giovedì 11 luglio 2013

Fare letteratura

È un periodo che non riesco più a fare letteratura, ammesso e non concesso che l'abbia mai fatta. Ecco, va meglio con l'ammettere e il non concedere. Tuttavia, fare letteratura ha ancora senso? La realtà è già di per sé stupefacente, inutile immettere altra finzione dentro la finzione del reale. Costruire un personaggio, farlo muovere in un contesto storico particolare, contemporaneo o meno, farlo appartenere a una classe o a un'altra, oppure farlo scendere o salire dall'una all'altra, farlo interloquire con questo o quello, dargli una voce, un paio d'occhi castani e nessun altro segno particolare, vederlo crescere nel tempo, magari prenderlo subito appena viene espulso fuori dal grembo materno, eccolo che piange, sentilo come strepita, ha già tutti i capelli pensa un po', pesa tre chili e cento, e subito s'attacca al seno come fosse una ventosa, che bravo bambino tanto carino che pare una bambina, che subisce il trauma dello svezzamento come una condanna a vita, mai più tanta beatitudine, e poi tutta una rincorsa, un gioco a rimpiattino coi propri bisogni e desideri, un andare avanti per inerzia sentendosi per tanti anni spinto in un altrove indefinito, senza un progetto di vita preciso, senza un modello forte e prevalente, ma con tanti intorno a tirarlo per la maglia a dirgli si fa così per vivere bene, ma un bene preciso forte definito ancora non è apparso all'orizzonte, non ha visto raggi verdi se non quelle poche volte che ha detto a una donna ti amo con sincerità. Ma dentro quel ti amo non c'è mai stato dentro tutto e quindi di nuovo libero di vagare senza la premura di trovare risposte definitive al grande enigma chiamato vita (Isaac B. Singer), solo individuando dove è meglio mettere i piedi per non pestare la merda che ti sporca l'anima.
E intorno al personaggio altri personaggi, donne, uomini, bambini, anziani saggi e cani che non mordono e si sentono più padroni dei padroni. Circostanze che lo circondano, esperienze che lo esperiscono, feste che fanno desiderare d'esser soli e solitudine che richiama a sé gli sguardi della gente. Eccolo lì, insomma, il protagonista, senza una trama precisa. Io, comunque, gli scrivo addosso apposta, per prenderlo in giro, per smuoverlo, provocarlo, mettergli a disposizione una vita parallela dove possa imparare a vivere o a fare finta e, allo stesso tempo, dove possa, della vita che passa, farne un po' di letteratura (con la miseria della “sua” bravura).

P.S.
Quanto scritto è stato in parte ispirato da un post odierno di Minerva Jones.

1 commento:

Minerva ha detto...

Se non raccontiamo ciò che vediamo accadere o ciò che sognamo, sicuramente diminuisce la nostra conoscenza (perché non avremmo informazioni su ciò che c'è lontano da noi) così come la nostra immaginazione si riduce a pochi schemi ricorrenti inculcatici da chi gestisce il discorso culturale e mediatico nazionale e globale (cfr Marc Augé). Quindi si continui pure a trascrivere o anche a inventare storie e raccontarle. E si, con la parola e al limite con la musica. E non con le immagini. A meno che non siano alla Herzog, ovvero "inedite".