mercoledì 10 luglio 2013

Noi e loro

In due post, uno di ieri e uno di oggi, Giglioli scrive:
il capo della Chiesa cattolica, ieri, la cosa più interessante non l’ha detta sugli immigrati, ma sulla globalizzazione liberista senza volto. Cioè sul maggiore problema del nostro tempo: il fatto che i meccanismi economici (quelli che tra l’altro portano migliaia di persone a rischiare la morte in mare) sembrano non avere un padre, un responsabile, un ideologo, qualcuno che ne debba rendere conto. Sembrano essere dinamiche autogenerate quindi ineluttabili, molto più potenti della democrazia e della politica. È la prima volta nella storia che “il colpevole” non è un re, un presidente, uno Stato. Ma siamo tutti noi, con il modello di società che abbiamo creato. E che per fortuna pare abbastanza al tramonto, ma appunto questo dipende da noi, prima ancora che da una politica ormai senza braccia.
[...]
noi ci occupiamo di politica, certo, e di come migliorare il Paese  attraverso le leggi, i rappresentanti da votare o magari la democrazia diretta, ma se non cambiamo prima radicalmente noi stessi, il tessuto sociale, la nostra cultura quotidiana, i nostri vicini di casa e quelli che incontriamo al bar, beh, non se ne esce proprio, non si va da nessunissima parte.
No, mi dispiace, ma non è così. Perché in quel «noi» io non ci rientro, non ci dovrebbe rientrare neanche Giglioli, tra l'altro, ma non perché io sono buono e lui di più, no, anzi, io, su cinquanta volte, glielo do una volta sola un euro al migrante che viene a rompermi le palle mentre scarico la spesa nel bagaglio della macchina perché vorrebbe rimettere lui a posto il carrello e prendersi la moneta. Cioè: io quarantanove volte su cinquanta dico: “No, grazie faccio da me” magari aggiungendo in corpo in corpo “ma vai a rompere le palle altrove” e con ciò, per quanto mi sforzi, io non mi sento responsabile di tutto questo. 
E nemmeno quel vigile di quartiere, di cui Giglioli riporta le malefatte, si deve sentire responsabile della «globalizzazione dell'indifferenza». Ah, certo, De Valle o Matteo Marzotto , John Elkann o Berlusconi loro sì che non sono «noi», bensì persone civili e generose - buoni samaritani che se vedono qualcuno rantolare nel mezzo di strada gli danno un paio di mocassini e una giacca in frescolana, un'auto e un televisore - loro, di certo, non ricorrono a simili mezzucci da borghese piccolo piccolo per sopravvivere. 
Ecco, la sopravvivenza è un termine che si presta a più significati: uno letterale, che riguarda noi, e uno metaforico (?) che riguarda una determinata classe di persone, che sopravvivono nel senso che vivono sopra il nostro vivere e questi sono loro, la classe dei padroni, quelli che Guido Rossi chiama, leziosamente, i ricchi del mondo (leggasi Olympe de Gouges per una preziosa analisi dell'editorale del prof. Rossi).
Non è vero tutti i ricchi vivono sopra le vite altrui, ma è fortemente vero che coloro che vivono ad-agiati sopra le vite altrui sono ricchi*. Dunque, non è una questione di ricchezza, no: è di sfruttamento. Io non sono un pauperista, un francescano, un gesuita, uno che crede nella decrescita e vorrebbe che tutti si andasse in giro con i birkenstock. Io non considero la ricchezza che gli umani producono un peccato, ma una risorsa. Il punto è che questa ricchezza si concentra tutta da una parte, non nella nostra parte, ma in quella loro, dell'un per cento di umani del mondo. Occorre andare a prenderla.

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