sabato 31 marzo 2012

La mia consistenza antropologica


« E a questo proposito La prego di osservare una volta come la lingua convenzionale, quella colloquiale, è ormai del tutto svuotata di sostanza e consistenza antropologica. Le resta forse ancora una qualche autorità? La lingua ha forse ancora un qualche carattere dialogico in senso metafisico? Mi sembra che essa sia puro scarto e chiacchiere consunte. Tutto parla a vuoto. Il compito del parlare e della parola si è spostato, è diventato lingua da furfanti. Slang, argot, truffatori ammiccano con parole, si può anche dire che la lingua è divenuta puramente politica, né riesce più a toccare una qualche profondità umana. La gioventù non può parlare con la vecchiaia, là l'istinto qui l'esperienza e, quando il corpo non preme più, ecco la morale. Il religioso non può parlare più con l'uomo di mondo, colui al quale il dono della fede non è stato dato pensa in maniera piatta e lineare. La madre non può parlare con la figlia, poiché la figlia le nasconde i suoi piaceri e il suo pudore. L'artista non può parlare con il politico, questi è l'attuale, l'altro è acronico. Tutto è soltanto diceria, consistente inarcarsi di smanie, e dissimulazione, e ciance da poltrona – nel profondo, inquieto, è l'Altro, che ci ha fatto, ma che noi non vediamo. Ci nutriamo di autoincontri in ore brevi, ma chi incontra se stesso? Solo pochi, e poi isolati, – Rönne incontra se stesso – »

Gottfried Benn, Cervelli, Adelphi, Milano 1986 (traduzione a cura di Maria Fancelli).


Il blogger può dire di essere, come il dottor Rönne, tra quei «pochi, e poi isolati», che, autoincontrandosi, incontrano se stessi?
Inutile indulgere in false modestie: per quel che mi riguarda: sì. Ma non è che in questo trovi una gran soddisfazione. Più la trovo sentendo che questo autoincontro quotidiano - che spesso è un autoscontro - mi fa incontrare altri che tentano, come me, di autoincontrare se stessi. 
La scrittura bloggheristica come tentativo, spesso fallimentare, di fare della parola qualcosa di diverso dalla lingua di servizio che usiamo per comunicare convenzioni e «chiacchiere consunte»; una scrittura come spazio per «toccare una qualche profondità umana», che smuova l'animo inquieto di chi sente che le parole servono anche (e soprattutto) a dare forma al nostro essere
Le parole che diventano corpo (corpo che diventa parola).
Le parole sono ambasciatori particolari che portano in giro per la rete pene e gioie, in breve:  passioni dettate da ancora non so bene cosa... forse da amore (e altre passioni).


I’ mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch’e’ ditta dentro vo significando
(Purg. XXIV)

5 commenti:

Jago ha detto...

Luca, scrittura " bloggheristica" da te non me lo aspettavo..

Jago ha detto...

Luca, scrittura " bloggheristica" da te non me lo aspettavo..

Luca Massaro ha detto...

Grato ti sarei, caro Jago, se tu mi spiegassi perché. Forse quell'«h» inopportuna? O è il termine in sé che proprio ti orripila? Eppure altre volte ho usato questo neologismo, non certo per vezzo, ma per praticità.
Buona domenica

melusina ha detto...

Tema affascinante. Blogger, tu dici, ma non solo. Anche scrittori, e fra i blogger ce ne sono di inconsapevoli o misconosciuti. Ma in generale noi, noi tutti, chiunque si sforzi quotidianamente di mettersi in relazione, orale o scritta, con il prossimo. In questo secondo caso, quello del prossimo virtuale, subiamo lo svantaggio di non poter affiancare alla parola una mimica facciale esplicativa (certo più convincente degli emoticon) e di doverci fidare dell'altrui comprensione salvo dover rinviare a più tardi un contraddittorio soddisfacente. La parola scritta però può essere più facilmente modificata con un canc, e facilmente divulgata urbi et orbi via internet, lasciando di noi tracce più resistenti, anche se a volte imbarazzanti.
In ogni caso la parola è l'unica interfaccia del pensiero che ci è concessa e, per quanto varia, eclettica, sofisticata impariamo a renderla, l'esperienza ci insegna quanto resti rudimentale in confronto alla complessità dei contenuti che intendevamo inserirvi originariamente.
Ben vediamo come risulti più efficace e inequivoco il linguaggio elementare dell'individuo incolto rispetto a quello della persona dotta, perché l'eccessiva ricchezza del lessico favorisce lo spaesamento tra molte più sfumature di significato e quindi di comprensione.
Ma in ogni caso ciò che per me è pane può essere benissimo che non sia lo stesso pane per te, perché la parola pane non identifica solo un manufatto di acqua, farina e lievito, bensì contiene un briciolo dell'esperienza e della memoria individuale di ciascuno. Il pane che si tocca, si annusa, si spezza nel caffelatte a Venezia, per esempio, è una entità del mio ricordo lontana galassie dal pane che in questo momento stai visualizzando tu, Luca che mi leggi dalla Toscana. Perché ogni singola parola, anche le più comuni, gode di vita propria, e averne il pieno controllo è utopia. Ma pur sapendo che le parole si limitano a posarsi sulla superficie, a suggerire più che a illuminare, perseveriamo e continueremo a perseverare in questo ineluttabile tentativo di spiegare/spiegarci che è la vita relazionale su questa terra.
(uhm, ci ho messo troppe parole, in questo commento. Come volevasi dimostrare)

Luca Massaro ha detto...

Le tue parole, Melusina, non sono mai troppe e mi aiutano a sentire quello che dico sotto forma di balbettio.