lunedì 30 aprile 2012

Se non ora quando un cazzo


Premesso che, per tutti gli anni in cui ha mortificato un'intera nazione, Berlusconi merita questo e ben altro contrappasso. Tuttavia, qui, con questa foto della consigliera regionale lombarda Nicole Minetti, non si colpisce lui, bensì lei - e la si mortifica in quanto donna, in quanto persona.
Hanno voglia poi a Repubblica a far firmare appelli contro la violenza sulle donne. Questa è violenza, bisogna farglielo notare. È da stronzi mettere in primo piano una donna che si passa la lingua sulle labbra con il titolo sopra riportato “Approfitterò delle tue labbra”. Sarebbe stato meglio metterci, in primo piano, una bella performance orale di una vera pornostar, magari della ex magica Luce de' tempi migliori. Sarebbe stato molto più corretto e meno offensivo, giacché sono queste procedure allusive che corrodono alle fondamenta il rispetto verso la donna, verso le donne.
Beninteso: a me la Minetti sta antipatica a prescindere; ma perché fanno di tutto a Repubblica per farmela rivalutare? Io più guardo questa foto e più mi viene da chiederle scusa e mi vergogno al posto di coloro che la dileggiano e umiliano così.

P.S.
Non sono diventato buono è che mi disegnano così.

Ponte


Sto facendo ponte. Costruisco un ponte tra me e una sponda non troppo lontana, potrei andarci anche a piedi, guadare il guado, ma sono pigro, preferisco un ponte. Un ponte tra me e quella cosa che qualcuno, poi, a bocce ferme, osa chiamare la felicità. Solo dopo pronunciarla, a ponte fatto. Un ponte che mi colleghi a uno stato in cui la vita ritrova significato pieno e mi dico ecco, questo è il momento in cui devo essere me stesso e non un altro, non devo permettere che un doppio viva al posto mio, rivendico il ruolo, la parte, anche se non è una recita questa, no. Allora via, il ponte è fatto, attraverso e posso guardare anche giù, sotto al ponte, tanto ho messo un parapetto e se mi tremano le gambe non importa: non potrò cadere in altro luogo che tra le tue braccia.

domenica 29 aprile 2012

Il blitz è un bluff

*
È ragionevole ritenere che questi blitz annunciati siano solo un bluff, giacché è impossibile che la Guardia di Finanza e l'Agenzie delle Entrate comunichino così palesemente le loro intenzioni ai presunti “evasori”. Se così fosse, sarebbe come vedere un giorno la Dia annunciare a mezzo stampa un blitz contro la criminalità organizzata. 
E chi evade queste cose le sa, mica è stupido. 
Dunque, cosa si nasconde in realtà dietro questi annunci reboanti? Una consapevole impotenza e la speranza di raccogliere briciole per fare credere al popolo che esse sono pane.
Il pane è altrove, molto spesso all'estero, nascosto in sicuri, affidabili caveaux.

«Dobbiamo fare qualcosa». Facciamola


La violenza e la sopraffazione sulle donne non conoscono tregua: è una tragica, terribile costante.
Fermare il “massacro”. Ma come? Il movimento Se non ora quando lancia un nuovo, accorato appello affinché la politica e i media s'impegnino con maggiore forza su questo fronte. 
Centinaia e centinaia di adesioni. Perché a volte basta utilizzare le parole giuste, obbligare all'attenzione, costringere al pensiero, per spingere a dire basta. Basta al "femminicidio", parola dura che ci ricorda che dall'inizio dell'anno 54 donne sono state massacrate in Italia da mariti, padri, amanti, fratelli, sconosciuti, omicidi seriali, uno più efferato dell'altro, l'ultima delle vittime si chiamava Vanessa e aveva, soltanto, 20 anni. Per Vanessa appunto, e per tutte le altre, "Se non ora quando", la rete delle donne, ha lanciato venerdì un appello dal titolo "Mai più complici", perché la tragedia del femminicidio scuota le coscienze, impegni la politica, imponga ai media di non relegare in poche righe "l'ennesimo" assassinio di una donna. 
Tutto giusto, vero, bello, dov'è che si firma, si scende in piazza, si manifesta, si grida la rabbia...
Ma serve a qualcosa? Basta davvero conquistare l'attenzione della politica e dei media per fermare il massacro? Un uomo che è ossessionato da una donna, che non la considera come una persona libera e indipendente, ma la considera come oggetto, feticcio, cosa da possedere e disporre - pensiamo davvero che quest'uomo possa essere sensibilizzato da queste legittime e benvenute manifestazioni e appelli?
E le adesioni, in poche ore, sono diventate moltissime. Da Susanna Camusso a Livia Turco, da Renata Polverini ad Anna Finocchiaro, dalla scrittrice Rosetta Loy a Roberto Saviano, che scrive su Twitter: "È una mattanza: 54 donne uccise dall'inizio dell'anno per mano di mariti, fidanzati, ex. È ora di chiamare questa barbarie femminicidio". E il segretario del Pd Bersani: "Si uccidono le donne, le uccidono i maschi. È ora di dirlo, di vergognarcene. Dobbiamo fare qualcosa".
Lo vedete voi un fidanzato in auto con la sua ragazza che gli dice che lo vuol lasciare, o un marito a casa che sente la moglie al telefono con un amico, o un padre “religioso” che vede la giovane figlia uscire per divertirsi - li vedete voi tutti questi uomini pensare alle parole di monito di Saviano, o di Bersani, o di chi diamine volete voi, mentre alzano mani, o prendono armi contro le donne di cui sono prossimi?
«Dobbiamo fare qualcosa», dice Bersani, e senti tutta l'impotenza della politica, e non solo, anche la nostra, a noi che ci sembra impossibile che si possano compiere simili violenze. 
È un problema culturale, è la nostra civiltà maschilista, è un'educazione inadeguata... e via sciorinando cause che sono scatole vuote, giacché se le apri scopri che tutti e nessuno sono responsabili. E qui, invece, i responsabili ci sono, e ti puoi, ti devi sentire responsabile politicamente, mediaticamente soltanto se c'erano chiare avvisaglie di sopraffazione e violenza, se c'erano denunce alle autorità competenti per esempio. 
Ecco, si possono, forse, incoraggiare le donne che si sentono minacciate dalla violenza degli uomini a denunciarli, accogliendo le loro paure e credendole fino in fondo, magari garantendo un efficace protezione “psicologica” che le faccia sentire, almeno in parte, meno sole. Innanzitutto: ogni caserma di polizia, carabinieri, vigili urbani d'Italia dovrebbe avere uno “sportello” con personale preparato ad affrontare simili casi, giacché il solo fatto che una donna trovi il coraggio di uscire allo scoperto per denunciare chi la perseguita, sarebbe una grande conquista in un paese civile. Certo, è impossibile immaginare la “scorta” per tutte. Ma non credo sia questo il punto.
Il punto è uscire dal silenzio, uscire allo scoperto, sentirsi libere almeno di ribellarsi, di dire no a chi vuole impedirti di esistere.

A parte.
È altro tipo di violenza, ma sempre di violenza e sopraffazione si tratta: perché Bersani non propone con forza a Monti che questi si batta in sede europea per un boicottaggio totale dell'Ucraina, a cominciare dai prossimi europei di calcio, se il governo di tale nazione non libera subito Julija Timoshenko?

sabato 28 aprile 2012

Politica estera

Chi parla ha da dire
le cose che dice e forse no
o forse altre. Ma è un fatto che chi tace
lascia che tutto gli succeda e quel ch'è peggio
lascia che quello che hanno fatto a lui lo facciano
a qualcun altro.

Giovanni Raboni, Le case della Vetra (1955-1959), in Tutte le poesie, Garzanti, Milano 2000

Piccolo componimento poetico che mi serve per dire, per confermare che io scrivo affinché non mi sia scritta addosso una storia che non mi appartiene, affinché qualcun (altro) non dica che io non l'avevo detto che io ero così e così, e volevo questo e quello, e mi arrabbiavo se certe storture della vita prendevano piega nella mia. Poi desideravo, ma vabbè, questo è un altro discorso, mica sempre si devono manifestarli i desideri, altrimenti si diventa stucchevoli, ci vuole una certa discrezione, un po' di tatto. Io per questo sto spesso zitto, non tanto, il giusto, giusto il tempo necessario per pensare prima di dire qualcosa, non come ora che scrivo senza pensare esattamente a cosa. L'importante è, come sostiene Raboni - il quale, ricordo, è l'unico poeta italiano dei grandi del Novecento a cui abbia stretto fisicamente la mano, cordiale, stazione di Firenze, la Valduga a fare i biglietti e io con la mia piccola plaquette in valigia che portavo a una ragazza improbabile - non lasciare che tutto mi succeda e non lasciare che quello che, eventualmente, mi lascio succedere, ovvero subire, non venga fatto ad altri, perché il silenzio è una brutta bestia e meno male esistono finestre. Io uso questa, volentieri, a pianterreno, sempre disponibile, qui.
Questa è la mia politica, insomma. Estera e non solo.

venerdì 27 aprile 2012

Odor ocra di Siena


In Piazza del Campo, d'ora innanzi, la merda di cavallo avrà un altro odore.

Un Pd qualunque

C'è qualcosa che Bersani e D'Alema ancora non hanno capito di Beppe Grillo: che su cento voti che prenderà alle prossime amministrative, novanta li sottrarrà al Pd.
Bersani e D'Alema non capiscono che Beppe Grillo è l'unico che riesca a iniettare nei cittadini sfiduciati verso la politica, la voglia di farla, d'impegnarsi, di partecipare alle riunioni, di discutere per tentare di porre rimedio a tutte quelle storture che la cattiva politica (intesa in primo luogo come cattiva amministrazione) ha prodotto.
Come può oggi un giovane dai venti ai trenta, che non sia figlio di un Colaninno, iscriversi al Pd o alla fondazione Italiani-Europei e provare a far politica? Ma come pensa D'Alema con la sua fondazione del cazzo di riuscire davvero ad avere presa nella società?
Beppe Grillo sarà un demagogo, ma non è un uomo qualunque. Dietro la massa di cazzate, a volte anche violente, che predica, c'è un'altrettanta massa di cose giuste, ragionevoli, da prendere attentamente in considerazione. E invece la politica alta si richiude nei massimi sistemi, nella protezione costituzionale dei partiti, come se noi cittadini ancora credessimo nell'illusione che essi agiscono veramente nell'interesse esclusivo della nazione.
Beppe Grillo ha successo perché, pur ritagliandola con l'accetta, delinea una possibile idea nuova di società e di cittadinanza. Il Pd invece no. Il Pd sta lì dentro la ricerca di una correttezza istituzionale che non serve a una sega nulla se non a erodere consenso e voglia di partecipazione. Il Pd è supponenza che la politica possa essere fatta soltanto da chi finora ha fatto politica. L'unica sua speranza è che tutta la dirigenza attuale si dimetta in massa per il fallimento completo di fronte alla situazione politica attuale, giacché salva Italia o no, se il Pd non ha chiesto con forza le elezioni e non le chiede subito è perché non si sente pronto, checché Bersani ne dica. E mi rincresce, si badi bene, dire queste parole. Bersani a me non mi disgarba; e perché, in fondo, la mia parte politica è quella. E si critica e ci si incazza soltanto per le cose a cui si sente di appartenere.

A parte.
Non c'entra molto, ma dopo queste righe ho ascoltato questa canzone e mi va di metterla qui.

giovedì 26 aprile 2012

Un Pangolino preciso.


Ubuntu 12.04 LTS
Beh, dovevo farlo. Oggi è uscito la nuova versione LTS (long-term support) di Ubuntu. Io ho un debito con Ubuntu. Io uso Ubuntu. Io voglio bene a Ubuntu. Lunga vita a Ubuntu. Andate, scaricate e provate. È così bello, facile, divertente. E gratuito.
Qui c'è la versione completamente in italiano. 

Stasera non posso scrivere

«Supponiamo invece che io riesca a rimaneggiare il tutto, a impastarlo di nuovo, rimasticarlo, inghiottirlo, rigurgitarlo... e ci aggiunga le mie spezie e lo innaffi di me stesso a tal punto che dell'autobiografia resti solo polvere – la polvere, naturalmente, con cui si fanno i cieli più arancioni».
Stasera non posso scrivere. È chiaro, dovrei fermarmi per qui per non cadere in contraddizione. Ma non è questo il punto. Stasera non dovrei scrivere perché non posso scrivere nemmeno allusivamente quello che vorrei dire. Stasera dovrei essere interamente cristallino, buttare tutto fuori come fosse una confessione e non aver paura poi di ritrattare niente.
Stasera dovrei scrivere in questo modo, ma se lo facessi verrebbe meno la ragione mia di scrivere la storia quotidiana di quel tal Lucas che se ne va in giro per il mondo come piuma, per non appesantirlo con presunte verità che non possiede.
Stasera vorrei che avesse la bocca il cuore: similitudine banale, devo ammettere, ma sto scrivendo con una certa fame di un alimento che non c'è bisogno di specificare.
Se stasera scrivessi ciò che veramente sento che dovrei scrivere, farei diventare Lucas qualcosa che esce dallo specchio, per affacciarsi al cielo della notte e fissare la Luna e Giove lucenti, fino a sentire la brezza inumidirgli il viso. Ho detto brezza, non lacrime.
Stasera allora no, non scrivo, lascio scrivere qualcuno che, negli anni Trenta del Novecento, scrisse pagine che si sono tatuate nella mente di chi le ricopia nell'illusione che, facendolo, possa riuscire a ripeterle a chi gli cammina accanto.
«Pagato il conto, restavano undici pfenning – contando anche la monetina annerita che qualche giorno fa Zina aveva raccolto da un marciapiede come portafortuna. Per strada Fëdor Konstantinovič sentì un rapido brivido lungo la spina dorsale – e di nuovo quel senso di imbarazzo, ma già in una diversa, languida forma. Fino all'Agammennonstrasse c'erano una ventina di minuti a passo lento; aveva dolorose fitte alla bocca dello stomaco per l'aria, per il buio, per l'odore di miele dei tigli in fiore. Il profumo svaniva, sostituito da una nera frescura, nel tratto da un albero all'altro, ma sotto la cupola successiva, già in attesa, si gonfiava una nuova nuvola soffocante, inebriante, e dilatando le narici Zina diceva: “Ah, che bello, senti!” – e ancora una volta l'oscurità perdeva sapore, e ancora una volta sapeva di miele. Davvero oggi, davvero adesso? Il peso e la minaccia della felicità. Quando cammino così con te, piano piano, e ti tengo per la spalla, tutto comincia a ondeggiare lievemente, e sento un ronzio nella testa, e le gambe si fanno molli, e la scarpa sinistra già scivola via dal tallone, e ci trasciniamo, ci annebbiamo, ci struggiamo, – e siamo a un passo dallo scioglierci completamente, senza lasciare tracce. E un giorno ricorderemo tutto questo: i tigli, l'ombra sul muro, le unghie lunghe di un barboncino che ticchettano sul selciato della notte. E la stella, la stella».
Io avevo detto un satellite e un pianeta, ma non importa. Anzi: sono i piccoli dettagli che fanno la differenza e rendono ogni vissuto irripetibile.

N.B.
I brani di Vladimir Nabokov sono tratti da Il dono, Adelphi, Milano 1991, traduzione di Serena Vitale.

mercoledì 25 aprile 2012

Spezzeremo le reni all'Europa


L'Avvenire tira fuori la famosa asse non credo assolutamente riferendosi a tristi precedenti storici, bensì a questo tipo di asse, molto più pertinente.

Libération


– Ciao cara.
– Ciao caro.
– Non ti amo più.
– Non ti amo più.
– L'ho detto prima io.
– L'abbiamo detto insieme.
– Hai ragione.
– Lo sapevo.
– Però ti voglio bene.
– Cos'è il bene senza amore?
– Un affetto placido.
– Beniamino? È morto. Michele? Fa dei film del cazzo.
– Ti voglio bene per questo.
– Qualcuno mi odia per questo.
– Ma dicevamo dell'amore.
– Zitto un po' con questo amore.
– Era per restare in tema.
– Io cerco di deviare.
– Allora starò zitto.
– Ho detto zitto sull'amore, per il resto puoi parlare.
– Di cosa parlo?
– Di te.
– Mi pare di aver detto tutto.
– Mi pare che non hai detto tutto.
– Cosa dovrei dire ancora?
– Quello che non osi dirmi.
– Eppure ho osato dirtelo.
– Abbiamo osato dircelo.
– Appunto.
– Ma ce lo siamo detti senza dirci il perché ce lo siamo detti.
– Forse per non farsi troppo male.
– Ma forse è necessario farsi male.
– Perché sarebbe necessario?
– Per conoscere chi siamo.
– E a cosa serve conoscere chi siamo?
– Per poter ridire un giorno ti amo senza guardarsi alle spalle.
– È tardi cara, sono stanco, ho avuto una giornata.
– È tardi caro, non sono stanca ed è stata una bella giornata.

Per questo canto una canzone triste

L'amico Disagiato scrive:
E quella sera, infatti, me lo disse. Solo che dentro di me, davanti a quella confidenza, non pensai che quello che lui aveva fatto fosse una cosa sbagliata. “Secondo me non hai fatto niente di male. Andare con una prostituta non è una cosa sbagliata ma una cosa triste”, gli dissi. E l’amico si offese tanto, come se la tristezza fosse una dimensione peggiore dell’errore. Mi fermo qui, un po’ perché non voglio annoiarvi e un po’ perché quello che accadde dopo, tra me e lui, non c’entra con il mio discorso. 
E invece c'entra, sono io quell'amico del Disagiato - non lo sono, in realtà, ma provo a esserlo, dato che intorno al tema ci ho ragionato anche, recentemente, con un'amica, a partire, anche noi, dal post di Metilparaben. 

Provo allora a identificarmi con quell'amico anche se, rispetto a lui, non mi sarei sentito offeso, in quanto credo che il Disagiato abbia davvero ragione: andare a puttana (di qualsiasi tipo: donna, uomo, trans) è una cosa triste. Non pretendo che lo sia per tutti, no; e non penso che in questo giudizio condiviso sia nascosto alcunché di moralistico. Di esistenziale sì, invece, perché «la tristezza [è] una dimensione peggiore dell'errore». 

Infatti, in tutti i rapporti umani, non solo quelli legati al sesso, quando sono regolati non dal libero scambio di mente e corpo, ma dal potere dell'uno sull'altro, avviene che questo potere produca tristezza, indipendentemente dal fatto che esso sia mediato dal denaro o meno. Potrebbe anche mediato dall'autorità, per esempio, di qualsiasi tipo. Per carità, c'è anche chi gode di questo potere, di esercitarlo o di subirlo a seconda delle varie modalità. Ma se fosse stato questo il caso dell'amico del Disagiato, egli, appunto, non si sarebbe sentito offeso, non sarebbe andato da lui a dire: «Ho fatto una cazzata».

Spiace dirlo, ma andare a puttana (di qualsiasi tipo) è la cosa più berlusconiana che ci sia. Non tanto, banalmente, per le note vicende, ovvero per il fatto che Berlusconi abbia pagato o meno le sue burlesquine. Anzi, da un punto di vista esistenziale, Berlusconi farebbe miglior figura se risultasse comprovato che le pagava. Giacché sarebbe molto triste, per entrambe le parti, ritenere che esse avessero questi rapporti senza intercorsa pecunia.

Ognuno ha diritto di vivere il sesso come vuole, ci mancherebbe. Ma il sesso è una dimensione particolare dell'esistenza che, se relegata al mercato, svilisce il suo valore, la sua essenzialità. Non sostengo con questo che il sesso debba necessariamente essere vincolato all'amore. A volte può essere mera e gratificante fisiologia... ma il discorso si farebbe lungo. Lo interrompo, tanto non è un coito. 

martedì 24 aprile 2012

Lo spettacolo dell'indignazione

Questo spettacolo dell'indignazione non serve a nulla: serve a far continuare la messa in scena di coloro che la producono, l'indignazione, appunto. C'è mai stato un frangente storico nell'Italia repubblicana in cui non ci siano mai state occasioni di indignarsi e di dire: «Fa' tutto schifo, sono tutti uguali, tutti rubano alla stessa maniera»? Forse durante il fervore del primo dopoguerra e qualche eccezione qua e là sparsa nel corso della nostra storia. Ma poi, sempre e comunque situazioni di scandalo, ladrocinio, favoritismo, corruzione...
Indignarsi serve un po' ad allentare la tensione, a sfrenare un po' di nodi, a mettere dita negli occhi per non mettersele altrove.
Tutta la caterva di meritevole pubblicistica di denuncia, cosa ha prodotto in fin dei conti, suo malgrado, se non politica corrotta? Non sostengo, certamente, che essa debba rinunciare al suo lavoro di scoperchiare lo scoperchiabile. Voglio dire un'altra cosa, forse, questa.

Ci dovrebbe essere in tutti i politici un'onestà di fondo che (purtroppamente!) manca: ogni politico, in Italia soprattutto, è un piccolo/grande Cetto la Qualunque che non osa confessarsi che il suo fare politico è una pratica che fa innanzitutto per se stesso, prima che per gli altri.
Non è vero un cazzo che chi fa politica la faccia per vocazione altruistica, per mettersi al servizio dei cittadini: confessino, tutti, anche i migliori, che fanno politica per realizzare se stessi, e che immaginano, presuppongono presuntuosamente, che questa loro realizzazione, questa loro compiutezza possa, eventualmente, produrre qualcosa di buono anche per il pubblico.

Berlusconi ci è andato vicino, e se non si fosse nascosto dietro un capezzolo, e se avesse apertamente parlato come il personaggio di Antonio Albanese (in gran parte a lui ispirato), forse sarebbe l'unico ancora credibile sulla piazza.
Un piazza oscena, senza dubbio.


Gli ci voleva il ricordo

« È, oltre l'indifferente spettacolo della vita presente, ritrovare improvvisamente nel ricordo risuscitato del passato, il sentimento che lo animava, un incanto dell'immaginazione che ci lega definitivamente alla vita e ce la incorpora, come se il nostro passato, che il godimento ha lasciato fuggire, che il nostro pensiero non ha compreso, che la nostra memoria ci presenta così incerto, fosse per sempre riafferrato dalla contemplazione. Sono quelle le ore belle nella vita di un poeta, quando il caso pone sul suo cammino una sensazione che racchiude un passato e promette alla immaginazione sua di far conoscenza col passato che non aveva conosciuto, che non era caduto sotto il suo sguardo e che l'intelligenza, lo sforzo, il desiderio, nulla, avrebbe potuto fargli conoscere. Gli ci voleva il ricordo, non proprio il ricordo ma la trasmutazione del ricordo in una realtà direttamente percepita. »

Marcel Proust, Jean Santeuil, Einaudi, Torino 1976 (pag. 236, traduzione di Franco Fortini).

Questo brano, sottolineato anni fa quando lessi tal libro per un esame di letteratura francese in lingua italiana (misteri dell'università italiana), l'ho ripescato per caso e prosegue il mio imbarazzato tentativo di scrivere cose già scritte, mirabilmente, da Proust.
Ma con questa aggiunta: attraverso la narrazione¹, lo «spettacolo della vita presente» riacquista il suo pieno valore, giacché, raccontando - spolverando la patina grigia dell'indifferenza che rende i giorni tutti uguali e, apparentemente, inutili -, la memoria riporta alla luce vissuti, esperienze che vivendoli/e  non abbiamo conosciuto appieno. Infatti, quando parlo a te di me e tu di te a me, l'indifferenza lascia il posto alla partecipazione². Ed è quando ci si sente partecipi, non solo del proprio spettacolo ma altresì dello spettacolo altrui, che il palcoscenico della vita si illumina, le quinte si aprono, si entra in scena e non si recita a soggetto, ma secondo il copione scritto della propria vita, perché si diventa soltanto ciò che si è ².


Note.
¹ Bloggheristica, o altro.
² È il rapporto che lega narratore e lettore in una complicità partecipata. Baudelaire nel suo celebre poemetto Au lecteur, invoca la complicità del lettore, come suo simile e fratello. Gli dà anche dell'ipocrita, ok, ma ironicamente, se questi si ostinasse a non riconoscere la necessità del racconto e dell'ascolto per sconfiggere il Mostro della Noia, il quale «Il ferait volontiers de la terre un débris / Et dans un bâillement avalerait le monde» se io e te, amico lettore, rinunciassimo a raccontare la nostra storia.
³ A volte anche degli stronzi, autentici ma pur sempre.


La conchiglia si meraviglia

*

Mi hai insegnato che abbandonarsi è una scommessa
e la riuscita deriva dallo stupore
la conchiglia si meraviglia di se stessa
rivelando che all'interno non ha colore.

Toti Scialoja, Ada ride (1987-1989), in Poesie, Garzanti, Milano 2002

Ma la conchiglia mente: i colori che lei dice di non avere sono sufficienti a dipingere il mondo.

lunedì 23 aprile 2012

Narrate, o uomini, la vostra storia


Banalità: siamo tutti delle narrazioni. Abbiamo tutti una storia da raccontare, anche a non averla. Il solo incontro fortuito di ovulo e spermatozoo, col loro corredo genetico (23+23)*, presuppone a monte due storie (minimo) - e così via, se uno volesse a ritroso percorrere il tempo.
Siamo tutti narrazione perché siamo prodotti del passato che vivono un presente che (altra banalità) diventa subito passato, subito ricordo subìto di vita che passa, che fugge, intrattenibile. Ogni attimo di vita che si perde, purché non siano attimi di dolore e sofferenza, provoca struggimento, nostalgia.
È da questo frangente, doloroso e numinoso insieme, che scaturisce la narrazione. Coloro che avvertono questo struggimento del tempo che passa son soliti rifugiarsi, oralmente o per iscritto, nella narrazione, nel racconto, per cercare di catturare non il fuoco del vissuto, ma la cenere - e questo è già molto, compito a volte improbo e comunque parziale.

Quando due persone si incontrano, due persone che non si conoscevano, si capisce subito, dal primo sguardo, dal primo ascolto, dalla prima lettura (vedi alla voce: blog) se v'è in entrambi questa disponibilità e attenzione al racconto e all'ascolto. E allora si parte, ci si fida, si riporta alla luce il passato cercando il più possibile di essere sinceri, perché ogni ricordo è un vissuto che ritrova un suo spazio di vissutezza, in un presente che lo oggettiva dinanzi a qualcuno che se lo vede passare negli occhi della mente come una specie di film.

Narrate, o uomini, la vostra storia, ché nel raccontarla la rivivete doppiamente, soprattutto quando sentite che qualcuno vi ascolta, che qualcuno vi legge, qualcuno partecipa alla vostra vita, meglio: alla vostra storia e vi fa sentire meno soli.

Narrare per comunicare, per darsi in pasto forse, non saprei dire esattamente e lungi da me ogni pensiero di sacralità. O forse il sacro è proprio questo: il totalmente io che comunica con il totalmente altro, e riesce a ritrovarsi, a illuminarsi, a dare quiete e gioia - e la quiete e la gioia già valgono il racconto.


*Sia chiaro, io sono favorevole all'interruzione volontaria della gravidanza e non considero l'embrione un individuo. Qualcuno troverà contraddittorio questo, ma non importa.

Lettori delusi


Ho dovuto leggere l'articolo per capire che maratona non era in senso figurato.

domenica 22 aprile 2012

Genitorialità complesse

Pochi minuti fa, in diretta da Fazio, Claudio Magris ha dichiarato che i suoi genitori non gli hanno mai detto di non essere razzista e nemmeno di non mangiare pasta sulla tazza del cesso, ma che il loro esempio di vita, le loro frequentazioni e amicizie, le loro discussioni e conversazioni nella vita di tutti i giorni, gli hanno mostrato come fosse di per sé assurdo e mangiare spaghetti al gabinetto ed essere razzisti.
Domanda: ma chi cazzo sono i genitori di queste persone qui?

Tenere alta la vita


« Il problema del desiderio non è psicologico, come non lo è quello, non risolto, del desiderio di Socrate. C'è tutta una tematica che riguarda lo statuto del soggetto quando Socrate formula di non saper nulla se non ciò che concerne il desiderio. Il desiderio non è messo da Socrate in posizione di soggettività originaria, ma in posizione di oggetto. »

Jacques Lacan, 15 gennaio 1964, Il Seminario, Libro XI, Einaudi, Torino 2003 (traduzione di Adele Succetti).

Ultimamente – e debolmente – riesco a non essere inquieto solo quando ragiono, o meglio: quando cerco di ragionare, pensare razionalmente voglio dire, anche se poi arrivo a conclusioni non razionali; ovvero quando mi sforzo di farlo a partire da una frase o da un brano pescati un po' a caso tra le mie letture irregolari (e diagonali).
È il caso, stamani, di Lacan che viene a dirmi che «il problema del desiderio non è» un problema «psicologico», bensì qualcosa di oggettivo, che si dà e manifesta in quanto esso si trova là fuori di me, e se uno ci si imbatte, a seconda quali panni rivesta tale desiderio «in posizione di oggetto», la mente del soggetto, il suo statuto, comincia a vacillare perché sente che il suo essere è privo di quell'oggetto che è fuori di lui, là nel mondo, e cerca di carpirlo, o più semplicemente coglierlo, vorrei dire viverlo, parteciparlo; e, a seconda che tale desiderio sia o meno mediato da altri soggetti desideranti il medesimo, ovvero: se tale desiderio non soffre di un mimetismo malato, allora il soggetto vive il desiderio in maniera pacificata.
Roba complicata, vero?
Si tratta di questo: c'è un io, non necessariamente un Lucas, un io qualsiasi, che come molti io, quasi tutti, desidera – solo coloro che hanno raggiunto la pace dei sensi e della mente, tipo nirvana, possono tirarsi fuori –; e se desidera difficilmente desidera se stesso (chi lo fa, spesso, lo fa per darsi un tono, per dire agli altri: “guardate come sono felice”: felice un cazzo), ma desidera, appunto, un qualcosa di oggettivo che gli offra l'illusione di colmare le sue lacune, la sua inquietudine; desidera qualcosa* che gli offra la sensazione che la vita valga sempre la pena di essere vissuta.
Ed è questo il desiderio continuo che tiene alta la vita, che non ti fa sentire a terra, sgonfio, spento, ma ti tiene come sospeso, in una sorta di equilibrio perfetto tra felicità e finitudine. E ti senti bene, e quali che siano i colori del cielo ci tuffi dentro il viso per bagnarti di luce.


*Va da sé che questo qualcosa possa essere qualcuno.

sabato 21 aprile 2012

Malditestamento



Saltuariamente, càpita di svegliarmi con il malditesta.
Per alcune ore sento che non avrò scampo. Restare a letto non serve ad altro che ad acuirlo, giacché riaddormentarsi, con il malditesta, è impensabile.
Allora mi alzo cercando di contenerlo, compiendo gesti minimi, lievi, evitando rumori, odori forti, luci abbaglianti. La fame è minima, se non assente, eppure qualcosa devo mangiare per prendere un antidolorifico. Le mani, ancora calde, sono l'unico vero conforto sensoriale, giacché vanno a massaggiare la fronte, a riscaldarla, a sostenerla.

Quando dovrò morire, sempre che debba morire, spero per quel giorno di avere un malditesta, almeno penserò che morire serve a qualcosa. Adesso, atteggiandomi come una statua di Rodin, ma con il palmo della mano sulla fronte e non il dorso della stessa sul mento, con la biro che svolazza sul blocco degli appunti (prima, ora sto battendo sulla tastiera, sto meglio), mi limito a pensare/scrivere: cosa sarò quando non sarò più? Cosa resterà di me quando sarò spirato? Cosa sarà servito essere per quel poco che sarò arrivato a essere? E quando dico io dico tutti, giacché in questa considerazione il mio nome è Legione. Chiamo in causa il tribunale dell'essere qualcosa piuttosto che niente, dell'essente, ma non mi fate mettere i pantaloni alla zuava che ho gli stinchi secchi e non ho l'animo nazista. La composizione del mio dna ha stabilito chi fossi molto più di quanto io possa averlo deciso. Sono molto determinato in questo, io, che determinato non sono. Tra qualche anno, ora no però, per scaramanzia – tra qualche anno mi metterò di buzzo buono a decidere cosa vorrò dopo che sarò morto, una specie testamento, non per lasciare, dato che per lasciare bisogna avere, e io non ho, io sono e stop, ho letto troppo Erich Fromm da giovane, Avere o essere, ricordate?, e mi sono sempre limitato al secondo dei verbi senza riuscirci troppo anche in questo caso – ma dicevo, anzi scrivevo che tra qualche anno mi piacerà scrivere cosa vorrò si faccia del mio corpo morto, una specie di lenzuolo immagino, non un vestito da sposo del cazzo o da comunione, un cuscino per il collo e non una bara di quelle che si vedono sovente, ma tavole di legno Ikea, già, all'Ikea dovrebbero vendere bare prefabbricate che ti monti da solo, con quello che costano sai che risparmio, un duro colpo alle onoranze funebri. E le mani sulle palle sì, per favore, se ancora ci saranno, una sciarpina per il maldigola, e una sigaretta anche se non fumo, per vedere che qualcuno nell'aldilà avesse d'accendere (moccoli, senz'altro). E poi via in terra o nel fuoco, non dentro un muro di cemento, ma tra terra e fuoco devo ancora decidere, l'avevo detto, non sono pronto: di tutte queste cose, ripeto, scriverò meglio quando tra qualche anno mi metterò a scrivere un testamento. Testa. Mente. Tutta colpa del malditesta. È sparito, grazie alla Bayer.

venerdì 20 aprile 2012

Berlusconi fa sul serio


« Noi tedeschi diamo enorme importanza alla nostra serietà; siamo convinti che il suo contrario sia la leggerezza, e che la leggerezza debba venire condannata. Altri popoli la pensano diversamente.
Secondo noi, l'umorismo è un sistema cattivo – e comodo – per accostarsi alle cose e penetrarle. Partiamo dalla premessa che tutte le cose debbano dare costantemente motivo di preoccupazione, che la nostra concezione delle medesime sia la giusta e speriamo di venir presi più sul serio se siamo seri. »

Bertolt Brecht, Scritti teatrali, (I), Teoria e tecnica dello spettacolo, 1918-1942, Einaudi, Torino 1962, pag. 25

Certo che se Berlusconi non avesse governato pensando sempre, smaccatamente, a se stesso e ai suoi interessi, facendo promuovere e approvare dal Parlamento leggi su misura.
Certo che se Berlusconi, ogni volta che fosse stato indagato, non avesse frapposto al giudizio della magistratura, mille e tre impedimenti.
Certo che se Berlusconi, nel 2008, quando era strasicuro di vincere e vinse, avesse scelto un po' meglio i suoi candidati; e se, altresì, nel corso degli anni avesse selezionato una migliore classe dirigente e non una massa di Capezzoni e Gasparri compiacenti.
Certo che se Berlusconi, invece che di Tarantini e Lele Mora, avesse richiesto i servigi di una più affidabile agenzia del settore escort, non si sarebbe ritrovato alle figure di merda che ora è costretto, giustamente, a subire.
Certo che se Berlusconi non fosse stato se stesso, ma un altro, non sarebbe stato Berlusconi e non saremmo ancora qui a parlarne, come di quel fenomeno che cammina su un filo sospeso tra il tragico e il ridicolo, convinto di essere una persona seria.

Essere presi sul serio è terribile, è assunzione continua di responsabilità, è “coerenza”, è cercare fino in fondo di mantenere le promesse fatte, soprattutto quelle firmate sopra i tavoli di ciliegio. Essere seri costa una fatica enorme, la serietà non è qualcosa che si compra e non è sufficiente pagare qualcuno che cerchi di convincere gli altri che tu sei serio.

La miglior cosa sarebbe stato ammettere fin da subito di essere un buffone, l'unica cosa seria che avrebbe, che può ancora fare. È dura, lo so, per uno che si ostina ancora a prendersi sul serio.

Per vivere la vita (non) mi basta la mia vita insieme a lui (o a lei)

In chiusa di un post molto condivisibile sul probabile mini-esodo di alcuni parlamentari pidiellini (26) che vorrebbero raggiungere la terra promessa dell'Udc, Vittorio Zucconi scrive:
Una prece per Giorgio Gaber che ebbe la Colli come moglie, anche i grandi possono sbagliare.
dato che, tra quel gruppo di esodanti v'è, appunto, anche Ombretta Colli, già presidente della provincia di Milano e attuale senatrice del Popolo della Libertà.

Non mi ricordo se l'ho scritto precedentemente, sicuramente mi è già capitato di dirlo, ma trovo che tirare in ballo un marito per le idee della moglie e viceversa, sia una grande cazzata. E spiace che un commentatore attento come Zucconi scivoli su queste banalità.

Al di là del fatto che è indelicato frugare nei matrimoni o nelle unioni altrui senza cadere nel più trito pettegolezzo, serve a qualcosa constatare, dalla stessa biografia di Ombretta Colli, che ella, negli anni Sessanta del Novecento, aveva idee politiche toto cœlo diverse da quelle che attualmente professa? E infine, in cosa avrebbe sbagliato Gaber se sua moglie fu una delle prime a credere nell'illusione politica berlusconiana (e una delle più longeve a crederci, tra l'altro)? Ché Gaber doveva chiedere necessariamente la separazione o il divorzio per questo? Io credo di no. Io credo che coloro che ritengono Gaber responsabile delle idee della moglie*, abbiano del matrimonio (dell'unione) una visione forzatamente religiosa, come di coloro che pensano che accompagnarsi a qualcuno nella vita significhi rinunciare alla propria individualità, alle proprie opinioni, ai propri desideri in favore dell'individualità, delle opinioni e dei desideri dell'altro. Ché Zucconi (o la moglie o la compagna) ha rinunciato a queste cose?



*e per esteso: coloro che ritengono il marito (la moglie o il compagno o la compagna) responsabile delle idee della moglie (o del marito o della compagna o del compagno).

giovedì 19 aprile 2012

Prego, cantate pure le vostre filastrocche

«Un tempo non esistevano menti, significati, errori, funzioni, ragioni e vita. Ora tutte queste cose magnifiche esistono. Deve essere possibile raccontare la storia di come hanno tutte finito per esistere e la storia deve portare, per mezzo di aggiunte sottili, da elementi manifestamente privi delle proprietà meravigliose a elementi che ne sono manifestamente dotati. Dovranno esistere istmi di elementi intermedi ambigui, controversi o semplicemente inclassificabili. Tutte queste magnifiche proprietà devono essere comparse progressivamente, per gradi che sono a stento distinguibili persino in retrospettiva».
Daniel C. Dennett, L'idea pericolosa di Darwin, Bollati Boringhieri, 1997 (pag. 251 traduzione di Simonetta Frediani).

Fanno veramente tristezza i redattori culturali di Avvenire quando si occupano di temi di vaga natura bioetica. Fanno tristezza perché li vedi a darsi di gomito e dirsi: «Vai tranquillo, noi umani siamo le creature predilette di Dio, mica i babbuini; hai voglia ai babbuini a insegnare a leggere, non ci riusciranno mai a capire quello che dicono. Dio ci assomiglia, parla più lingue del papa e sa tutte le parole del mondo. Non penserai mica che Dio comunichi con le scimmie, vero?». Ma guarda un po' che culo, eh? C'è caso che, dopo tale notizia, siano andati al bar a bere un cappuccino tiepido gongolanti della differenza che ci salva: nessuno potrà mai parlare con Dio, tranne noi, vuoi mettere? Tutto il “creato” è stato fatto a misura d'uomo, l'unico essere vivente degno di comunicare con Dio.
Mi vengono in mente queste cose dopo la lettura di un articolo a firma di Giuseppe O. Longo, dal titolo «Una scimmia non fa lettura» ove viene data notizia di un esperimento condotto da psicologi cognitivi francesi sulle capacità di lettura di alcuni babbuini.
Siccome i nostri “cugini” hanno imparato a mente in poco tempo un bel numero di parole, la notizia è rimbalzata nelle agenzie di stampa, come sempre accade di fronte a tali temi. Le scimmie hanno imparato a dire parole, sì, ma non a capirne il significato –  e da qui deriva il sollievo del redattore culturale di Avvenire. Scrive Longo:
«In effetti i babbuini non capiscono ciò che “leggono”: dal riconoscimento dei simboli alla semantica, cioè alla comprensione del significato, il passo è enorme. Già nel 1980 il filosofo americano John Searle aveva proposto un esperimento concettuale, detto “della stanza cinese”, per sostenere la tesi che la capacità sintattica, cioè la capacità di riconoscere e manipolare simboli, non è sufficiente per la loro comprensione (semantica).»
Non sono uno studioso della materia, quindi non saprei dire se tale esperimento concettuale sia stato confutato o meno. Mi ricordo però – in uno dei libri che hanno cambiato radicalmente la mia forma-mentis (sempre che ne abbia una, claro) – che Dennett critica sovente le idee di Searle a proposito della concezione della mente. In estrema sintesi, come scrive lo stesso Dennett: «Searle sostiene fermamente che la mente umana è dotata di intenzionalità “originaria”, una proprietà che in linea di principio non si può raggiungere con alcun processo di ricerca e sviluppo che costruisca algoritmi sempre migliori. È un'espressione di fede, pura e semplice, le fede nei ganci appesi al cielo: la mente è una fonte originaria e inesplicabile di progetto, non il risultato di un progetto» (D.C. Dennett, ibidem, pag. 507).
È chiaro quindi perché la redazione culturale di Avvenire saluti con gioia il fallimento dei tentativi scientifici di far parlare le scimmie. Non potendo confutare il darwinismo e la deriva dei continenti, si aggrappano a questi piccoli respingimenti del nemico, che assomigliano tanto a quelli delle povere tribù indiane che respinsero i primi conquistadores.
«Quindi andiamoci piano: i babbuini a qualche livello sanno riconoscere i simboli, cioè le combinazioni di lettere, ma di qui a dire che sanno “leggere” ne corre.»
Le scimmie non riusciranno mai a capire ciò che leggono, ma non importa: tra pochi anni, invece delle scimmie, ci saranno degli automi a leggere e a capire quel che leggono, e non solo. Quando ci sarà un'intelligenza artificiale che leggerà al posto nostro e capirà quello che legge*, che si metterà persino a recitare i Salmi all'alba e le Lamentazioni alla sera, come potranno parare il colpo i creazionisti? Diranno che le macchine sono creature divine di seconda generazione, in quanto create dai figli di Dio? Potrei avere un cacciavite?

*Credo che siamo a buon punto, vero?

P.S.
Il titolo del post è un po' criptico. Occorre vedere il video segnalato a partire da 4'30'' fino a 4'50''.

mercoledì 18 aprile 2012

Casinò mondiale

John Paulson, manager del colossale “hedge fund” (fondi speculativi che in teoria dovrebbero fare soldi in ogni condizione di mercato, ribasso o rialzo) e 39esimo nella classifica delle persone più ricche del mondo secondo Forbes, ha scommesso 26 miliardi di dollari contro i Bund, i buoni del Tesoro tedeschi, puntando sulla loro caduta.

Bene, ammettiamo che questo signore vinca la scommessa - vale a dire che i Bund tedeschi perdano valore e che la Germania piombi in una crisi finanziaria da paura - e riflettiamo: quanta logica economica c'è in tutto questo? Economia = amministrazione della casa, dove per casa - a questi livelli - va inteso il pianeta. Non voglio fare il minimo accenno alla moralità della questione: mister Paulson fa il suo mestiere, ha i soldi*, ha sangue freddo, entra dentro il casinò delle varie borse mondiali e fa la sua puntata. La stessa cosa può accadere nei casinò classici, dove, addirittura, una volta tanto, qualcuno vince contro il banco. Ecco: una volta tanto, non sempre. Tra l'altro, il banco dei veri casinò sa quando è il momento di fermarsi per non far vincere troppo il fortunato ed abile giocatore. 
Nel caso delle piazze finanziarie (i cosiddetti casinò globali), invece no, non sanno quando è il momento di chiamare il buttafuori e dire: «Ehi mister Paulson hai finito di giocare, perché i casi sono due: o bari o hai troppo culo, quindi aria, goditi la miniera di denaro che finora hai vinto, ma ora basta». 
È intollerabile che per far salire in graduatoria il signor Paulson dal trentanovesimo al - supponiamo - ventesimo posto, debba acuirsi la crisi generale del sistema: disoccupazione, recessione, aumento dei suicidi, eccetera. Se la politica non si mette in testa che questi giochetti sono veri e propri crimini contro l'umanità (meno cruenti delle repressioni sanguinose ok, ma con effetti sulla popolazione altresì devastanti), non ci sarà alcuna speranza di salvezza.

*Anche se il denaro che smuove e controlla non è tutto suo: egli gestisce fondi speculativi che appartengono a più titolari; egli si limita a farli fruttare, quasi sempre bene. 

Poveri graduati infeudati

«Oggi i padroni non possono più, come una volta, ordinare e prelevare a loro insindacabile gradimento: il tribunale dei bilanci, il fisco, le banche, la concorrenza, l'organismo e l'attività dell'azienda richiedono motivi tempi condizioni per presentarsi e spalancare la cassa della medesima, anche se propria, personale azienda o industria. Allora i padroni hanno aggirato questi impedimenti con la creazione e l'istituzione di vari ordini di potere sopra gli organi del medesimo corpo aziendale: amministratori delegati dirigenti consulenti assistenti esperti quadri funzionari addetti capi, via via graduati infeudati remunerati complicizzati in teorie di sostegno, in corone pendagli lustri che comunque ripetono riflettono spandono la gloria e l'interesse del padrone. Non è più lui ad assumere denaro liberamente, nell'unica misura della sua discrezione, quanto l'anima ossequiosa e votata di tanti vassalli che lo fanno in su a vece. I padroni più bravi e più colti, autentici capitani alla Medici o alla Krupp, arrivano addirittura a dotarsi, attraverso questo sistema di investiture, di veri e propri musei, in ogni campo del sapere e della cultura. Sono arrivati perfino ad avere qualche poeta e scrittore, anche di successo, come cantore e cronista e storico, director della loro immagine personale e aziendale, per una cura adeguata delle verità e dei tratti più significativi ed esclusivi della figura, per una codificazione degli stessi nei segni di valori universali ovunque presenti attesi riveriti, proprio come segni della civiltà del tempo

Paolo Volponi, Le mosche del capitale, Einaudi, Torino 1989 (pag 14-15).

In fondo, se li conti uno ad uno, ti accorgi che molti molti non sono, anzi, sono pochi, pochissimi; prendi l'India per esempio, come racconta Arundhati Roy in un lunghissimo articolo tradotto da Internazionale la settimana scorsa I fantasmi del capitale», non credo ancora reperibile online, purtroppo).
E viene facile chiedersi: ma come fanno pochi pezzi di merda a tenere per le palle il pianeta senza che la moltitudine di umani s'incazzi definitivamente e li getti dentro i vari vulcani sparsi ancora in attività del mondo?
Perché tali pochissimi potenti - che a volte poverini sono anche benefattori da lacrimuccia con le loro fondazioni del cazzo - pagano bene, molto bene, tutta quella serie di «graduati infeudati» che Volponi sopra definisce benissimo.

È questa nutrita fila di dipendenti di alto livello che fa da cuscinetto e impedisce il corpo a corpo tra la massa dei diseredati e i pochi eredi, confondendo, distraendo, mescolando e, quando serve, perfino sparando o infilando sassi nelle vagine di chi protesta:
«Qualche tempo fa Soni Sori, una maestra adivasi del distretto di Bastar, è stata arrestata e torturata dalla polizia. Per spingerla a “confessare” di essere un corriere dei maoisti, le hanno infilato dei sassi nella vagina. Soni Sori è stata ricoverata in un ospedale di Calcutta in seguito allo scalpore scatenato dalla vicenda. A una recente udienza della corte suprema, alcuni attivisti hanno mostrato ai giudici un sacchetto di plastica che conteneva i sassi usati per la tortura. L’unico risultato è che Soni Sori è rimasta in carcere mentre Ankit Garg, l’ufficiale di polizia che l’ha interrogata, ha ricevuto una medaglia al valor militare in occasione della festa della repubblica. »
Non saprei quantificare quanti siano questi funzionari del potere. Magari molti di loro non sono nemmeno consapevoli di esserlo – dei complici, voglio dire*. A mio avviso, una buona azione “rivoluzionaria” dovrebbe essere quella che li identifica per quello che sono, cioè i servi zelanti del potere, per fargli perdere ogni credibilità, di modo che non riescano più confondere con la loro politica di rigore, con la loro distrazione mediatica e con la loro fottuta idea della differenza**.

NOTE
*A onor del vero, devo aggiungere che, se ne avessi avuti i talenti, è probabile che, per una manciata di euro sostanziosa, avrei fatto di buon grado anch'io da scagnozzo o da leccaculo a lor signori. Siccome non sono mai stato tentato, sul genere dei Responsabili (è il primo esempio che mi viene in mente), non posso dire che se un Pinault qualsiasi venisse da me e m'offrisse un contratto da un milione di euro annui, per fargli da addetto stampa, saprei rifiutare o meno.
**Il tema della differenza richiederebbe debita trattazione a parte che, forse, un giorno affronterò. Ora no, ora ho poco tempo.

martedì 17 aprile 2012

Il ratto dello straniero


Prima, pensando all'esproprio di stato che l'Argentina ha compiuto ai danni della compagnia petrolifera spagnola Repsol, m'è venuto in mente che in Italia, ci fosse un giorno un governo populista come quello della Kirchner, cosa potremmo espropriare, noi italiani, alle potenze straniere? Giacimenti di petrolio e altre risorse energetiche* (o minerarie) non ne abbiamo. E dunque?

Beh, io - per quel che vale, come puro atto simbolico - manderei l'esercito a espropriare Palazzo Grassi, Venezia, a quel francese stramiliardario detto Altopino Francesco, già padrone dei marchi del lusso Luigi Vuittone, Gucci et cætera. E non venitemi a dire che vorrei questo esproprio solamente per il ratto della modella

Ho detto un governo con le palle, mica un governo Berlusconi.


* A parte il sole e il vento, debitamente “comprati” da molti investitori esteri in Italia del sud, grazie ai migliori ecoincentivi statali del mondo.

Nostalgia colonnella

*
Se invece della Repsol fossero state espropriate la Bp o la Exxon chissà come l'avrebbero presa gli inglesi o gli americani.

Io ritwitto da solo


Dato che non mi ritwittano, mi ritwitto da solo.

lunedì 16 aprile 2012

Volevo dire un'ombra

Blommers e Schumm, via, clicca su “Artists” e poi al nome degli autori
Se anche la tua ombra si appoggiasse sulla mia come una carezza e mi facesse così bello (ci facesse così belli), allora sicuro potrei prenderti per mano e portarti in cima a un colle per vedere se effettivamente sono io colui che pensa, che dice queste cose o qualcuno che si è preso la briga di passare per me stesso, di vivere in mia vece, io che invece, forse, avrei voluto vivere una vita diversa (ma quale?) e nessuno me lo dice. Ci pensavo, sai, ieri sera, togliendo dalla scatola della memoria l'immagine finale di un film che mi commuove sempre, che mai mi stanco di rivedere, quando lo passano in televisione. È The Truman Show, e per me Truman è un eroe, uno dei pochi personaggi in cui ancora mi identifico, uno che si sente, come dire, dentro una specie di limbo a vivere una vita per conto terzi e sogna un altrove (che ancora non è segnato in alcuna cartina), ma è bloccato da mille paure, a cominciare da quella della navigazione. Tutto intorno a me sembra così ben costruito e io dovrei essere, secondo i paradigmi della vita occidentale, quella persona che ha quasi tutto per essere felice e in pace con se stesso, e invece no, felice un cazzo, e non è detto che io cerchi necessariamente la felicità, forse fuggire, viverla nel ricordo, il solo luogo per poterla apprezzare pienamente. E così lascio fuggire solo la mia ombra; e anziché piangere rido, soltanto perché spargere lacrime mi costa più fatica e io sono, per natura, un indolente, un infingardo, uno che non osa mettere insieme un abc di sopravvivenza e partire (e patire).
Sono tante le ombre che ho mandato in avanscoperta per il mondo e mai nessuna è tornata indietro a riportarmi un Nuovo Mondo. Ombre poco valorose, incapaci di grandi navigazioni: mi assomigliano troppo, forse.
Ogni tanto alzo gli occhi al cielo per vedere se una nuvola bianca prendesse a parlarmi con una voce austera. Nuvole a forma di animale soprattutto, con cento bocche incapaci di parlare persino alle rondini. Non ne ho ancora viste una, a proposito. Chissà a che punto del viaggio sono, loro, che vanno avanti e indietro perché è questo che hanno sempre fatto da quando sono diventate rondini.
È questo che ho sempre fatto da quando sono diventato (ammesso e non concesso che lo sia diventato) un uomo. Volevo dire un'ombra.

domenica 15 aprile 2012

Al mio bel castello


Ogni tanto cammino intorno al perimetro di certi castelli. Poco fa, mentre mi trovavo, appunto, vicino alle mura di uno di questi, un signore, che stava uscendo dalla porta che conduce alla torre, ha preso a bestemmiare contro il suo cane giocherellone che gli aveva tutto strappato il sacco della spazzatura (sacco che il signore aveva appoggiato a un cipresso, penso prima di caricarlo in auto e portarlo al vicino cassonetto).
Questo signore, se non sbaglio, è uno dei fratelli padroni del castello (sua madre era contessa e non so se anch'egli abbia qualche titolo, chissà).
Io ero lì, riprendevo fiato, contemplavo il panorama e le mura, e pensavo che, tutto sommato, la distanza che separa questo signore di nobili origini da me è minima, molto minima rispetto a quella che poteva intercorrere tra un uomo della mia condizione sociale e un nobile di cinquanta o cento anni fa o, addirittura, dei tempi di Dante - e questo indipendentemente dal redditto e dal patrimonio (il signore è comunque padrone di una parte di castello; io no).

Che cosa ha colmato la distanza? Cosa consente a un figlio dell'Occidente come me di non avvertire più alcun disagio di fronte a qualsiasi nobile o aristocratico che va a caccia di elefanti in Botsuana? Che cosa mi fa ritenere, presuntuosamente, non dico uguale, ma superiore, oh sì, e quanto!, a queste persone, nonostante io non abbia e non sia un cazzo di fronte a loro?

Chiaramente, varie cose occorse nella storia che più o meno tutti conoscono. Io non so esattamente chi devo ringraziare se posso permettermi certi lussi di autostima. Le generazioni precedenti alla mia, sicuramente. Ma la mia di generazione saprà dare alle prossime quanto a noi è stato dato? 
Un altro tal Lucas che camminerà tra cento anni nei pressi di un altro castello penserà le stesse mie cose al riguardo? Avrà, inoltre, un pensiero di gratitudine per noi proletari opulenti d'occidente?

Credo di no, se ci accontenteremo di non perdere troppo di quello che i nostri padri e le nostre madri hanno conquistato.

L'Europa faccia alla crescita


Tra tutte le favole possibili, quella della crescita me ne ricorda una: il mito del Minotauro nella sua fase centrale, quando Minosse (i governanti) impone ai sottomessi ateniesi (noi sudditi, che in realtà dovremmo essere i sovrani, ma vabbè) di inviargli sette fanciulli e sette fanciulle (i vari sacrifici richiesti ai cittadini per intenderci) da dare in pasto alla la bestia antropofaga (la crescita, appunto, la quale ha gusti meno raffinati del Minotauro, giacché mangia volentieri anche “carne” stagionata).

Nel mito, il dazio da pagare per gli ateniesi durò alcuni anni; poi arrivò Teseo che uccise il bestione, con la complicità di Arianna, figlia di Minosse.
Nella fase attuale della storia, invece, noi sudditi continuiamo a sfamare il mito della crescita in vario modo: in Italia, con la riforma delle pensioni e, tra poco, con la riforma del mercato del lavoro; con l'aumento delle tasse e del costo della vita in generale (a fronte del blocco degli stipendi); e, altresì, con coll'aumentare della disoccupazione e della delocalizzazione (della produzione) - senza capire che non è portando cibo al mostro che questi sazia la sua fame. 

Il meglio sarebbe darci un taglio, ovvero tagliare la testa al toro come Teseo, ma non so come, anche perché non vedo all'orizzonte alcuna Arianna innamorata di noi ateniesi infami che ci introduca nei palazzi del potere.

sabato 14 aprile 2012

Il peggio sembra essere passato


Boh, non ci capisco nulla di questo sabato. È grigio e neanche tanto caldo, eppure io sento di avere un sole dentro che mi scalda, una specie di emozione obliqua che mi attraversa e rende un giorno come tanti un po' diverso. No, non è un sabato qualunque, eccetera, ma un sabato di parole che ti hanno fatto bene, di pronunce, di sguardi che si autoregolano per non sembrare troppo invasivi a una comune timidezza. Ma dimmi un po' questo sabato quando mai te lo saresti aspettato, così, neanche l'avessi scritto come desiderio. E, invece, sabato di pioggia, ombrelli e passi, di voci fluide e presa di coscienza che la vita è goccia, basta essere aerodinamici per cadere bene tra le braccia altrui.

23 + x

A causa della crisi economica dall'inizio del 2012 in Italia ci sono stati 23 suicidi di imprenditori. Lo fa sapere la Cgia di Mestre spiegando che solo in Veneto i casi sono stati nove, l'ultimo pochi giorni fa 1. Dati drammatici che oltretutto sono limitati ai titolari di impresa, mentre non esiste ricerca nazionale che consideri il fenomeno tra i disoccupati, i precari e coloro che negli ultimi quattro anni hanno perso il lavoro o hanno visto drasticamente ridotto il loro salario dalla cassa integrazione. [via]
23 + x, dunque, dove x è l'incognita di tutti quegli individui che non sono iscritti ad alcuna associazione se non quella della disperazione.

23 + x persone che si sono uccise per evadere da quello che consideravano come un carcere: la vita, appunto.

23 + x, dove nell'x rientrano a pieno diritto anche tutti i carcerati che si sono ammazzati in una prigione di stato vera e propria e non solo in quella figurata - e sono tanti (anno scorso Metilparaben ne tenne il conto).

23 + x, di chissà quante poche lacrime versate da uno Stato che si fonda, tra l'altro, su principi come questo (articolo 2):
La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
23 + x ed è inutile fare finta, pensare che son cose che non ci riguardano. È vero, esiste una predisposizione genetica al suicidio, ma sono casi limitati; è vero, altresì, che a volte la depressione suicida colpisce anche persone che non hanno problemi sociali ed economici. Tuttavia, un gran numero di suicidi è dovuto soprattutto a motivi sociali ed economici, a diritti violati o negati, - e questo ci riguarda eccome in quanto umani che non rinfacciano alla Repubblica, di cui siamo cittadini, le proprie responsabilità.

23 + x, insomma, manca un uguale, tutto dipende dal numero che sarà: inutile sperare che sia zero, ché nella sofferenza lo zero non esiste.

venerdì 13 aprile 2012

Abbacchio espiatorio

Stasera a Blob hanno fatto vedere un estratto di Giuliano Ferrara che, nella sua Radio Londra che ancora va in onda, invitava rispettosamente Rosi Mauro a cena o a pranzo. 
Sicuramente, Ferrara si è esposto a questa galanteria perché la vicepresidente del senato appare, agli occhi dell'opinione pubblica, come il capro espiatorio del momento - e si sa quanto Ferrara sia sensibile al tema, quasi più che ad un abbacchio alla romana.

Altre volte, che ora non mi prendo la briga di ricercare, mi sono occupato del tema capro espiatorio. Non mi ripeto, vorrei solo indicare che abusare di tale espressione è controproducente, perché alla fine, a forza di vederli dove non sono, non riusciremo più ad individuare chi vittima espiatoria lo sia veramente. Innanzitutto: Rosi Mauro non è affatto una capro espiatorio, giacché se lo fosse stata non sarebbe stata in grado di opporsi al diktat della segreteria leghista, rifiutando di dimettersi dalla sua carica istituzionale. La pressione mediatica di cui ella è stata fatta oggetto, condita anche dal sovrappiù di morbosità per il suo, apparente, libertinaggio è una persecuzione all'acqua di rose. Soprattutto: Rosi Mauro non è una capro espiatorio perché non si è lasciata vittimizzare accettando di buon grado tutte le colpe che le vengono attribuite - colpe che riguardano tutto il gruppo umano di cui ella ha fatto parte, ma che solo se le avesse assunte su di sé avrebbe potuto, nella vittimizzazione, portarle fuori dal gruppo, in modo che esso avrebbe potuto, in una logica vittimaria, purificarsi e rappacificarsi.

E poi, suvvia, non si è mai visto una capro espiatorio con la scorta che persino le sistema gli scendiletto. Comunque sia, lunga vita alla pasionaria leghista!

Finiranno le fave al locco



«Il peggio deve ancora venire»: amara previsione di Olympe che getta nello sconforto e fa sentire tutta la nostra impotenza. Tuttavia, sperare - ancorché inutile - è sempre lecito. E io spero, dispero, compatisco la nostra condizione di occidentali impotenti di fronte alla potenza dei Mercati. Che fare? domanda pericolosa, sfiziosa, comunque di prassi, per non condannare la nostra vitalità alle perdute lacrime. Io penso che si possa tentare di conoscere un po' più a fondo le dinamiche che ci portano a fondo. Se la salvezza non viene dagli ebrei, (né dai cristiani, né dai musulmani, né da scientology per carità), questa salvezza proviamo a darcela da soli, innanzitutto individuando bene chi è, oggi, il vero nemico dell'umanità e dell'ambiente che ci circonda - e di molte specie animali, fuorché le iene e i parassiti. 
Almeno s'abbia da soffrire sapendo chi ci fa del male a noi proletari, a noi piccolo borghesi, a noi contadini, a noi imprenditori sull'orlo del fallimento, a noi intellettuali non asserviti al dio denaro. Definiamo bene il nemico non tanto per muovergli guerra, ché ancora forza non abbiamo a sufficienza, quanto per non farci prendere in giro dai suoi modi raffinati e persuasivi, così viscidi e unti che ogni volta ce ne accorgiamo dopo che ce l'hanno spinto dentro malgré nous. Voglio dire: finiamola con il masochismo, e smettiamo di adorare il cerchio magico degli eletti che lasciano cadere briciole di merda e di catrame che ancora troppi stolti si accalcano a raccogliere facendo ressa, dando l'impressione ai Potenti che, in fondo, è questo che il popolo vuole: frustate e miele di petrolio.

Riprendendo un vecchio monologo gaberiano, Il tennis, viene anche a me adesso l'idea di produrre un film con un regista di scuola buñueliana. E penso subito a una qualche trasmissione televisiva che abbia molto gradimento popolare (scegliete voi quale), o a un'importante partita di calcio (diventato oggi molto peggio del tennis). E vedo volare, insieme alle mucche, milioni di cittadini, che poi atterrano nello studio televisivo e nel campo da giuoco, ma non come un berlusconi qualsiasi a spargere culi ignudi, tette in fuori e soldi, ma letame animale e umano, fatto lì sul posto, bello caldo in diretta, in contemporanea. Eccolo qui il vero consenso e la vera risposta: a chi obbliga il mondo a stare nella merda, restituiamo merda, anche la nostra, con gli interessi.

N.B.
Il titolo è un proverbio (campagna aretina, credo) la cui miglior definizione l'ho trovata qui da Giordano Bruno Guerri.
 «“Finirono le fave al locco…”; il locco era un uccello che aveva mille silos con un milione di fave in ognuno; ne mangiava una al giorno ma, siccome non lavorava, finì per morire di fame.»