capito questo parlare su: molto meglio parlare con, immaginazione per immaginazione. Quello che non capisco è come faccia un non credente ad avere «rapporti speciali con la trascendenza». Per un non credente, di solito, l'unico rapporto da avere con la trascendenza è quello di non dare ad essa alcuno statuto speciale. Ma vabbè, sono cose che si dicono. Non sia mai che quelli di Avvenire boicottino il brano suggerendo che non gli venga dato il televoto.
L'intervista continua.


Vuoi dire che non è nato come una «furbata» Sanremese?
«Io furbate non ne faccio. Da anni vado avanti per la mia strada. Da indipendente. Faccio dischi dedicati al fado, concerti con brani sacri, album di blues, uno spettacolo su Vysotsky, la voce narrante in un opera per la Scala, concerti per non udenti. Faccio solo cose di valore e che mi piacciono. Non inseguo più il successo. Uso l’arte per stare bene e far star bene. Ci hai fatto caso a quali sono le parole più importanti della musica?»
No, quali sono?
«Accordo, armonia, concerto. Tutti termini che indicano l’unione, la concordia, lo stare insieme. Tutti termini che sono legati profondamente anche alle fedi. Perché Dio, il vero Dio, è come l’amore. E senza l’amore si vive male. E si vive soli. Ma la fede, come l’amore, è un dono. Per questo anche se non credi non puoi non provare un senso di afflato con l’assoluto. Pensa che prima di accettare la proposta di Morandi di portare questo brano a Sanremo mi sono chiesto: non è che sto nominando il nome di Dio invano?».
E cosa ti sei risposto?
«Che questo brano è esattamente contro chi nomina invano Dio e chi usa la fede, qualunque fede, come un arma».


Non voglio sembrare uggioso, ma a me disturba molto che chiunque si dichiari non credente si affanni a trovare una definizione di Dio. Se non credi, infatti, cosa t'importa se Dio, il vero Dio, è amore oppure no? Non ti dovrebbe tangere. E poi, perché continuamente mescolare fede e amore come se fossero sinonimi? Ok, «senza l'amore si vive male». E cosa ti fa credere questo se non il fatto, concreto fatto, che - almeno una volta nella vita - hai sperimentato il dono dell'amore in una delle sue molteplici espressioni? Forse che la fede in Dio, apparizioni di madonne a parte, è qualcosa che si esperimenta nel concreto, come un abbraccio, un amplesso, l'affinità elettiva con un amico, il bacio della buonanotte che un figlio dà al genitore? No, e chi dice il contrario mente, forse non sapendo nemmeno di mentire. Per questo Dio è sempre nominato invano, non solo nelle occasioni che paiono tali, altresì nell'amore, giacché Dio non c'entra nulla con l'amore. È solo la fede che cerca di far credere questo, ovvero un'illusione. Inoltre, se Dio fosse solo amore, allora l'odio, il male da chi sarebbero interpretati? Sempre da quel povero diavolo di Satana che gioca il ruolo del cattivo nella perenne battaglia oltremondana tra dèi che si svolge, ma tu guarda un po', sempre nel campo-mondo? L'amore è una cosa terrestre; e anche la fede. Ma solo il primo è tangibile; la seconda no.
Lo so, sono ingeneroso. In un'intervista al volo è difficile meditare sulle cose da dire, uno parla così come gli viene. In fondo Finardi, come quasi tutti noi, vuole cose mondane mica discorsi.

Cosa ti aspetti da Sanremo: non vorrai vincere come Vecchioni l’anno scorso?
Non ci penso nemmeno a vincere. E non era nei miei programmi andare a Sanremo. È successo per caso. Dal Festival mi aspetto una cosa molto semplice. Forse, piccola. Ma non banale. Oggi mi sono fermato in un bar e la barista dopo avermi riconosciuto mi ha chiesto se mi ero ritirato. Sai, a furia di album di fado, concerti sacri e album blues, il grande pubblico ha perso i contatti con me. Ecco: vorrei che Sanremo dicesse al grande pubblico che Finardi è vivo, fa ancora musica e sta molto bene.

Ecco: essere riconosciuto, probabilmente la cosa più vera, da non credente, che poteva dire.

giovedì 19 gennaio 2012

Anche a me piace correre

Fuggire via.
Ma corro piano
giro in tondo, piano
a passo lento
picchio la suola al piano
d'erba e sterro.
Corro e non mi sento
corro e non mi pento
corro e respiro lento
nell'aria di gennaio
quella in cui l'uomo pensa
più facilmente alla partenza
al viaggio.
Corro, aspetto maggio
corro, senza coraggio
corro, da scarafaggio
che teme il ribaltamento -
le zampine che si muovono
impotenti in attesa
che una mano amica 
gli offra un angolo piatto
di piacere.
Corro, voglio godere
corro, voglio vedere
corro, voglio tre sere
di parole che portano alla terra
e che ti fanno avere la presunzione
massima di far la storia.
Corro, e la vittoria
non è il mio scopo.
Corro, non so dove, corro
e basta. Ve lo dico dopo
se c'è un traguardo.
Corro e non c'è ritardo
in questa corsa.
Corro: mia sola forza.

I parti della mente


«Finora gli uomini si sono sempre fatti idee false intorno a se stessi, intorno a ciò che essi sono o devono essere. In base alle loro idee di Dio, dell'uomo normale, ecc. essi hanno regolato i loro rapporti. I parti della loro testa sono diventati più forti di loro. Essi, i creatori, si sono inchinati di fronte alle loro creature. Liberiamoli dalle chimere, dalle idee, dai dogmi, dagli esseri prodotti dall'immaginazione, sotto il cui giogo essi languiscono. Ribelliamoci contro questa dominazione dei pensieri. Insegniamo loro a sostituire queste immaginazioni con pensieri che corrispondano all'essenza dell'uomo, dice uno [Feuerbach]; a comportarsi criticamente verso di esse, dice un altro [B. Bauer]; a togliersele dalla testa, dice un terzo [Max Stirner], e la realtà ora esistente andrà in pezzi».

Questo sopra è l'incipit della prefazione di Carlo Marx al libello del quale ho scannerizzato l'immagine per render merto (dantismo) a Bruno Munari che la ideò. Un incipit folgorante. Marx sta attaccando la giovane filosofia hegeliana. Ma dimentichiamo il contesto e pensiamo queste parole come fossero state scritte ora per noi. I parti della loro testa ecc. 
Mi viene in mente che sarebbe opportuno, ogni tanto, porre a scadenza naturale tutte le nostre creazioni ed idee, come avviene, per esempio, nei paesi democratici con i parlamenti. Ogni tot anni si rinnovano le legislature. Sappiamo bene come questo potere, per il cittadino, sia in realtà un potere del menga. Secondo me occorrerebbe rinnovare non solo la legislatura ma tutti i nostri parti, tutta la nostra costruzione mentale dei rapporti di potere che regolano le nostre vite. A partire dalla base (dalla famiglia cosiddetta naturale che, ogni tot anni, dovrebbe sedersi a tavola e ridiscutere: siamo ancora famiglia? Siamo padre e figlio, marito e moglie, fratello e sorella?), fino ad arrivare allo Stato. Già, lo Stato: cos'è questa struttura che ci portiamo sul groppone dando per scontato che essa sia eterna, e superiore per importanza a noi cittadini stessi che la compongono? Articolo uno: l'Italia è una repubblica ecc. La sovranità (il Potere) appartiene al popolo (ah sì?), che lo esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Le forme, come tutte le cose, non possono modificarsi nel tempo? E i limiti, vogliamo o non vogliamo ridefinirli di volta in volta? Non dico che ogni volta debbano, necessariamente, essere cambiati; ma intendo che ogni tot di anni andrebbero ridiscussi per vedere se ci vanno ancora bene. Marx direbbe: povero illuso (sono un giovane hegeliano ancora), qui ci vuole la Rivoluzione. Ma aspetta caro Carlo, fammi finire: ridiscutiamone rimescolando tutte le carte. Obiezione: il potere figuriamoci se è disposto a rimettersi in gioco. Già. Ma il punto dirimente - e mi si perdoni, sono ancora agli inizi - è questo: la rivoluzione potrà mai essere così saggia e intelligente tra fare piazza pulita delle classi sociali, della privatezza della proprietà senza che chi guida la rivoluzione (i proletari di oggi: trovare termine migliore che proletari non mi piace) diventa a sua volta potere che ripristina il vecchio giochino del privilegio magari condito anche di tortura? Mi spiego: il mio persistente timore è che i rivoluzionari vittoriosi, chiunque essi siano, diventeranno a loro volta esseri dominanti che spartiranno il potere secondo la vecchia logica, e anche peggio. Insomma: ho il sospetto che bisogna essere troppo intelligenti e troppo buoni, troppo saggi e generosi per diventare dei comunisti definitivi. Sono un giovane (mi si passi il termine giovane) hegeliano che si specchia sovente nelle proprie forme, nei propri limiti. 

Gente di mare


Certo che Giancarlo Bigazzi è morto e mi spiace immaginare che al suo funerale, se canteranno Gente di mare, tutti penseranno alla Concordia e a Schettino più che a lui.

Anch'io, come .mau, non sapevo ch'egli fosse stato il leader degli Squallor e me ne dolgo.

Telefonate teologiche

Cinque minuti fa. Squilla il telefono di casa. Dico a mia figlia maggiore di rispondere, ché di solito, a quest'ora del pomeriggio, cercano sempre lei o la sorella per i compiti. Prende il cordless e la vedo ascoltare perplessa senza fiatare. Cinque secondi e mi passa il telefono.

- Pronto?
- Sono Natalina di X [una località vicina a dove abito. No, non è una rompiballe dei call-center].
- Mi dica.
- Volevo sapere se posso metterle nella cassetta della posta un volantino dove si annuncia il Regno di Dio.
- Come? O se ero al telefono con Lui ieri sera e non m'ha detto niente, il Signore!?
- Ah sì? Ma sa nel nostro messaggio c'è un annuncio particolare.
- Ma senta, magari ritelefono da me a Dio in persona stasera, per sapere. Mi dica cosa vuole lei esattamente.
- Sa, sono malata e avrei bisogno di aiuto.
- E che chiama me? Dio non le ha detto che esiste il 118?
- Allora non le interessa avere il volantino ove si annuncia il Regno di Dio.
- Preferisco il Manifesto del Partito Comunista, signora.
- Mi scusi il disturbo.
- Prego. Anzi, no. Si figuri.