giovedì 26 dicembre 2013

L'aquila è un rapace


«Alle radici della crisi v’è la stagnazione dell’accumulazione del capitale in America e in Europa, una situazione evidente già negli anni Settanta del secolo scorso. Al fine di superare la stagnazione, i governi delle due sponde dell’Atlantico hanno favorito in ogni modo lo sviluppo senza limite delle attività finanziarie, compendiantesi nella produzione di denaro fittizio.»

Devo ancora leggere l'ultimo libro di Luciano Gallino, Il colpo di Stato di banche e governi, ma questo mi sembra un ottimo spunto per comprendere i motivi delle tendenziose ricerche che il Centro Studi della Confindustria commissiona, in particolare l'ultima pubblicata sulla necessità di porre fine, definitivamente, al capitalismo di Stato.

Confindustria ha tutte le ragioni sul lato dello sperpero di denaro pubblico ai fini di mantenimento «del consenso politico attraverso l'elargizione dei posti di lavoro», e dell'inefficienza strutturale che ne consegue. Ma quando scrive che per lo Stato «sarebbe prioritario dismettere gli enti o comunque azzerare i costi per le pubbliche amministrazioni di quegli organismi che non producono servizi di interesse generale» mi viene da pensare, malignamente, che le dismissioni statali sono diventate una priorità perché il capitalismo privato deve trovare una via alternativa ove investire gli stagnanti capitali accumulati. Perché i capitali ci sono, come testimonia, sempre dal Sole, Marco Fortis.
Gli italiani (soprattutto i capitalisti) hanno il diritto dovere di ricominciare a spendere (investire) in cose concrete (mica in quei cazzo di derivati, anche se poi le perdite le ha ripagate lo Stato, anzi: gli Stati): qual miglior cosa è comprare e diventare padroni di cose che, in teoria (molto in teoria) dovrebbero appartenere a tutti?

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