domenica 2 settembre 2012

Fallaci, Kapuściński, Terzani, Mo, Giordano

Va bene, è uno scrittore che si vuole fare le ossa andando in giro per il mondo, che aspetta con ansia l'autunno per la pubblicazione del suo nuovo romanzo di successo che sarà presentato in anteprima da Fabio Fazio con un'intervista che farà impennare le vendite, un romanzo che aspettiamo con ansia di non leggere, o di leggere dietro compensa - e tuttavia, andando in giro per il mondo reportaggia turisticamente e produce articolessi culturali che il Corriere della Sera si perita di accogliere con benevolenza, lautamente pagandolo, dato che è ormai una firma di prestigio - come tanti scrittori contemporanei lo diventano di prestigio, basta vincere un premio e poi i giornali italiani ti accolgono a scrivere editoriali ed elzeviri, funziona così il giochino, non si esaurisce la formula consumata - e noi leggiamo per vedere se magari qualcosa di particolare ce lo dice, qualche pensiero buono e illuminato e invece no, più si legge e si capisce che non è la sua strada questa, no, giacché non si può mescolare uno scipitissimo autobiografismo a eventi tragici della storia in questo modo. Cazzo se ne strabatte le palle in terra il lettore se il Giordano è nato poco dopo i fatti di Sabra e Shatila? Perché egli non entra nel merito storico della questione prendendo magari posizione e indicandoci chi siano stati gli aguzzini di quel massacro? Ché hai bisogno a fare di nasconderti dietro una posizione terzista, con un temino che farebbe bella impressione agli esami di maturità d'accordo, ma che in tre pagine di giornale non ci dice niente più di quanto avresti potuto fare con una cartolina di saluti? E poi, non vorrei dire, ma almeno inventati che sei andato da solo in quel luogo, mica in pullman con altri turisti del macabro, e poi con la guida che vi conduce ad ascoltare testimonianze teleguidate, magari dalla guida stessa ricompensate a posteriori per il servigio turistico svolto. Uno scrittore che, per raccontare di un evento storico (che più o meno tutti conoscono), ha l'ardire d'infilarci la marginalità del proprio io, il proprio io lo deve mettere in gioco nel presente stesso del vissuto, non riandando alla proprie vicissitudini familiari che c'entrano con la vicenda quanto un Amaro Averna a colazione digiuni.
Ma soprattutto, leggendo un passo simile, si capisce proprio che Giordano non è tagliato per tale attività:
Se vincessi il timore di offendere e ne domandassi ragione alla guida, senz’altro mi risponderebbe che ai palestinesi non viene data la possibilità di creare alcunché di stabile. Se, invece, interrogassi uno dei molti antipalestinesi residenti a Beirut — ce ne sono a volontà e per ogni confessione, basta scegliere —, direbbe che loro sono fatti così, che campano da parassiti. Quando si parla di Palestina, per ogni domanda vengono offerte due risposte antitetiche, così noncuranti l’una dell’altra, così inconciliabili, da farti sorgere il dubbio che, dopo gli innumerevoli travasi e rovesciamenti, la verità sia andata perduta.
E vincilo il timore, cazzo, e domandale le ragioni, interroga i tuoi interlocutori, non puoi stare come un babbaleo lì in silenzio e offrirci, dipoi, una deduzione che a) avresti potuto fare anche da casa; e b) sapevamo fare da soli noi lettori (senza bisogno che il Corriere ti commissionasse il reportage).

Comunque, nel capoverso finale, il Giordano mi ha fatto ridere, involontariamente, ma è già qualcosa.
Quando scoprii del massacro di Sabra e Shatila avevo ormai ventisei anni. Come molti della mia età, recuperai quel pezzo di storia grazie a un film di animazione, Valzer con Bashir, che all’inizio mi attrasse soprattutto per la sua forma originale. Al termine del lungometraggio, i disegni lasciano improvvisamente spazio alle fotografie scattate nel campo dai primi osservatori che vi entrarono. Mostrano corpi lacerati, seminudi, nella postura di chi implora pietà. Ricordo che uscii dal cinema infastidito da quell’irruzione di realismo dentro un film così aggraziato e implicito, la trovai ricattatoria, un pugno nello stomaco che il regista Ari Folman ci sferrava gratuitamente. Ho cambiato idea. È grazie a quella sequenza cruda che ho spinto la mia curiosità fin dentro il campo di Sabra e Shatila, solo per ascoltare altre testimonianze atroci, per vedere un uomo commuoversi anche l’ennesima volta in cui rievocava i suoi fratelli e la notte in cui fu inseguito con un’ascia. In mancanza di giustificazioni più profonde, di retroscena sensati cui affidarci, non si può che contare sulla riproposizione dell’orrore, sui compleanni osceni della tragedia, per tenere vivo nella memoria ciò che accadde, ancora e ancora.
Vi ricordate il Guzzanti-Tremonti de «Ho cambiato idea»? Ecco.

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