lunedì 30 settembre 2013

Storia di un rossetto

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Quand'ero piccolo mia mamma aveva più o meno quei capelli, più o meno quel vestito e quel rossetto e io non capivo perché mia mamma si mettesse il rossetto solo alla domenica (non per andare a messa perché mia mamma a messa non ci andava né ci va) e non anche durante i giorni della settimana. In fondo il rossetto le stava bene, dava risalto alla sua pelle che facilmente si sarebbe abbronzata se avesse avuto il tempo di abbronzarsi. E invece al sole mia  mamma non ci poteva stare, si alzava alle quattro durante la settimana per entrare al lavoro alle cinque del mattino, faceva i turni in un lanificio che adesso non c'è più o meglio c'è solo una traccia di archeologia industriale dello stesso. Lanificio dove lavorava anche sua mamma, mia nonna, e suo padre, mio nonno, morto di tisi all'età di ventisei anni, quando mia mamma aveva sei anni e mia mamma è nata nel '31. Fate i conti. C'era quel pezzo di merda del Duce al comando. C'erano anche i fascisti, spazzatura umana che ancora non è stata ben incenerita dalla storia, i quali, durante la di lì a poco occupazione tedesca, avrebbero fatto le spiate ai nazisti per massacrare un po' di popolazione, ratatatatà.
Ma perché ricordo queste cose, quale senso? Nessuno.
Il rossetto, è stata colpa di quella confezione di rossetto, me lo ricordo bene quel rossetto che stava dentro il cassettone in camera di mia madre dove io, ragazzino, andavo a sbirciare cose senza un perché. Non ho mai avuto la tentazione di toccarlo, quel rossetto, figuriamoci di passarmelo sulle labbra, soltanto me lo ricordo, quel tubetto dorato, quel profumo di carminio, e mia mamma che se lo metteva per uscire alla domenica.
Forse sarebbe stato meglio se mia mamma fosse stata una puttana, avrebbe potuto mettere il rossetto più spesso. E poi avrei potuto effigiarmi realmente della qualifica di figlio di puttana, cosa che lei stessa ogni tanto mi dice quando la faccio arrabbiare o non soddisfo certe sue aspettative.

domenica 29 settembre 2013

Alla superficie della società borghese

Inizio capitolo 17 del Libro Primo de Il Capitale di Karl Marx

«Alla superficie della società borghese il compenso dell’operaio appare quale prezzo del lavoro: una determinata quantità di denaro che viene pagata per una determinata quantità di lavoro. Qui si parla del valore del lavoro e si chiama l’espressione monetaria di quest’ultimo prezzo necessario o naturale del lavoro. D’altra parte si parla di prezzi di mercato del lavoro ossia di prezzi oscillanti al di sopra o al di sotto del suo prezzo necessario.
Ma che cos’è il valore di una merce? È la forma oggettiva del lavoro sociale speso per la sua produzione. E mediante che cosa misuriamo la grandezza del suo valore? Mediante la grandezza del lavoro in essa contenuto. Da che cosa sarebbe dunque determinato per esempio il valore di una giornata lavorativa di dodici ore? Dalle dodici ore lavorative contenute nella giornata lavorativa di dodici ore; il che non è che un’insulsa tautologia[1].
Per essere venduto sul mercato come merce, il lavoro dovrebbe comunque esistere prima di essere venduto. Ma se l’operaio potesse dargli un’esistenza autonoma, venderebbe merce e non lavoro[2]

[1]« Il Ricardo evita abbastanza ingegnosamente una difficoltà che sembra opporsi a prima vista alla sua teoria secondo la quale il valore dipende dalla quantità di lavoro impiegata nella produzione. Se questo principio è rigidamente tenuto fermo, ne consegue che il valore del lavoro dipende dalla quantità di lavoro impiegata per produrlo — il che è evidentemente assurdo. Perciò, con un’abile mossa, il Ricardo fa dipendere il valore del lavoro dalla quantità di lavoro necessaria per la produzione del salario; o, per dirla con le sue parole, sostiene che il valore del lavoro dev’essere stimato mediante la quantità di lavoro richiesta per la produzione del salario, con il che egli intende la quantità di lavoro richiesta per produrre il denaro o la merce dati al lavoratore. Questo è come dire che il valore di una stoffa è stimato non mediante la quantità di lavoro impiegata per la sua produzione, ma mediante la quantità di lavoro impiegata nella produzione dell’argento con il quale la stoffa viene scambiata » (A Critical Dissertation on the Nature ecc. of Value, pp. 50, 51).
[2] « Se voi chiamate il lavoro una merce, esso non è però eguale a una merce, prima prodotta per lo scambio e poi portata al mercato, dove dev’essere scambiata con altre merci che si trovano sul mercato e con le rispettive quantità di ciascuna; il lavoro è creato nel momento in cui è portato al mercato, anzi, viene portato al mercato, prima di essere creato » (Observations on some verbal Dispute: ecc., pp. 75, 76).



Ieri sera mi ha scritto il farabutto. «Farà brutto», mi sono detto, e infatti piove. Come ha detto il Comandante Nebbia su Twitter: «Un'altra campagna elettorale non la reggo senza doparmi». 
Io, per la verità, mi dòpo da tempo, con Karl Marx. Lo sento, mi entra nelle vene, un po' come mi è entrato, a suo tempo, Darwin. Sono attratto dalle idee pericolose, perché rivoluzionano completamente il modo di pensare.
Per esempio, questo fatto che il lavoro è una merce particolare che viene corrisposta con un salario e che questo scambio (denaro in cambio di lavoro) sia un pilastro sul quale si regge la produzione capitalistica, chi me l'avrebbe mai insegnato se non Marx? O meglio: chi altri, se non Marx, ha rivelato che
«La forma del salario oblitera quindi ogni traccia della divisione della giornata lavorativa in lavoro necessario e in pluslavoro, in lavoro retribuito e lavoro non retribuito. Tutto il lavoro appare come lavoro retribuito.
Nelle prestazioni di lavoro feudali il lavoro del servo feudale per se stesso è distinto nello spazio e nel tempo, in maniera tangibile e sensibile, dal lavoro coatto per il signore del fondo.
Nel lavoro degli schiavi persino la parte della giornata lavorativa, in cui lo schiavo non fa che reintegrare il valore dei propri mezzi di sussistenza, in cui dunque egli lavora in realtà per se stesso, appare come lavoro per il suo padrone. Tutto il suo lavoro appare come lavoro non retribuito. Nel lavoro salariato all’incontro persino il pluslavoro ossia il lavoro non retribuito appare come lavoro retribuito. Là il rapporto di proprietà cela il lavoro che lo schiavo compie per se stesso, qui il rapporto monetario cela il lavoro che l’operaio salariato compie senza alcuna retribuzione.
Si comprende quindi l’importanza decisiva che ha la metamorfosi del valore e del prezzo della forza-lavoro nella forma di salario, ossia in valore e prezzo del lavoro stesso.
Su questa forma fenomenica che rende invisibile il rapporto reale e mostra precisamente il suo opposto, si fondano tutte le idee giuridiche dell’operaio e del capitalista, tutte le mistificazioni del modo di produzione capitalistico, tutte le sue illusioni sulla libertà, tutte le chiacchiere apologetiche dell’economia volgare.
Se la storia universale abbisogna di molto tempo per penetrare l’arcano del salario, non c’è invece niente di più facile a capire che la necessità, le raisons d’étre di questa forma fenomenica.»
Non esiste alcun partito politico, alcun sindacato, alcun intellettuale “visibile” che discuta di queste scoperte fondamentali, che sono lì alla portata di noi tutti, come la muffa di Pasteur (altra intuizione, quella della muffa, che debbo questa volta al demopazzo).
Voglio dire: se queste idee cominciassero a occupare la mente di coloro che per vivere debbono vendere la propria forza-lavoro - mente ahimè! presidiata dai memi del capitale (politica, religione, sport, spettacolo, ecc.) -, potrebbe aver senso rioccupare lo spazio della politica, scendere in piazza, partecipare. Altrimenti, incazzarsi per l'ennesima volta ancora per quel delinquente di Berlusconi, no, non ce la faccio, not in my name.

sabato 28 settembre 2013

The Pope Song




E se quest'uomo fosse un genio?
Scoperto oggi, grazie a questo articolo qui. (Qui il testo della canzone).


A parte, citazioncina trovata fresca fresca oggi anch'essa:
«La Chiesa è uno Shylock anche più implacabile dello Shylock shakesperiano: essa vorrà la sua libbra di carne, anche a costo di dissanguare la sua vittima e con tenacia, mutando continuamente i suoi metodi, tenderà a raggiungere il suo programma massimo. Secondo l'espressione di Disraeli: “I cristiani sono gli ebrei più intelligenti, che hanno capito come occorreva fare per conquistare il mondo”.»
«La Chiesa non può essere ridotta alla sua forza “normale” con la confutazione in sede filosofica dei suoi postulati teorici e con le affermazioni platoniche di una autonomia statale (che non sia militante); ma solo con l'azione pratica quotidiana, con l'esaltazione delle forze umane creatrici in tuta l'area sociale».
Antonio Gramsci, Il Vaticano e l'Italia, “I Concordati”, Editori Riuniti, Roma 1974.

venerdì 27 settembre 2013

Ad ascoltarli er'io del tutto fisso

Polemos di tutte le cose è padre, di tutto poi è re; e gli uni manifesta come dèi, gli altri invece come uomini; gli uni fa esistere come schiavi, gli altri invece come liberi. Eraclito, 14 [A 19], traduzione di Giorgio Colli, in La sapienza greca, vol. III, “Eraclito”.

«… ogni πόλεμος, anche quando asimmetrico e privo di regole, ha per fine un diverso «aver la meglio sull’avversario», che non a caso vien detto “nemico”. Voglio dire che nella continuazione del πόλεμος con una τέχνη diversa da quella che gli è propria va persa l’equipollenza geometrica tra i fini che i contendenti si propongono. Si tratta indubbiamente di un enorme salto qualitativo sul piano dell’evoluzione antropologica, ma in sostanza il salto sta tutto nel differire il fine, e invece di annichilire il nemico ci si accontenta di dimostrare che ha torto. Può anche accadere che questo si riveli di grande utilità nel risparmiarsi tutte le scocciature che derivano dall’uso della forza bruta, ma a patto che le regole della retta argomentazione siano condivise al punto da dare agli argomenti una forza univocamente ponderabile dalle parti in polemica. Bello a dirsi, impossibile a farsi quando sia patente, anche da parte di uno solo dei contendenti, l’uso di strumenti che violino o aggirino le regole della retta argomentazione: lì polemizzare è inutile, perché il contenzioso slitta inevitabilmente da ciò che è oggetto di polemica alla legittimità degli strumenti di polemica, e in pratica si è costretti a constatare che le regole non sono condivisibili. Di fatto, solo in ambito scientifico la polemica dissuade proficuamente dalla tentazione di ricorrere al randello.» Luigi Castaldi.

«Ma questa alternanza oggettiva non ha che scarso rapporto concreto con l'azione tragica il cui ritmo è più precipitoso. Al livello di questa azione tragica, l'oscillazione fondamentale è quella che si osserva nella disputa tragica, o sticomitia, vale a dire nello scambio ritmico di insulti e di accuse che costituisce l'equivalente dei colpi alternati che si scambiano due avversari nella singolar tenzone […] Che la violenza sia fisica o verbale, tra un colpo e l'altro trascorre sempre un intervallo di tempo. Tutte le volte che un avversario colpisce l'altro, spera di concludere vittoriosamente il duello o la disputa, di dare il colpo di grazia, di proferire l'ultima parola della violenza. Momentaneamente tramortita dallo scontro, la vittima ha bisogno di una certa pausa per riprendere le sue facoltà, per prepararsi a rispondere all'avversario. Fin quando tale risposta si fa aspettare, colui che ha colpito può immaginare di aver davvero dato il colpo decisivo. È la vittoria, insomma, è la violenza irresistibile che oscilla da un combattente all'altro, per tutta la durata del conflitto, senza arrivare a fissarsi da nessuna parte. Solo l'espulsione collettiva, è noto, arriverà a fissarla definitivamente al di fuori della comunità.» 
René Girard, La violenza e il sacro, (Paris, 1972), Adelphi, Milano 1980, pag. 199-200 (traduzione di Ottavio Fatica e Eva Czerkl).

Artatamente, trasporto la questione nella trita e putrescente vicenda politica che assilla l'Italia da un ventennio e provo a dire: nel momento stesso in cui s'accetta la disputa con un avversario, gli si dà credito, lo si legittima, ci si mette al suo livello e si viene trascinati nel gorgo della sua polemica, delle sue ragioni, della sua violenza. Tutta la politica italiana è dentro questo gorgo da più di vent'anni e non ne sa uscire perché se, da una parte, la parte dei merda, si aggirano, di fatto, «le regole della retta argomentazione», dall'altra, la parta degli ebeti, non ci si è mai decisi a prendere il randello (politico) per dare il colpo decisivo. Singolar tenzone in cui vengono usate armi diverse dai contendenti: gli uni, i merda, grazie all'assillante arma mediatica (televisioni, giornali, ecc.) riescono a far diventare vulgata una storia disegnata su misura sulla faccia inceronata del capo; gli altri, gli ebeti, che accettano la sfida usando le armi della ragionevolezza, della costituzionalità, dello stato di diritto.

La politica italiana si è fatta imprigionare in un dilemma in cui soltanto uno doveva essere e dovrebbe essere prigioniero. E non ne sa uscire (la politica: lui, temo, saprà uscire). Il guaio è che non ne sappiamo uscire neanche noi (scusate per il noi), nel senso che, come Dante nel XXXesimo canto dell'Inferno, resta imbambolato a osservare due dannati (Maestro Adamo e Sinone il greco) menarsi fendenti fisici e verbali, così noi (molti di noi) stanno ad ascoltare o leggono le argomentazioni dei merda e degli ebeti senza però avere vicino una guida come Virgilio che a un certo punto s'inalberi e ci dica: «Or pur mira, / che per poco con teco non mi risso!», vale a dire: ora guarda quanto sto poco a incazzarmi con te se non la smetti di guardare e ascoltare quei due falsari impenitenti – e perdi tutto questo tempo con tutta la strada davanti che abbiamo da fare...

Il neorealismo dei ricordi

Stasera, su Rai Tre, ho visto Roma città aperta. Era tanto, ero piccolo, avrò avuto l'età di Marcello. La cucina dove mangiavo coi miei e mio fratello, le sedie di legno chiaro, mio babbo in canottiera a costine accaldato e le guance rosse per un bicchiere in più, mia madre in vestaglia, mia madre, l'ho sempre vista e sempre la vedrò tipo Anna Magnani, io sono innamorato di Anna Magnani fin da quando ero piccolo ma non perché ero innamorato di mia madre e volevo uccidere mio padre, però, ora che ci penso, quando avevo l'età di Marcello io andavo a volte a letto con i miei, nel mezzo, per addormentarmi, ma questo non c'entra niente con il film.
In cucina, dopo cena, guardavamo spesso lì la televisione, io seduto in collo a loro oppure no, che andavo e venivo, e smettevo sempre di vedere il film appena ammazzano Pina.
I miei mi dicevano vai a giocare, e stasera ho capito perché mi mandavano a giocare, perché dopo la scena madre il film racconta ancora di più la crudezza e la violenza dell'occupazione, non è benigno cogli spettatori piccoli che vogliono il lieto fine, perché è un film dove la speranza viene sconfitta, la speranza per coloro che lottano per la speranza, per dire io che spero che quando erano alla fine in tre in prigione, presi l'«ingegnere» e poi il prete, ho sperato che il disertore austriaco, trafficando con le tubazioni presenti nella prigione, facesse saltare in aria qualcosa e liberasse gli altri e invece no, si viene a sapere che s'impicca. Porca puttana. È finita, non scappano, non si liberano e infatti: il capo partigiano comunista viene torturato con la fiamma ossidrica e altro, ma non parla, e tutto fatto davanti al sacerdote che assiste alla sua via crucis. È il corpo di Cristo che viene crocifisso e il carnefice, assurda e beffarda sua ultima mossa per farlo parlare, tira fuori il politichese, facendo al comunista una proposta se questi gli rivela i nomi dei generali badogliani, considerato che lui è comunista e l'alleanza coi conservatori e i monarchici è una fregatura. E il partigiano gli sputa in faccia al comandante nazista, è suo l'aceto questa volta, e quindi subisce la punizione finale e spira tra le braccia di Don Pietro. 
Don Pietro che maledice gli assassini, di colpo, ma poi s'inginocchia e prega il suo Dio impotente. Infine viene pure lui giustiziato, in maniera formale, un'esecuzione in piena regola col plotone che volutamente manca il bersaglio e il merda del nazista in capo che infama i soldati italiani e gli spara lui alla schiena - il tutto con i piccoli parrocchiani spettatori che sono andati a render omaggio al prete buono.
Ecco: i piccoli Marcello che tornano mesti verso la città che li aspetta, più bella e più triste che mai.
Per un momento, solo per un momento, avrei voluto avere di nuovo la loro età e avere qui vicino mio padre per salirgli in collo e abbracciarlo un po'.

giovedì 26 settembre 2013

Splendidi autodafé

E se invece di dimettersi, essi si dessero fuoco? Ovvero, s'imbottissero di tritolo e si facessero esplodere? Ovvero ancora si svenassero nei bagni caldi di Montecitorio?
La vedo, la pitonessa, algida e ignuda, liquefarsi e secernere bava che, insieme al sangue, scivola a mulinello nello scarico.
Che scena sublime sarebbe, che finale finalmente tragico dopo tanto sfinimento di palle della maggioranza assoluta degli italiani.
Mi spiace per il Tevere, ché non so quanto i depuratori della Capitale possano spurgare tanto veleno.

mercoledì 25 settembre 2013

Un rimedio all'ansia politica

«Giovanni aveva raccontato che nel tram, sul quale era rincasato, aveva assistito ad una scena penosa. Una donna ne era scesa quando il veicolo era ancora in movimento e tanto malamente da cadere e ferirsi. Giovanni descriveva con un poco di esagerazione la sua ansia all'accorgersi che quella donna s'appressava a fare quel salto e in modo tale che era evidente sarebbe stata atterrata e forse travolta. Era ben doloroso di prevedere e di non essere più in tempo di salvare.
Io ebbi una trovata. Raccontai che per quelle vertigini che in passato m'avevano fatto soffrire, avevo scoperto un rimedio. Quando vedevo un ginnasta fare i suoi esercizi troppo in alto, o quando assistevo alla discesa da un tram in corsa di persona troppo vecchia o poco abile, mi liberavo di ogni ansia augurando loro dei malanni. Arrivavo persino a modulare le parole con cui auguravo loro di precipitare e sfracellarsi. Ciò mi tranquillava enormemente per cui potevo assistere del tutto inerte alla minaccia della disgrazia. Se i miei augurii poi non si compivano, potevo dirmi ancora più contento.»
Italo Svevo, La coscienza di Zeno, 1923 (cap. 5, “La storia del mio matrimonio”).
Se, per un certo periodo, sono stato politicamente ansioso come Giovanni Malfenti (amico e futuro suocero di Zeno), dopo le elezioni dello scorso febbraio, comprese la rielezione di Napolitano e la nascita del governo Letta, per togliermi di dosso ogni tipo di ansietà, ho adottato il metodo Cosini; però non riferendolo ai ginnasti o alle persone anziane che scendono dal tram, bensì alle giravolte e alle capriole che il Partito Democratico compie dentro il tendone da circo della politica italiana.
Tuttavia, a differenza di Zeno, se i miei auguri di precipizio e sfracellamento non si compiono, non posso dirmi “ancora più contento”.

martedì 24 settembre 2013

Averla in mente


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I veri comunisti, oggi, come ieri, ce l'hanno sempre in mente, la rivoluzione. 
Prendiamo, ad esempio, la foto sopra: dove cade subito l'occhio del rivoluzionario? Sulla testa di Lenin appoggiata alla pila di libri, giornali, riviste. E dove sennò? Sulla poltrona stile impero o sul bambolotto capitalista? Ma scherziamo?
Edoardo Sanguineti, Bisbidis, Feltrinelli, Milano 1987
A parte.
Senza cadere in un estetismo melenso e con la massima precauzione nell'evitare ogni oggettificazione e ogni sua mercificazione (quante fiche! vieni al dunque, Massaro), la bellezza della donna è, per me, ‘la’ Bellezza. Tra tante possibilità di coglierla, la migliore e insuperata resta dal vivo. Esistono, beninteso, succedanei rappresentativi, artistici e pseudoartistici, che offrono brevi lampi di gaudio allo sguardo contemplante e/o desiderante. Niente di che, per carità, e tuttavia, concedete (e se non concedete pazienza), io vi indulgo, con moderazione, soprattutto quando trovo qualcuno che sa portare alla luce particolari angolature della muliebrità.
Uno di questi - dei pochissimi che seguo - è Mike Dowson: questo il suo sito; questo il trumb.

Puntare su obiettivi a medio termine

«Nella ricerca degli antenati, la cronologia retrograda ha il vantaggio di puntare su un singolo obiettivo lontano: il grande antenato di tutte le forme di vita. Da qualunque creatura cominciamo, sia l'elefante o l'aquila, il rondone o la salmonella, la sequoia o la donna, non possiamo fare a meno di convergere su di esso. La cronologia retrograda e la cronologia progressiva hanno entrambe lati positivi, che sono diversi l'uno dall'altro. Se si va indietro, da qualunque punti si inizi si finisce per celebrare l'unità della vita. Se si va avanti, se ne celebra la diversità». Richard Dawkins, Il racconto dell'antenato, (2004), Mondadori, Milano 2006 (traduzione di Laura Serra, pag. 7)
Pensiero minimo sulla cronologia progressiva: quanta diversità della vita ancora sarà possibile, indipendentemente dal fatto che, tra dieci anni, ci salveremo o no? 
La cronologia retrograda ha un vantaggio indubbio nel “puntare su un singolo obiettivo lontano”. La progressiva, invece, dove cazzo punta? Si fotte in un colpo solo, così, ogni teleologia. Nondimeno, restringendo arbitrariamente il campo alla forma di vita che riguarda noi umani, un minimo di obiettivo, ce lo vogliamo dare o no prima di ‘fottere’ la nostra vita nell'idea che tutto ciò che ci circonda, soprattutto l'attuale sistema economico dominante, sia, di fatto, l'unica forma naturale possibile di produzione sociale?
Aprire gli occhi diventa una necessità, non per decrescere, ma per sfuggire a una necessità fasulla, all'ultima frontiera del finalismo, ossia al modo di produzione capitalista per il quale e verso il quale tutto deve essere legiferato e sacrificato con l'assurdo alibi che esso sarebbe l'unico sistema economico a offrire libertà e democrazia.

lunedì 23 settembre 2013

Prolungamenti

«Prolungamento della giornata lavorativa oltre il punto fino al quale l'operaio avrebbe prodotto soltanto un equivalente del valore della sua forza-lavoro, e appropriazione di questo pluslavoro da parte del capitale: ecco la produzione del pluslavoro assoluto. Essa costituisce il fondamento generale del sistema capitalistico e il punto di partenza della produzione del plusvalore relativo. In questa, la giornata lavorativa è divisa da bel principio in due parti: lavoro necessario e pluslavoro. Per prolungare il pluslavoro, il lavoro necessario viene accorciato con metodi che servono a produrre in meno tempo l'equivalente del salario. Per la produzione del plusvalore assoluto si tratta soltanto della lunghezza della giornata lavorativa; la produzione del plusvalore relativo rivoluziona da cima a fondo i processi tecnici del lavoro e i raggruppamenti sociali.»

Karl Marx, Il Capitale, Libro Primo, Quinta sezione, Capitolo XIV, “Plusvalore assoluto e plusvalore relativo”, edizione Einaudi, pag. 623, traduzione di Delio Cantimori.

In fila alla cassa, alla coop, davanti a me due persone, un uomo e una donna. Riconosco l'uomo: eravamo amici quando io avevo sui quattordici, quindici anni, lui ne aveva già diciotto, ma dato che era poco “sveglio” (è?) preferiva mettersi al livello di noi ragazzotti anziché stare coi suoi coetanei che lo emarginavano e lo prendevano pesantemente in giro. Noi, più giovani, lo prendevamo per i fondelli leggermente, anche perché, insomma, poteva, se voleva, darcele di santa ragione, era grande e grosso, anche se non aveva una buzza impressionante come ora. Noi lo accettavamo, tuttavia, nel gruppo perché ci faceva comodo avere un componente che, grazie al fatto di essere maggiorenne, poteva comprarci le sigarette o i giornalini porno senza difficoltà.
Insomma, ero dietro lui e una donna, conoscente sua, credo, una discreta milf dagli occhi blu, il culo sostenuto da leggings marron, che rivelano morbide rotondità, ma di quella morbidezza che per me è fattore di accogliente benevolenza e non spigoloso attrito.
Saluto il «vecchio» amico, lui fa altrettanto e mi domanda se tutto bene, convenevoli, gli chiedo del lavoro perché sapevo che, alcuni anni or sono, una fottuta multinazionale¹ (svedese) ha mandato tutti gli operai, lui compreso, in cassa integrazione, perché essa ha trasferito la produzione altrove, e lui mi risponde che lavora alla cartiera² e fa i turni, ha da poco terminato il turno di notte.
La signora, che era ripeto tra noi due e che si vede conosce bene l'amico ma non me, gli chiede quando rientra al lavoro e lui risponde martedì. Al che io gli domando per quali motivi ha libero il lunedì e lui, anzi lei, che s'intromette, mi dice che alla cartiera lavorano anche alla domenica, lavorano sempre, tutto l'anno, tranne per Natale e Santo Stefano, perché la produzione non può essere interrotta, è a ciclo continuo. Però, faccio tra me e me, e chiedo al mio amico di quante ore sono composti i turni. Otto ore, risponde, e io gli chiedo il turno di notte da che ora a che ora e lei, al posto suo, mi dice dalle 21 alle 5 e io gli chiedo, a lui, se, nelle otto ore, è prevista una pausa, che so, di una mezz'ora o un quarto d'ora. Lui scuote la testa e lei mi risponde macché pausa tanto non si stancano mica, non ti preoccupare. Perché, dico io a lei, lavori lì anche te? No, mi risponde lei, ci lavora mio marito, va' tranquillo, fanno un lavoro che non possono stancarsi neanche a volerlo, stanno lì e controllano che i macchinari funzionino a dovere per la produzione, fanno tutto le macchine, loro sorvegliano. E occorrono otto ore di fila moltiplicate per tre per “soltanto” controllare? Non basterebbero la metà? Per carità, taglia corto lei, almeno otto ore mio marito me lo levo dalle palle di casa. Soprattutto la notte?

La mia domanda resta nel vuoto. La cassiera ha già passato la spesa del mio amico e ricevuto da lui il pagamento. Adesso sta alla signora, che si gira per mettere la spesa sul nastro, a volte piegandosi. Il mio sguardo riempie il vuoto della domanda di prima.

Note
¹ Trattasi di un'industria cartaria di produzione carta igienica, asciugatutto pannolini fazzoletti tovaglioli eccetera, fondata dal niente negli anni '60 da alcuni imprenditori del posto dove abito, diventata grande e poi venduta negli anni Duemila alla suddetta multinazionale a suon di miliardi (di lire). Multinazionale che ha tenuto la produzione nel luogo per un po' di anni, poi ha fatto i suoi calcoli, ha preferito delocalizzare portando via macchinari specifici e licenziando circa 300 operai. Hanno portato via macchinari ma non tutti: hanno dovuto lasciare una...

² ...cartiera (produzione dei rulli madre dai quali poi derivano tutti i prodotti che usiamo noi), la quale è stata rilevata da una società italiana, credo, con sede nel lucchese. La cartiera ha riassorbito 60 operai, tra i quali anche l'amico.

Segnali positivi

Dalle cose che ha fatto Mantellini - persona di cui generalmente mi fido, e devo fidarmi, dacché non c'ero - deduco che alla Blogfest di Rimini hanno fatto di tutto fuorché parlare di blog. Buon segno.

domenica 22 settembre 2013

Ho fatto il calcolo

«Guadagnavo un milione e mezzo al giorno, avevo una ricchezza di 12 miliardi di euro, faccia il calcolo di cosa siano tremila, quattromila euro»
Ho raccolto l'invito a fare il calcolo: ma non ho preso la calcolatrice, no, ho consultato un vocabolario. Sono andato a vedere quale fosse la migliore definizione della voce guadagnare per la citazione in oggetto. 
Bene, la migliore definizione che ho trovato è «trarre benefici e vantaggi di vario tipo», tra i quali si possono senz'altro considerare l'evidente posizione di monopolio e l'acclarata evasione fiscale - due addendi che, se sommati, danno spesso come risultato il ladrocinio.

sabato 21 settembre 2013

Dilettante della vigna

Dice che a Rimini c'è la blogfesta. Potevo io non andarci? Potevo.
Infatti sono stato a vendemmiare, la mia prima vendemmia, alla vigna di cristaccio, dacché non ho ricevuto neanche un soldo. Vabbè, l'ho fatto per amicizia, mica per Dio.
Sono arrivato che erano le dieci, ho fatto la pausa pranzo un paio d'ore, poi ci sono ritornato, sino alle cinque, che volevo di più, anzi, qualcuno paga pure per avere simili esperienze, e poi mi sono pure divertito insieme agli altri vendemmiatori (alcuni dei quali persino bestemmiatori del diocaro in sol maggiore). 


Pinot nero, un vino elegante, con poca tradizione in Toscana, ma le tradizioni vanno pure cominciate per divenire tali, pensa alla Borgogna, che è tutto dire, giorno ufficiale d'inizio vendange en Bourgogne proprio oggi, fremito.
Con le cesoie tagliavo tralci, prima piegato poi in ginocchio infine seduto, culo a terra - tralci che andavano controllati per scartare quelli con degli acini ammuffiti. Il tenutario del domaine è vignaioulo scrupoloso, meticoloso, scientifico.
Ogni tanto mangiavo qualche chicco, dolce, rosso, sangue, terra. Grilli, vespe, ragni, forbici, tenevano compagnia; mosche pure, qualcuna a infastidirmi la schiena, le scapole in particolare (mosche nubili).
Riempivo queste casse a sufficienza;


casse che operai della Transilvania trasportavano in fondo al filare,


 per essere dipoi caricate e trasportate velocemente, su mezzo di locomozione, in cantina.

Adesso sono stanco d'una fatica matura, da cogliere, per tagliare qui questo post.
A proposito: quando quanto scrivo sarà abbastanza maturo per essere vendemmiato? Per produrre che? Gazzosa?

venerdì 20 settembre 2013

Deboli segnali


Scrivere: parlare sottoponendo la parola dentro l'ordine della scrittura. Le parole vagano nella mente abbastanza in disordine e manifestano il pensiero quel tanto che basta da emettere barlumi, segnali simili a quelli di stelle lontane.
Io stasera sono abbastanza fuori: come il segnale del Voyager impiega diciassette ore ad arrivare a Terra, mi ci vorrà una notte di sonno per capire qualcosa di questa vaghezza metascritturale che ho intrapreso senza un preciso perché.

Volevo scrivere sullo scrivere – cosa paradossale, tanto quanto mangiare sul mangiare. Come a pranzo, il pensiero del pranzo non sazia l'affamato, così sul foglio (di carta o elettronico), il pensiero di scrivere senza un tema preciso soddisfa poco il blogger compulsivo.

giovedì 19 settembre 2013

Un invisibile peccatore




Anch'io pecco, però a me Dio non chiama; casomai sono io telefonargli. Adesso sono in bolletta, non ho più i gettoni, è tanto non lo sento e, credo, per farmi chiamare, o anche solo far sì che Lui mi guardi, dovrò peccare di più. Che tipo di peccati? Atti impuri? Mi tocco, mi tocco. Ruberie? L'ultima volta che ho provato a rubare (involontariamente) un grappolo d'uva da schiacciata, alla cassa veloce è suonato il controllo spesa e ho dovuto confessare: 1,10€ di rossore. Non uccidere? Ho fatto fuori, dianzi, tre formiche volanti e un millepiedi strisciante. Non desiderare donna e roba altrui? Roba poca, donne qualcuna ma solo se si liberano della robe, si disoggettificano e restano nude dalla terzultima alla sestultima lettera. 
Infine, per farla breve, mi gioco tutto sul nominarlo invano. Ma chi è che giudica la pertinenza della chiamata (nomina), il chiamante o il chiamato? Dato che, quest'ultimo, rispondere non risponderà, l'autorizzazione uno se la dà solo, facile, no? Dite che non vale? Ok, il Papa ha dalla sua la tradizione, la storia, il canone, miliardi di fedeli che dicono che così stanno le cose? Non ho scampo, sono solo contro tutti. E sono invano.

A volte penso che dem sia abbreviativo di dementi



Oggi, in fila dal macellaio, mi sono trovato davanti alcuni ‘giovani’ dirigenti del Pd, tra i quali ho potuto riconoscere Antonella Moretti, Matteo Colaninno e Roberto Speranza.
Volevano la trippa, ma il macellaio ha detto che per loro c'era soltanto il fegato. A gratis.

mercoledì 18 settembre 2013

Strane immagini


«Strane immagini. Rappresentavano una folla di cose. Non cose vere, altre che gli rassomigliavano. Oggetti di legno che rassomigliavano a sedie, a zoccoli, altri oggetti che rassomigliavano a piante. E poi due facce: era la coppia che aveva pranzato vicino a me, l'altra domenica, alla birreria Vézelize. Grassi, caldi, sensuali, assurdi, con le orecchie rosse. Vedevo le spalle e il petto della donna. Esistenza nuda. Quei due là – d'un tratto, ciò mi ha fatto orrore –, quei due là continuavano ad esistere da qualche parte di Bouville: da qualche parte – in mezzo a quali odori? – quel petto morbido continuava a carezzarsi contro stoffe fresche, a raccogliersi nei merletti e la donna continuava a sentirsi il petto esistere nella sua blusa, a pensare: “Le mie tettine, i miei bei frutti”, e a sorridere misteriosamente, attenta all'espandersi dei suoi seni che la solleticavano, e poi ho gridato e mi son ritrovato con gli occhi sbarrati.»

Jean-Paul Sartre, La nausea, (1938), Einaudi, Torino 1947 (traduzione di Bruno Fonzi).


Ho gridato anch'io stasera, forte; e ho anche bestemmiato, molto. Gli occhi mi si stanno sbarrando, ora, mentre ripenso a quelle cornici digitali sullo sfondo che mandano in onda alcune foto patinate della vita familiare di quello là – d'un tratto, ciò mi ha fatto orrore – e lui continuava a esistere da qualche parte, in mezzo a quali odori, a quali immagini.

La sòla dell'avvenire

''La magistratura si è trasformata in un contropotere dello Stato in grado di condizionare il potere legislativo ed esecutivo con la missione di realizzate per via giudiziaria il socialismo".[sic]
Quel che più mi sorprende è che, in vent'anni, non sono stati capaci neanche di socializzare un mezzo di produzione, chessò, un canale televisivo, un'acciaieria, un fabbrica di automobili, una banca... Niente: come socialisti, i magistrati italiani, lasciano proprio a desiderare.

martedì 17 settembre 2013

Ma vabbè

Da quando mia moglie mi ha buttato fuori di casa, forte del fatto che la casa è intestata a lei – anche se l'ho pagata praticamente tutta io, col mio lavoro (è appunto per motivi miei di lavoro che essa risulta a suo nome, avevo fatto un finanziamento per avviare la mia attività imprenditoriale e non volevo arrischiarla con un'ipoteca) – non è che vivo male, anzi. Mi sono trovato un appartamento raffinato in centro, faccio le mie cose tranquillo, in piena libertà e, soprattutto, non mi sono mai abbandonato alla rabbia nei confronti di colei che, oltre a essere la madre dei miei figli, è stata anche l'unica donna che ho amato veramente e che, in fondo, in un certo qual modo, amo ancora, anche se la stronza s'è trovata subito un nuovo compagno che dorme nel letto dove dormivo io, si rilassa sul divano che ho comprato io e defeca nel cesso rialzato sul quale avevo conquistato la mia (perduta) regolarità intestinale.
Ma vabbè. A parte tutto ciò che, obiettivamente, mi rende uno scornato, non mi sento depresso, né tantomeno un risentito. Ecco, la rabbia non so cosa sia: mai ho pensato di prendere le armi contro 'sto cazzo di situazione e mettere fine ai fantasmi che, a qualcuno (ma non a me), potrebbero infettare la mente e scatenare la violenza. Io non ho tali fantasmi. Non ce la faccio a dire puttana a mia moglie, né ad aver voglia di spararle in bocca a lei a quel figlio di puttana. No. Come ho accennato, mi sono ricreato una mia vita, ho conquistato una libertà che prima non mi rendevo conto poteva essere così facilmente alla mia portata – e di tutto questo devo ringraziare lei (e forse lui, anche se la troia mi ha detto che non mi ha lasciato per quel bastardo, ma io ci credo poco).
Ma vabbè. Insomma, pur se non ho il coraggio di dire che sono felice, confesso che sto bene, e questo è tanto, è molto. Sto come un cinquantenne che non ha problemi economici o di salute (regolarità a parte), che ha il suo giro di amici e di conoscenze e che non vive il calo fisiologico del testosterone come un dramma. Anche perché, ogni tanto, qualche morning glory anticipa la sveglia, perlomeno dopo che ho sognato di attaccarmi al seno morbido della segretaria, la quale, da quando ha partorito, viene sempre al lavoro con la camicetta aperta, come se, oltre al figlio, dovesse allattare in fretta anche i suoi colleghi e me, soprattutto, che sono il suo principale.
Sono, infatti, da alcuni anni, titolare di una srl, che ci consente, a me e al mio socio, la possibilità di ricavare buoni utili. Per la precisione, il mio socio è lo stronzo bastardo che va a letto, nel mio letto, con l'ancora ufficialmente mia moglie (siamo da poco separati, ma non legalmente). Tuttavia, ripeto: io non ce l'ho con lui, né con lei, io non sono un arrabbiato, un risentito, uno che vuole fargliela pagare a tutti e due, no. Io voglio solo riconquistare la mia regolarità intestinale. È per questo che sono il primo ad arrivare in ufficio, tutte le mattine, per cagargli sopra la sua scrivania. Il problema è che non so come interpretare il fatto che, da una parte sul piano, al posto del computer, il mio socio ha posizionato una scorta di rotoloni regina. Ma vabbè.

Ingegneria politica


Facili compensazioni: dopo aver raddrizzato il bubbone della Concordia, domani affondare quello della Discordia.

lunedì 16 settembre 2013

Madri premurose

Signora 1: «Ho detto a mio figlio che il secondo lo potrà avere solo se passerà con buoni voti.»
Signora 2: «Perché ne ha già fatto uno?»
Signora 1: «Sì, sai è andato dalla Bettina, è una brava tatuatrice, s'è fatto scrivere una frase latina che dice: “Ognuno è artefice del proprio destino”.»
Signora 2: «Che bella frase importante. Ma se bocciasse o, al limite, avesse brutti voti?»
Signora 1: «Se lo farà comunque, però la scritta la deciderò io.»
Signora 2: «Ah sì, e cosa gli farai scrivere?»
Signora 1: «Sufficit.»

domenica 15 settembre 2013

Anche gli italiani hanno cattive opinioni

via
via

I sondaggi vanno sempre presi con le molle. Ancor più, poi, la lettura che se ne fa. A me sembra che in Italia, purtroppo, i sondaggi politici che hanno maggior diffusione sui media siano quelli che danno spazio alle intenzioni di voto, anziché al rifiuto del voto, accarezzando in tal maniera il rospo sempre dalla parte del pelo.
- Un rospo col pelo? 
- Sì, pelo posticcio.

sabato 14 settembre 2013

Capricci italiani

«“Non dovevi vomitarmi qui,” mi dice, “che adesso qui è tutto otturato.” E mi indica il lavandino. “Dove siamo?” dico io. “Nella 23,” dice lei. “Allora,” dico io, “poco male, perché ci pisciavo sempre.” E adesso anche io lo indico, il lavandino. “Be',” fa lei, “piscia quanto vuoi, che quello mica ottura, ma con tutto questo vomito, guarda, qui non va giù più niente.” “Oh,” dico, “chi mi ha portato qui?” E lei: “Ti ho portato io, va’, sono sempre forte come una volta, proprio.” “Cosa ti è capitato?” le dico, allora, che mi viene da dirglielo quasi sottovoce, così. “Ma niente,” dice lei. “Come niente?” le dico. E lei dice: “Ma niente,” ancora. E poi lo diceva di nuovo, ogni tanto, che io invece non parlavo più: “Ma niente.” Poi dice: “Guarda qui.” E mi fa vedere la coperta del letto, adesso, piena di schizzi da tutte le parti, e il cuscino bagnato, e il tappetino che c'era lì per terra, bagnato anche quello, e persino la parete, che è lì come piena di baffi lunghi. Poi guardo un po' dalla finestra, che piove come prima, e si sente di nuovo tutto quel rumore della pioggia che c'era, e oltre la pioggia non c'è mica niente, e cioè davanti non si vedono mica delle case o altro, ma solo come un po' di nebbia. “Non sembra nemmeno più lo stesso posto,” dico. “Be’,” dice lei, “cosa pretendi?” E apre la finestra, che entra un po' d'aria, un po' di nebbia, che subito, infatti, mi sento un po' meglio. Poi mi aiuta anche un po' a pulirmi la camicia, che ce l'ho tutta sporca di bava, e con uno straccio si mette a lavare anche un po', lì per terra, e poi mi dice: “Ma prenditi questa citrosodina, piuttosto, che ti fa bene.” E mi passa un bicchiere, che l'acqua, dentro, quasi ci frigge, e di nuovo è tanto pallida, lei, che la mano, adesso, le trema.»
Edoardo Sanguineti, Capriccio italiano, Feltrinelli, Milano 1963 (ristampa 1987, cap. XXXVI, pag. 71)

Appoggia le tue mani sulle mie reni, trasmettimi un po' del tuo calore; entra, per una volta, dentro questo mio corpo disperato che non digerisce più bene i pasti che gli vengono imposti dalla quotidianità. Il tempo è quello che è, l’estate un ricordo, nonostante ancora lo sia sulla carta; m'è preso freddo, sai, le mezze stagioni che non sai se fa freddo o fa caldo, dipende da cosa decidi. Io ho deciso di avere freddo in questo quarto d'ora che scrivo e ti penso, ovunque tu sia, come se davvero fossi esistita. Eppure mi parlavi, mi donavi parole che ingenuamente credevo che, prima o dopo, ti avrebbero rivelata, ti avrebbero portato in quel posto preciso dove decidemmo insieme di bere il nostro primo caffè. Io sono ancora qui che giro il cucchiaino dentro la tazzina. E tu sei invece rimasta un abbraccio senza braccia, un “ti amo” senza vocali.
- “Trademark?”

- “Vaffanculo™”.

venerdì 13 settembre 2013

La catena cristiana

Per quanto Papa Francesco stia operandosi per restituire alla Chiesa cattolica e al cristianesimo in sé un'impronta più trendy, più spendibile mediaticamente e, sia concesso, anche umanamente (la sua vicinanza ai poveri, agli emarginati, ne è prova), la teoria e la prassi cristiane restano sempre classiste e favorevoli al perpetuarsi dello status quo.
Un esempio è fornito da un editoriale di Giovanni Ruggero pubblicato ieri su Avvenire. Bene, in tale articolo cristianamente accorato, che parla dello «scandalo degli sperperi alimentari», Ruggero mostra come il cristiano non vada a cercare le vere cause che determinano una simile catastrofe - e questo perché, se lo facesse, scoprirebbe che esse non sono individuali, non riguardano tanto la coscienza personale, quanto precise ragioni storiche e sociali legate al modo di produzione capitalistico. Per il cristiano le ragioni del male nel mondo sono sempre soggettive: è il diavolo che tenta l'individuo, puttana Eva - e, così, egli critica, di più: giudica i comportamenti peccaminosi del singolo, considerato il principale responsabile dello spreco (in questo caso alimentare).
«Le cause di questa dissipazione sono oggetto di studio, perché è da qui che si possono immaginare i rimedi. Nel mondo industrializzato siamo noi consumatori i principali responsabili perché compriamo e poi buttiamo ciò che non mangiamo. Cultura dell’opulenza? Ostentazione del benessere?»
Digressione, ma non tanto.
Familiari acquistati d'intorno hanno pollai. Le galline, veramente allevate a terra, razzolano e mangiano lombrichetti, insettucoli e, dipoi, granaglie varie che vengono loro date. E anche pane secco in copiose quantità. Pane che, taluni, raccolgono, invenduto, da forni. Per dire: ogni settimana, raccogliendo il pane avanzato, mi rendo conto che, come minimo, se potessi rimetterlo insieme otterrei un pane intero da un kg. Fine digressione.
Dunque, anch'io sono responsabile della dissipazione e dello spreco alimentari? 
Esimio signor Ruggero, mi spiace contraddirla: manco per il cazzo mi sento responsabile. Certo, non sono un tipo molto misericordioso, come Madre (Santa) Teresa di Calcutta, la quale - lei riporta - disse:
«Quello che mi scandalizza non sono i ricchi e i poveri: è lo spreco»
Beh, a me invece, tutto il contrario: non sono scandalizzato dallo spreco, anzi: lo trovo una mera conseguenza del sistema di produzione dominante (in altri termini: esso rientra nelle leggi insiste al sistema capitalista dove sovrapproduzione e maladistribuzione, di necessità, imperano); piuttosto, ciò che mi scandalizza è proprio l'esistenza dei ricchi e dei poveri. Vale a dire: pur tenendo conto dei talenti, delle attitudini, delle diversità insite al genere umano (intendo di quelle “chi ce l'ha più lungo se lo tira”), da un punto di vista dei diritti umani, il divario tra i ricchi pezzi di merda e i poveri morti di fame è lo scandalo per eccellenza che non dovrebbe far dormire le religioni e la politica. 
E, invece, per i politici (comitati d'affari, ecc.) e per i religiosi come Madre Teresa, i poveri sono il miglior affare per il mantenimento del proprio potere (banalmente e ingenuamente: se non ci fossero più i poveri che bisogno ci sarebbe dei “politici” che, tramite campagna elettorale, promettono questo e quello; che bisogno ci sarebbe dei volontari misericordiosi se non ci fossero più disperati da consolare e feriti da sanare?)
Continua Ruggero:
«Nel Paesi in via di sviluppo, invece, gli sprechi sono dovuti a un’agricoltura poco efficiente o alla mancanza di modalità di conservazione adeguate. Lo spreco è dunque inserito in una catena alimentare non più virtuosa, e ogni anello della catena – è anche l’invito della Fao – dovrebbe adoperarsi per spezzare questo meccanismo impazzito. Riutilizzare e riciclare, sono le parole d’ordine per i consumatori. Ma tanto e di più può fare l’industria alimentare, invitata – finalmente – a chiare lettere a donare quello che non può più vendere, quanto sta per marcire e dovrà essere buttato via.»
Inutile girarci intorno: per rendere efficiente l'agricoltura e la filiera della conservazione annessa, occorre più scienza - ma una scienza svincolata dal capitale. Inoltre, è inutile “invitare” l'industria alimentare «a donare quello che non può più vendere», giacché l'invito cadrà, giocoforza, nel vuoto. In buona sostanza: occorre un ripensamento (rivoluzione?) dell'attuale sistema economico che, oramai da circa duecento anni, è sempre lì, più o meno lo stesso, costretto nella sua ferrea logica dello sfruttamento degli umani e delle risorse del pianeta. Ma questa sì che è una bestemmia per i cristiani, in particolar modo per i cattolici.

Per concludere: riciclare e riutilizzare il cibo - in questo caso il pane - sì, ma dopo un po' anche basta, giacché col pane duro ci posso fare la panzanella o la pappa al pomodoro una volta o due, poi, galline o natura - e non per questo mi sono sentito mai, né mi sentirò colpevole come quel coglione di Adamo.

giovedì 12 settembre 2013

Il buon gusto di evadere



È come se, dopo il 25 luglio '43, Mussolini e i suoi gerarchi avessero potuto continuare a controllare una cospicua parte dei mezzi di propaganda nazionali e avessero, altresì, avuto modo di “spiegare” al pubblico le loro folli ragioni in interviste in differita trasmesse dai telegiornali o durante estenuanti talk-show in diretta tv. 
Le ragioni di Berlusconi non dovrebbero aver luogo di essere e, invece, hanno, oltre al luogo, anche lo stato e il moto a luogo della diffusione mediatica. E tali ragioni, rinforzate vieppiù dal contraddittorio dei cosiddetti avversari-alleati politici, raccontano che egli è un povero perseguitato politico dalla magistratura imparziale e cattiva, composta da giudici off limits che fanno politica: persone cattive che solgono spesso scorreggiare in pubblico sentenze e che se prendono di punta un cittadino per lui non c'è scampo: proprio come non c'è scampo - mediatico - per quei morti di fame dei falsi invalidi che vengono puntualmente scovati dalle Iene e affini e additati al pubblico ludibrio per avere depredato lo Stato. Mentre per l'evasore, che non è evasore per  davvero, ma solo perché ritenuto tale dopo tre gradi di giudizio, non c'è bisogno di riprenderlo colla telecamera nascosta: egli ha così tanto pagato di tasse nel corso degli anni che poche centinaia di milioni di euro sottratte all'erario cosa vuoi che siano? Pagliuzze, mica travi che accecano.

mercoledì 11 settembre 2013

Fate la nanna coscienze di pollo


E insomma Francesco ha risposto alle domande di Eugenio promettendogli, persino, quasi il paradiso.
Eugenio si appunta al petto la medaglietta pontificia e, sotto sotto, la sua coscienza si pavoneggerà soprattutto nei confronti di quella parte d'Italia
«che non si riconosce nei valori [della] prima pagina di Repubblica»* [vedi P.S.]
Nonostante la soddisfazione personale (del rilievo pubblico che hanno preso le sue riflessioni intorno alla fede e la coscienza) Scalfari, alla risposta del Papa, credo avrebbe preferito, in coscienza, la resa politica di Berlusconi, il suo dichiararsi da parte.
E a proposito di questo passaggio di Papa Francesco:
«Il peccato, anche per chi non ha la fede, c'è quando si va contro la coscienza. Ascoltare e obbedire ad essa significa, infatti, decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male. E su questa decisione si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire.»
La coscienza così intesa, non gioca anche a favore dei delinquenti? Cioè a dire: colui che delinque non ha anch'egli una coscienza che lo fa agire, che lo fa ripiegare verso ciò che lui percepisce «come bene o come male»? Il pregiudicato Berlusconi non ha più volte ripetuto, anche quando ha ricoperto altissime funzioni governative, che - a certe condizioni - evadere era (è) moralmente lecito?

P.S.
*Non ho la pazienza, né la convenienza, ma fare uno studio sul lemmario usato da Ferrara potrebbe portare più benefici per dimagrire della dieta Dunkan, tanto fa chiudere lo stomaco. Nondimeno, quando estrae forme desuete e simil auliche per darsi un tono, tipo: «È l'ora dei maramaldi», beh, garantito: allo stomaco che si chiude corrisponde il retto che si apre e correre al cesso diventa una priorità.

martedì 10 settembre 2013

La particella di Dio. Ladro.


Un giorno, chissà, forse tra cinquant'anni, gli insegnanti della scuola pubblica italiana - se ci saranno ancora la scuola e la repubblica italiane - faranno più fatica a spiegare il 10 settembre 2013 anziché l' 8 settembre 1943.
E tutto questo perché non ci potranno essere storici all'altezza per dare una spiegazione razionale (o anche una spiegazione qualsiasi) al fenomeno del decadentismo. L'unico modo, forse, dico forse, è chiamare, subito, immediatamente, gli scienziati del Cern, dir loro di smettere le ricerche sul bosone, per studiare, a fondo, con l'acceleratore delle particelle testicolari degli italiani che girano a velocità prossime a quelle della luce, l'elemento subatomico chiamato berluscone. Solo così - forse, dico forse - verremo a capo di avvenimenti ancor più difficili da analizzare e comprendere della nascita dell'Universo.

Oggi comprerò La Stampa


«La rivoluzione in Siria è diventata altro - ha aggiunto Quirico - cioè gruppi radicali islamici che vogliono creare un califfato ed estenderlo a tutto il Medio Oriente e al Nord Africa e mi sorprendo di come gli Usa possano pensare di intervenire per aiutare questi gruppi».
«Io non dimentico cosa è il regime siriano - ha proseguito il giornalista - quali sono stati i suoi metodi, cioè bombardare la popolazione e uccidere migliaia di persone, però prima di intervenire per l'uno o l'altro è necessario riflettere e a lungo».


Bentornato Domenico.

lunedì 9 settembre 2013

Gesti eclatanti

Poco fa, su Blob (dal titolo Lo Stato del Dritto), ho visto uno stralcio in differita dello streaming in diretta dei deputati del movimento cinque stelle saliti sul tetto di Montecitorio, in cui due deputati uomini hanno dichiarato, entrambi a turno, con fierezza, che stavano facendo un gesto eclatante, quel gesto eclatante, per difendere l'articolo 138 della Costituzione.
Ecco, volevo solo avvisare che se coloro che compiono un gesto eclatante, sentono allo stesso tempo l'urgenza di dichiararlo, l'eclatanza [dal fréclatant, part. pres. di éclater, propr. «scoppiare, schiattare], più che a un grande scoppio, assomiglia a un piccolo peto silenzioso.
- E se puzzava?
- Non importa: tanto erano all'aria aperta.

domenica 8 settembre 2013

Collage economici

Parte prima


A volte, spiegare con una battuta qualcosa è come fare un buco in terra: puoi trovare gas, è vero, ma è più probabile della merda.
***
Parte seconda




Ripeto: sto leggendo, piano, Marx. E quanto più lo leggo, tanto più ritengo che la sua scoperta dei meccanismi che regolano l'economia capitalista sia insuperata e insuperabile. Dunque, attualissima. Ciò nonostante, si fa finta che Marx sia passato di moda, sia un pensatore dell'Ottocento che non ha più niente da dirci, che anzi, bisogno ignorare per il fallimento del Socialismo reale
Secondo me - parere da marxista dilettante [*] - è come se oggi la biologia si privasse delle scoperte di Darwin. 
Per quanto attiene ai “ritagli” sopra riportati: a me sembra che da essi emergano in maniera lampante tutte le contraddizioni insite al sistema economico capitalista, il cui scopo principale, la cui ragione sociale è, non scordiamolo, la produzione di plusvalore che può trovare luogo soltanto nello sfruttamento del lavoro umano, ossia nell'acquisto della merce forza-lavoro alle migliori condizioni che il mercato (mondiale) offre. Io sono ancora agli inizi (Libro Primo, Capitolo 13, Macchine e grande industria), tuttavia mi sembra che non ci voglia tanto a capire che, con questo andazzo, tutte le merci prodotte con questo sistema non troveranno più acquirenti nel mondo occidentale (Italia in primis), perché essi, gli acquirenti, saranno disoccupati. Qualcuno dirà: venderanno le loro merci in Cina e in Romania. Ok, ma con quali margini? Esempio: se i cinesi e chi produce in Cina dovessero vendere le loro merci solo per il loro mercati interno, col cazzo che farebbero tali margini di guadagno. I capitalisti sarebbero costretti a trovare paesi dove la forza-lavoro costa meno ancora che in Romania, in Cina, in Vietnam. Ma dove? Marte, purtroppo, è disabitato. Tout se tient.


Non c'è niente da fare, è inevitabile: col capitalismo, alla ricchezza degli uni (pochi) corrisponderà sempre la povertà degli altri (la moltitudine) finché, a un certo punto, inesorabilmente, tutto ciò imploderà.
Certo, i magazzini dei capitalisti sono belli pieni e protetti e ci vorranno anni prima che le loro floride panze restino a secco. Nondimeno, la creazione della ricchezza, senza lo sfruttamento della forza-lavoro, presto o tardi, non sarà possibile. E i padroni scenderanno dall'albero. Tutto dipende se troveranno dei moa o dei leoni.


Intanto, a Cernobbio, parlano di economia. Bella donna, la Lagarde: pensierino granny?

[*]
Se volete un'interprete di Marx comme il faut, lo sapete, dove leggere Olympe de Gouges.

sabato 7 settembre 2013

Risposte da studente

Piccola premessa: sono un anticatalogatore indefesso; non riesco a collezionare niente, a ordinare, a protocollare; per fogli, certificati, ricevute da conservare sono una frana; ogni agenda che comincio segnando cose (appuntamenti, impegni di lavoro), dopo un pochino, la lascio confondersi nella polvere.

Anche per i libri, che conservo nei piani degli scaffali a parete della mia modesta biblioteca, non ho proceduto a un ordine specifico: essi sono un po' così, alla rinfusa. Certo, ho posizionato in evidenza quei pottoni degli Adelphi, i supercoralli einaudiani, qualche sparuto meridiano e altri con cofanetto; tuttavia, il resto dei libri, dopo un primo tentativo di ordinare per argomento, ha trovato un'allocazione che non rispetta un canone preciso, se non quello della costrizione fisica determinata dal formato e dall'altezza del volume da inserire nei vari ripiani.

Tale premessa per dire che anche per quanto riguarda i brani che frequentemente uso come materia prima dei miei post, non ho un catalogo apposito, ordinato per temi, da usare alla bisogna.
Di solito estraggo brani o citazioni da libri che sto leggendo, oppure prendo a caso qua e là dalla mia piccola biblioteca o da altre, pubbliche, nelle quali mi muovo sovente a naso e a caso.
E svelo un minimo arcano: non sempre, ma molte volte, tra quanto leggo e quanto esperisco noto una corrispondenza, oppure un aiuto alla comprensione e/o alla interpretazione della realtà.

Bene, tutto questo pippone per dire che oggi, mentre leggevo il Faust di Goethe e mentre pensavo a come rispondere alle domande di quel “vecchio consevatore” di Prezzolini – domande che mi ha regalato, con una preziosa dedica, quel gran genio di Luigi – mi sono imbattuto nel dialogo tra Mefistofele e uno scolaro matricola (tradotto nell'edizione Einaudi con Matricolino), ossia un giovane potenziale alunno di Faust che vuole iscriversi alla sua scuola proprio dopo che il maestro ha stretto il patto con Mefistofele. Bene, Faust, non sentendosi in grado di riceverlo, affida a Mefistofele la faccenda. Abbiate pazienza: ma prima di leggere il seguente dialogo, leggete per favore le domande di Prezzolini.






Letto? È una forzatura ritenere che se a Prezzolini, nel formulare le domande, fosse tornato alla mente Mefistofele che si finge Faust (il prof. Faust), egli, anziché mettersi nei panni di un professore di filosofia si sarebbe messo nei panni del diavolo?

***

Benché abbia più l'età da professore (non lo sono) che da studente, fuori dis-corso provo a rispondere a Prezzolini, seguendo l'elenco delle sue domande:
1.La prima risposta è facile: copio e incollo quanto Luigi  ha riportato di Perelman e commentato nel suo (attualmente) penultimo post.
2. Il «richiamo alla realtà della vita»: aldilà della formulazione filosofica bergsoniana, penso che esso sia avvertito da ogni umano cosciente di vivere. Ma la vita è dentro un tempo, ha una durata e l'intensità della partecipazione alla vita, la produzione di “vissutezze” non dev'essere tale da impedire il ricordo e la riflessione sulla vita stessa, perché è mediante il ricordo e la riflessione, ovvero nelle distese di tempo in cui “sembra” di non vivere, che i vissuti partecipati vengono percepiti, ancor più, come tali.
3. L'universo è composto di caso e necessità, perlomeno quella parte di universo che finora gli umani sono stati in grado di conoscere. Per riprendere Mefistofele: «Il Tutto è buono solo per un Dio!». Dunque, se Dio non esiste (più), non esiste neanche il Tutto.
4. Lo specchietto sociale che dovrebbe adottare lo Stato? Questo attuale della democrazia liberale è perfetto per catturare noi allodole votanti che esprimono, una volta ogni tanto, il loro potere.
5. Risposte secche multiple all'ultima domanda (che ne contiene tre): a) Alla ragione; b) può darsi riescono meglio, ma finora non sono mai riuscito ad affidarmi a qualcosa che cozzava contro la ragione; c) dovrebbero andare insieme sempre coraggio e intelligenza, dato che il primo senza la seconda è spesso stupidità, e la seconda senza il primo è freddo calcolo.