martedì 29 gennaio 2013

Qualcosa che incombe

Ieri l'altro Berlusconi ha detto quello che ha detto sul secondo più grande statista che l'Italia ha avuto dall'Unità in poi e io non voglio dire niente, io, perché sennò divento fascista anch'io, perché la rabbia potrebbe prevalere, la voglia di sputare, di lanciare treppiedi e madonnine in peltro, di prendere a brani e conficcare in un tirso la sua testa di catrame. Dunque, calma, finta di niente. A cosa serve urlare? A COSA SERVE URLARE? 

«E così qualcosa ci incombe. Questi innumerevoli morti, questi massacrati, questi torturati, questi calpestati, questi offesi sono affare nostro. Chi parlerebbe di loro se non ne parlassimo noi? Chi ci penserebbe? Nell'universale amnistia morale concessa da molto tempo agli assassini, i deportati, i fucilati  i massacrati hanno soltanto noi che pensiamo a loro. Se cessassimo di farlo, finiremmo di sterminarli, ed essi sarebbero annientati definitivamente. I morti dipendono interamente dalla nostra fedeltà... Questo è proprio del passato: il passato ha bisogno che lo si aiuti, che lo si ricordi agli smemorati, ai frivoli e agli indifferenti, che le nostre celebrazioni lo salvino continuamente dal nulla, o almeno ritardino il non essere al quale è votato; il passato ha bisogno che ci si riunisca appositamente per commemorarlo: perché il passato ha bisogno della nostra memoria».

Vladimir Jankélévitch, Perdonare?, Giuntina, Firenze 1987, traduzione di Daniel Vogelmann

L'ho già detto e non molto amo molto ridirlo, anche se devo ridirlo. Mio padre, nell'estate del 1943, fu preso a sedici anni dai tedeschi e fu deportato a Berlino, tramite tradotta ferroviaria, in un campo di lavoro. Non era ebreo e lavorò da schiavo insieme ad altri suoi compagni di sventura. Dopo un anno e mezzo vide la capitolazione in diretta del nazismo, schiena a terra nella notte a osservare l'immenso e incessante bombardamento degli alleati. Poi furono i russi ad aprire i cancelli e a liberare lui e gli altri. Al ritorno, ogni volta che qualcuno intorno lui si provava a difendere minimamente il fascismo, lui s'incazzava e se qualcuno insisteva, data la sua forza (lavoro di miniera, lavoro da meccanico), ci metteva poco a dare un pugno in faccia a chi lo faceva. Vorrei avere quel pugno e quella forza, ora. Vorrei avere quella faccia da pezzo di merda ora, qui.

4 commenti:

Olympe de Gouges ha detto...

basterebbe una miniera dove mandarcelo

astime ha detto...

Bello questo brano di Jankélévitch, del quale conosco solo "La musica e l'ineffabile", credo mi procurerò il libro. Grazie.

Io ho un mezzo fratello che non è venuto molto bene, diciamo così. Ciò non ostante, l'anno scorso mi ha sorpreso perché si è fatto tatuare sul braccio la riproduzione esatta di una marchiatura numerica nazista: voleva che il suo corpo diventasse memoria. Spero che lui non si trovi mai in certe situazioni perché ha un pugno come un maglio e la miccia cortissima.
Io cerco di immaginarmi la società che sognava nostro zio fucilato a diciott'anni dai nazifascisti a Fondotoce.
Buona serata :)

Luca Massaro ha detto...

@ Olympe.
Credi di poterlo "rieducare"? :D

Luca Massaro ha detto...

@ Astime,

Grazie della tua testimonianza. Un mezzo fratello da tenere buono, insomma... :)