lunedì 31 marzo 2014

Cambia mente

Magari saranno argomentate anche ragioni pertinenti che tuttavia mi guardo bene da ascoltare perché, personalmente, non amo entrare «nel cuore del giornale», casomai nel 

Volgare.
Vulgata vuole che il cambiamento sia un'«arma per battere il populismo». 
E quando, con il cambiamento, sarà sconfitto il populismo, cosa accadrà nel Belpaese e, altresì, in Europa? 
Si scriveranno editoriali più tranquilli e pacati, analisi più distese e confortanti per dire ai lettori oh, quant'è bello lo status quo.
Insomma, ci si arma di cambiamento perché nulla cambi.
E il povero populismo stramazzato al suolo?
Araba fenice.

Calze a retaggio

Per esempio, uno piglia un articolo come quello di Slavoj Zizek pubblicato in traduzione ieri da la Repubblica (il rimpicciolimento è un omaggio al cambio grafico alla cazzodigeorgia che, a me, ha peggiorato di molto la lettura), e dice: - A chierico, ma che cazzo stai a di'?
Il filosofo e psicoanalista sloveno rimbrodola un pippone europeista senza specificare, anche brevemente, con chiarezza, cosa voglia dire con: «l'Europa dovrebbe prima trasformare se stessa a tornare a dichiarare il proprio impegno per l'essenza emancipatrice del suo retaggio».
Dopo aprile viene maggio, le elezioni europee.

L'Europa ha un retaggio? Van Rompuy (Rumpoi) indossa un paio di calze a retaggio autoreggenti, sotto il vestito d'ordinanza.

E poi, per finire:
«Per dirla in maniera cruda, se il Nuovo ordine mondiale emergente è il destino non negoziabile per tutti noi, allora l'Europa è perduta: e dunque, l'unica soluzione per l'Europa è assumersi il rischio e rompere l'incantesimo del nostro destino. Solo in questa nuova Europa l'Ucraina potrebbe trovare il suo posto. Non sono gli ucraini che devono imparare dall'Europa: è l'Europa che deve imparare a far proprio il sogno che ha animato i manifestanti di Maidan».
Per dirla in maniera cotta: nel rispetto di tutti i morti caduti in piazza Maidan, sembra appurato che il sogno di molti (non di tutti, ok) manifestanti, sia di stampo neonazista. E quindi?
È a fine mandato, ma il messaggio subliminale psicoanalitico di stampo lacaniano può arrivare lo stesso al prossimo presidente dell'Unione Europea che sostituirtà Barroso, il quale, in caso di defenestrazione alla Yanukovic provocata da future manifestazioni maidan® nelle piazze d'Europa, potrà legittimamente auspicare che la Russia annetta un'altra  penisola, della UE però. Non vedrei male l'Italia per lo scopo, anche perché Putin saprebbe già chi fare Governatore Supremo, nevvero?

domenica 30 marzo 2014

L'uccello

RiccoESpietato (la e commerciale mi provoca dei casini col linguaggio html), in delle annotazioni di ampio respiro metaletterario ove addirittura mi linka (e io lo rilinko per iniziare una sorta di partita a ping-pong di due, tre, quattro scambi e poi palla in rete o fuori tavolo), parla di alcune cose che mi hanno fatto chiedere:
È più facile scrivere-pubblicare un libro e diventare famosi o diventare famosi e scrivere-pubblicare un libro?
La seconda che hai detto.
Bravo.
Grazie.

Comunque l'editoria coltiva ancora proficuamente l'idea dello scrittore famoso che una tantum pubblica il libro dell'anno, del lustro, del decennio, del secolo.
Voce fuori campo:
Ho visto più navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, che capolavori pubblicati negli ultimi trent'anni.
Abbiamo avuto il romanziere srilankese, il saggista dell'Alaska, il poeta anglo-argentino delle Falkland-Malvinas che in un alessandrino ha celebrato «il culo di burro della donna di ferro».

Fa' il serio.
Dove?
A Orio al Serio

Il problema della selezione delle opere pubblicate verte principalmente sull'assenza di una vera critica che stabilisca i canoni del pubblicabile aldilà del marketing.
Oggidì, se non raramente, i libri non sono più recensiti, bensì annunciati, come tutto il resto delle merci in fondo, per esempio le auto che si portano al salone e si premiano; infatti, tutti gli anni viene eletta un'auto dell'anno. Bene, lo sapete che anche la Fiat Ritmo e la Fiat Bravo sono state auto dell'anno? 

Questo è un altro paio di maniche.
Cambia paio.
Mutande?

C'è uno scrittore, Donna Tartt - che sarebbe una scrittrice, ma volgere al femminile tal professione pare, per i più, uno sminuire - che ha pubblicato un libro capolavoro (mai un manolavoro, un piedelavoro, un culolavoro, eccetera), intitolato Il cardellino.
Addolorato?
Quello era Il cardillo, citrullo.
Allora se per questo Il mare non bagna Napoli.
Mangia la tartina.
O leggilo e falla finita di criticare i mattoni prima di averli letti.
Sì, ma il titolo contiene tutta una serie di significati: per esempio, a me stimola il titolo a un prossimo mio romanzo nel cassetto.
Quale?
...
Ce l'hai nel cassetto?
Mutatis mutandis.

sabato 29 marzo 2014

La libertà ha un costo

«La necessità di un mercato estero per un paese capitalistico non è affatto determinata dalle leggi della realizzazione del prodotto sociale (e in particolare del plusvalore), ma, in primo luogo, dal fatto che il capitalismo altro non è che il risultato di una circolazione di merci largamente sviluppata, che si estende oltre le frontiere dello Stato. È quindi impossibile figurarsi una nazione capitalistica senza commercio estero. Una simile nazione, del resto, non esiste nemmeno».

V.I. Lenin, Lo sviluppo del capitalismo (1898?), Editori Riuniti, Roma 1972 (traduzione di A. Carpitella).

Dal punto di vista della bilancia commerciale, quante forme di Parmigiano Reggiano pareggeranno (notate l'elegante allitterazione) il costo di novanta (o settanta) cacciabombardieri F35?
Americà, avete voglia a grattà.

Le tette di Artemisia

Artemisia Gentileschi, Autoritratto come suonatrice di liuto1616-18, oil on canvas, Wadsworth Atheneum Museum of Art, Charles H. Schwartz Endowment Fund
E, altresì, la clavicola, il collo, la spalla che riluce, il rossore dello zigomo, l'impercettibile peluria che separa la pelle dal cuoio capelluto; e poi: l'avambraccio potente e la finezza del polso, il dorso affusolato della mano che trova gli accordi con dita sinuose ed eleganti che contrastano con quelle che, arpeggiando, appaiono sofferenti di un principio di artrosi. Infine quello sguardo che sfida lo sguardo di coloro, gli uomini, che per un attimo vagheggiano sostituirsi al liuto per essere suonati, uno sguardo che mormora: «Non essere sicuro che il mio tocco avrebbe la stessa cura su di te, legno storto che non sei altro».

Yes, he can…say bullshit


«L'oscurità non si dirada, anzi si fa più fitta al pensiero di quanto poco riusciamo a trattenere, di quante cose cadano incessantemente nell'oblio con ogni vita cancellata, di come il mondo si svuoti per così dire da solo, dal momento che le storie, legate a innumerevoli luoghi e oggetti di per sé incapaci di ricordo, non vengono udite, annotate o raccontate ad altri da nessuno». 
W.G Sebald, Austerlitz, Adelphi, Milano 2002, pag. 31 (traduzione di Ada Vigliani).

Che il mondo si svuoti è indubbio: il problema restano i pieni, i troppi pieni, coloro che impongono alla memoria - e quindi alla mente - certe verità, con tutto quello che ne consegue.
Tratteniamo poco dei fatti e degli eventi, non solo dei nostri, ma anche quelli pubblici, quelli che accadono davanti ai nostri occhi, spettatori che osservano il farsi della storia. E se siamo chiamati in causa come testimoni oculari, quasi mai raccontiamo il vero, tendiamo a distorcere, a levigare, a togliere, a rimodellare, come scultori che cercano di dare una forma diversa al proprio vissuto che difficilmente corrisponde a quanto è davvero successo.
Tuttavia la menzogna, quando resta relegata alla nostra privatezza, come per raccontarci una storia diversa che assomiglia a una sorta di giustificazione che ci auto assolve dalle nostre miserie, non va a ledere l'accaduto, ossia i fatti salienti della storia umana che hanno determinato il suo percorso storico. Il guaio è quando la menzogna esce dai suoi confini privati e coinvolge il pubblico, il quale non ha motivo di dubitare della fabulazione di colui che racconta i fatti, in fondo è una persona autorevole, anzi la più autorevolmente potente del pianeta.
Eppure, anche dietro l'autorevolezza del ricordante, si possono celare le peggiori stronzate.

giovedì 27 marzo 2014

Dormiveglia

Che porcomondo essere condannato all'eclettismo, non avere una mania che mi possieda tutto, un pensiero fisso che mi tenga in catene. 
E invece niente, sempre a girellare su millefiori per ricavarne che, polline forse, miele magari, parecchio svolazzio senza costrutto, comunque determinato dalla regina sussistenza.

L'attenzione e la cura rivolte alle pulsioni e alle divagazioni fa da contraltare alla disattenzione e all'incuria verso i doveri e le aspettative - e l'essere che traballa e traccheggia, illudendosi che il tempo sprecato non sia tale e che ne esista una riserva inesauribile, è un essere che mente sapendo di mentire.
Non so è vero, ci penserò su. Sonno lampo, sognerò d'invadere la Polonia (anzi, no: l'Ucraina).

Fuori tema.
Un dubbio m'attanaglia: dopo la Jaguar da 400 cavalli, saranno messi all'asta su ebay anche quei cacciabombardieri che saranno “pensionati” dagli F35?

Vederla è una meraviglia

L'ho detto più d'una volta a Claudel:
«Ciò che mi trattiene non è il libero pensiero, è il Vangelo.»
«Ti trattiene da che?»
«Eh, di entrare nella Chiesa, perbacco! I cattolici non conoscono il Vangelo. E non solamente non lo conoscono, ma non sanno di non conoscerlo; credono in buona fede di conoscerlo; epperò continuano a ignorarlo.»
«È un grande errore del protestantesimo», mi diceva Ghéon, in un zelo di neofita, «di voler limitare la rivelazione al solo Vangelo, di non capire che Dio seguita ad essere in relazione diretta con l'umanità che lo ascolta. La parola di Dio non è accantonata nel Vangelo, e Dio continua a esplicarsi, e si esprime nell'ultima enciclica del papa non meno che mediante le parole del Cristo; e la Chiesa non cessa di essere divinamente ispirata. Vedere un'opposizione tra questo e quel messaggio, prova che non si è capito né l'uno né l'altro», dice lui.
La Chiesa è la detentrice del Vangelo. Essa sola è in grado di decidere intorno al senso che hanno le parole del Cristo. Essa si riserva e s'arroga il diritto d'interpretare, e dichiarare eretico ogni uomo che ascolti Dio direttamente


André Gide, Diario 1914-1927, Bompiani, Milano 1950, pag. 321 (traduzione di Renato Arienta).

Dio oggi è stato in relazione diretta prima coi ministri e i parlamentari, poi col presidente americano: chissà se avrà incassato abbastanza, a parte i semi dell'orto di Michelle Obama.

mercoledì 26 marzo 2014

A me la mano non scappa


Poco prima delle 18, su Radio Tre, è stato presentato il romanzo Tutto quello che è la vita, di James Salter, pubblicato da Guanda. Per l'occasione sono stati intervistati Antonio Scurati e Irene Bignardi.

«Io comprendo benissimo il fastidio, il dispetto e la distanza che possono provare le lettrici nei confronti delle scene di sesso perché sono effettivamente narrate da un punto di vista smaccatamente maschile o addirittura maschilista e sono dei momenti in cui l'eleganza e l'equilibrio stilistico [del romanzo] viene meno. Quando Salter racconta le scene di sesso del proprio alter ego c'è una visione maschile in qualche modo fantasmagorica in cui il maschio domina in maniera così, ehm, scoppiettante ed esaltante la femmina; ed è l'unico momento in cui l'autore si richiama all'epica delle origini, in cui Salter perde la propria eleganza, il proprio stile, in cui insomma gli scappa la mano». Antonio Scurati

«Io avrei voglia, quando leggo queste cose, [certe situazioni erotiche che mi sono sembrate fuori registro con il resto della storia], d'incontrare questi signori e guardarli in faccia e dirgli: ma veramente voi raccontate queste cose e ci credete che le reazioni femminili sono quelle? Io mi irrito profondamente, anche perché forse le donne non hanno ancora appreso la loro parte di questo discorso di questo gioco, non si sono assunte la fabulazione che gli uomini invece hanno assunto da un sacco di tempo.» Irene Bignardi.

Non ci avevo mai pensato prima, e non lo dico ora per fare come Rito, il pavone scapolo che corteggia, alternativamente, la porta finestra di casa mia e il paraurti della mia macchina, alla vana ricerca di costruirsi un harem ("I òmen e i pollon hinn i pussee cojon"): ma io, ecco, mi pare che alterlucas – almeno mi sembra, se ricordo velocemente, così a volo d'uccello, anzi: di pavone – non abbia mai assunto una posizione «smaccatamente maschile», nonostante i numerosi cazzi e altro tipo di linguaggio colorito.
E questo, credo, per due motivi: uno di carattere socio-culturale: per es. dubito, se fossi un emiro del Qatar, di pensarla allo stesso modo (dunque ho avuto culo; ma lasciamo perdere); l'altro perché se dovessi forzarmi a scrivere scene di sesso, il mio protagonista tutto sarebbe fuorché scoppiettante, anzi proprio il contrario.
Ché forse dovrei iniziare a usare l'inchiostro blu?

martedì 25 marzo 2014

Tentativi e tentazioni

US President Barack Obama shakes hands with Rijksmuseum director Wim Pijbes (R) in front of Rembrandt's "The Night Watch" during a visit to the museum in Amsterdam on March 24, 2014 ahead of the Nuclear Security Summit (NSS). Photo: Erik Smits.
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Fiacca bloggheristica.
Assecondala. Lascia la pagina bianca.
Impossibile: è già sporca.
Eppure i fatti, i fatti che ti conducono a un'espressione, sono frusti, o meglio: ti sembrano frusti.
È il disincanto, come se trovassi inutile dire qualcosa perché questo qualcosa non funziona.
In quale senso, funzionare, e per chi? Per i lettori?
Macché: chi passa di qui non lo fa per informarsi di certo, né per sapere quale opinione ho di Obama o di Putin.
O di Federica Mogherini.
All'Aja hanno parlato di sicurezza nucleare.
Tra i tanti fattori che, sinora, hanno dissuaso una guerra atomica su vasta scala, v'è sicuramente il fatto che da essa non scaturiscono, all'evidenza, nuovi mercati.
Il capitalismo e il deserto vanno poco d'accordo.
Eppure il deserto è un luogo e di preghiera e di tentazioni.
Alludi a Gesù.
Alludo.
Gesù, pregando, ha resistito con la preghiera alle tentazioni.
Io forse solo non pregando ci riesco.
Non di solo pane vive l'uomo.
Anche di pelo.
Mi sono sforbiciato i riccioli pubici per questo.
E li hai gettati al vento.
Dove sarà pianto e stridore di denti?
No, dove saranno riso e piccoli godimenti.
Sicuro?
È un provarci, che vuoi: tentativi (ed errori) sono cosa diversa dalle tentazioni.
E chi adorerai?
L'istante e i lineamenti incerti dei sorrisi benevolenti.
E se Della Valle ti conducesse in cima a un monte... anzi no: a un Del Monte e ti dicesse: «Guarda, questo paio di mocassini saranno tuoi se, prostrandoti, adorerai i miei braccialetti e il mio ascot», come risponderesti?
Vattene, Diego: sta scritto: “Fatti una pompa da solo per scoprire se lo hai all'altezza, l'Ego”.

lunedì 24 marzo 2014

Giornalismo daltonico

- Se tanto mi dà tanto, il cuore del giornale è di colore nero.
- Chissà il culo.
- Magenta o giallo?
- Misteri.
- Certo che aggiungere ultra come suffisso spaventa sempre, nevvero?
- Tranne che per i detersivi.
- Chissà se quello che usa la colf di Ezio Mauro per fare il bucato, lava più bianco.
- O più nero.
- Non ci capisco più un cazzo.
- Non capiscono più un cazzo.
- E se alle europee vincesse il M5S l'allarme di quale colore sarà?
- Allarme merda.
- Per un po', forse, giusto il tempo di riprendersi dall'annullamento dei finanziamenti pubblici all'editoria, poi passa, anche i grillini sono animali domestici.
- Che pena.
- Che lepena.

domenica 23 marzo 2014

La domenica andavamo in via Fani o a Place de la Concorde

Non sarà possibile, forse, verificarlo sino in fondo, ma ammettiamo che dalle ipotesi investigative dell'ispettore Rossi emerga in tutta chiarezza la verità sul caso Moro.
Ammettiamo anche che, dall'incidente aereo che provocò la morte di Enrico Mattei, giù giù sino alle stragi mafiose di Capaci e piazza d'Amelio che uccisero Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, tutti i misteri italiani siano risolti e vadano a formulare una verità storica incontrovertibile sinora sottaciuta per mancanza di prove, ebbene, in tal caso, cosa potrebbe succedere di politicamente rilevante in Italia? 

***
Sfogliando la Repubblica (a scrocco, chez ma maman), ho visto, in un servizio sui cinque figli di Berlusconi, uno schema grafico che riportava cosa tocca dell'impero Mediaset e a chi. Qualcuno mi spieghi la sostanziale differenza che intercorre tra il sistema repubblicano e quello monarchico, e perché Piersilvio dovrebbe starmi più simpatico di Emanuele Filiberto - in altri termini: se si dovesse scegliere a chi tagliare il collo per primo, sarei in imbarazzo, ecco, non saprei, etimologicamentedecidermi (anche se il sangue blu, a vederlo scorrere, conserva un certo fascino, lo ammetto).

***
Per ritornare all'oggettivo fiasco della scorta di Aldo Moro (con tutto il massimo rispetto e gli onori che si devono ai caduti sul lavoro): oggidì un Renzi - come potevamo dire ieri un Letta, ier l'altro un Monti e dopodomani (mi sto toccando) potremo dire di un Berlusconi -, chi cazzo lo rapisce più? Non conviene mica, anche per il livello culturale delle lettere che scriverebbe dal carcere. E poi manca Leonardo Sciascia... non si può, via, sarebbe inutile, ancorché ben più di Moro (Io se fossi Dio, dixit), la sua, le loro facce sono quelle che sono.

***
Ieri sera Veltroni, presentando il suo film su Berlinguer da Fazio, ha ricordato che Aldo Moro fu rapito proprio la mattina in cui si stava recando al Colle per formare la prima alleanza di governo col PCI. Coi se non si fa la Storia ed è velleitario proporli. Nondimeno io sono velleitario e ne propongo uno di se. Se quella mattina le Br avessero fatto cilecca, e Moro avesse potuto realizzare il suo progetto di formare un governo con dei ministri del PCI, l'Italia avrebbe ottenuto un progresso politico, economico e sociale che avrebbe portato lo Stato a dare compimento alle promesse contenute nella Costituzione? In poche parole: l'Italia sarebbe diventato un paese migliore? 
No. 
Sia aperto il dibattito.

***
Aspetto con tremore e timore il giorno in cui Sandro Bondi farà un film su Berlusconi. Mentre su Pannella chi lo potrebbe fare? Quentin Tarantino?

sabato 22 marzo 2014

Per il loro beneficio

«Il funzionamento di un grande quotidiano [...] è di una complessità che quasi sempre sfugge al pubblico. Il cittadino non si rende conto dell'enorme macchina che viene messa in moto a suo beneficio in cambio del suo penny mattutino». Evelyn Waugh, (1938), L'inviato speciale, Bompiani, Milano 2001

Lo dico a mio disdoro: sto contribuendo fortemente alla crisi dell'editoria. 
Da un po' di tempo non compro praticamente più giornali al mattino, l'ultimo è stato il secondo numero del nuovo Pagina99 per vedere com'era fatto (e com'era fatto? Non lo ricomprerò). 
A pensarci bene perdo un cospicuo numero di editoriali, di articoli, di servizi, di commenti, tante pagine di pubblicità. Risparmio almeno 1,20/1,50 euro a mattino che, moltiplicati per 30 fanno 36/50 euro, il prezzo di un pieno di gasolio (sono antiquato, uso combustibile fossile).
Non dovrei giustificarmi o sentirmi minimamente in colpa per questo: infatti non mi giustifico, né mi sento in colpa. I quotidiani mi annoiano, anche se apprezzo il loro destino.
Certo, mi perdo una grande quantità di informazione e di produzione intellettuale tout court che quotidianamente viene messa in commercio e distribuita tramite edicola (mai preso in considerazione comprarli al supermercato, i giornali). Parimenti non mi faccio mancare quel che passa il convento della rete, che è tanta roba, perlopiù gratuita o, al limite, per esempio riguardo agli articoli di fondo, raggiungibile l'indomani nelle versioni online dei quotidiani stessi.

Alla base di questa mia rinuncia all'acquisto e alla lettura costante dei quotidiani ci sta quanto sopra citato in esergo: da cittadino, mi rendo conto sì «dell'enorme macchina che viene messa in moto» in cambio del mio euro e tanti; e tuttavia, ravviso, giammai questo avviene per il mio beneficio, non ora, non più.

Avvolti da tende rosse

Note sparse su Beppe Grillo intervistato da Enrico Mentana.

Dice B.G. che in tv ci va raramente, specialmente non va nei talk show perché sono trasmissioni in cui non riesce a esprimere un concetto: perché stasera lo ha espresso?
Il debito pubblico è immorale, non va pagato: d'accordissimo. E.M. gli ha anche chiesto: e i creditori? B.G. ha risposto citando gli sprechi dell'Expò di Milano e della Tav, opere per cui vengono utilizzati i soldi provenienti dal debito. E. M. non ha chiesto: se nessuno comprasse più il debito pubblico, come si finanzierebbe lo Stato, cioè potrebbe sopravvivere lo Stato? B.G. ha detto che, debito a parte, l'Italia ha il saldo della bilancia commerciale in attivo. E.M. non ha chiesto: e questo basterebbe a tenere in piedi la baracca? Lo domando io, perché vorrei esprimere questo concetto: se un parlamento e un governo di moralisti stracciassero i titoli di credito sovrano, anche distinguendo quelli in possesso a mani italiane rispetto a quelli posseduti da titolari stranieri, in modo tale che il debito pubblico diventi la metà di quello attuale o, poniamo per miracolo, addirittura zero, bene: l'Italia potrà permettersi poi di sostenere le spese dello Stato - reddito minimo garantito compreso - ricorrendo soltanto alle entrate fiscali? 
Mi sarebbe piaciuto che B.G. avesse espresso qui il suo concetto, lo bello.

Inoltre e concludo: B.G. ha dichiarato che lui non dice cose a caso ma che si consulta con esperti in ogni settore, dall'architettura all'ingegneria, dall'ecologia all'antropologia, dall'agricoltura alla finanza. Bene, mi chiedo se qualcuno di loro, per caso, gli ha spiegato la vera natura del capitalismo.

Update

Non vorrei che chi passa di qui perdesse quanto la cara Olympe de Gouges mi ha scritto a commento. Qualcosa, a mio avviso, d'illuminante. Voilà:

«Ma la vuoi smettere di essere razionale e conseguente? E poi quei richiami al capitalismo, suvvia, sei vecchio. Hai mai sentito Grillo pronunciare la parola "capitalismo"? Parla sempre di "sistema", è indeterminato e astratto già in premessa, come puoi pretendere che lo sia in analisi e nelle conclusioni?

Sollevano delle questioni, individuano delle contraddizioni, ma sempre dal lato del fenomeno, della realtà esterna, non indagano mai le cause se non nelle loro determinazioni più superficiali. Succede con l'euro, succede con gli inceneritori e tutto il resto. Il mondo è dominato da uomini cattivi e corrotti, è sufficiente mettere gli uomini giusti nei posti giusti, gli "esperti" e gente "preparata", due mandati, essere onesti intellettualmente, non rubare, e il "mondo", ossia il "sistema", non quello reale ma quello costruito nel loro testone, ritornerà al bene.

È il loro un difetto di analisi, un difetto non solo comune, ma ormai universale. non perché non ne siano capaci, ma obbedisce alla loro posizione, non si può spiegare con idee politiche generiche ma con il loro interesse di classe. Il loro pensiero, la loro critica, non può elevarsi al di sopra del loro orizzonte borghese, alla loro posizione sociale.

Essi vogliono rivedere i trattati europei, come se la questione fondamentale non fosse dapprima d'ordine politico ed economico, di rapporti di forza, ma semplicemente giuridica.

Insomma non vogliono mettere in mora il sistema, lo vogliono su misura, puntano a uno sviluppo armonico delle società capitalista. Non vogliono il fossile perché inquina, vogliono il "rinnovabile", ma cos'è il rinnovabile? Lo vedono, anche questo, solo dal lato positivo, come vedono il fossile solo dal lato negativo. Solo le cose dal lato della mera determinazione "tecnica", non già dal lato del loro sviluppo storico e politico, dei rapporti.
Vogliono cambiare il "sistema", ossia ottimizzare il capitalismo con le "regole". Poveretti, e poveri noi comunque.»

venerdì 21 marzo 2014

Giornata mondiale della poesia

Paul Delvaux, Propositions diurnes (La femme au miroir)
Dialogo, anch'esso diurno, 
[ABBA]

- Me lo fai un pompino
senza “p”?

- Sì,
òmino.


giovedì 20 marzo 2014

Una cosina

Come ho goduto tra la veglia e il sonno
      questa  mattina!
Uomo ero ancora, ed ero la marina
      libera e infinita.

Con le calme dorate e gli orizzonti
      lontani il mare.
Nel fondo ove non occhio può arrivare,
      e non può lo scandaglio,

una pietruzza per me, una cosina
      da nulla aveva.
Per lei sola fremeva ed arrideva
      l'azzurra immensità.

Umberto Saba, da L'amorosa spina, Antologia del Canzoniere, Einaudi, Torino 1963.

Un rifugio come un altro

Periodo in cui dovrei riuscire. 
Donde uscisti?
Più rientrare, se è per quello.
Non ami lo star fuori?
Sono fuori, di me.
Il tuo te non lo possiedi?
Si possiede di sé solo parvenza, più che altro le ombre.
Eppure ci sono sicuri di sé che muovono bocca e mani all'unisono e che parlano avendo chiaro quello che intendono dire.
È quella chiarezza che mi preoccupa.
A chi ti riferisci.
È un discorso pubblico.
Tu stai male?
Dipende dal male, ma ora bene bene non sto, fo come l'oracolo di Delfi: non dico né nascondo: accenno.
E chi si prenderà la briga di decifrarti.
Non posso preoccuparmi né augurarmi la decifrazione, io dispiego una parte d'essere che non può dire più di tanto perché si è sempre attenuta a questa semplice regola: parlare, occuparmi di cose che mi piace vivere e pensare, non di cose cui sono costretto a vivere (e pensare). 
Deviazioni inopportune, perché la necessità ripresenta sempre il conto.
E io non pago.
E non sei pago.
Sono spompo, con ambizioni da psicopompo.
Chi vorresti traghettare e dove?
Dove è nell'aldiqua, chi è me, un'anima a salve.
Raddrizzati l'anima storta
Dovrei riscaldarla, come si fa col ferro battuto sull'incudine.
Villa Martelli. Oggi ho visto sfilare una schiera di preti con abito talare lungo lungo e nero nero, con una sfilza di bottoni, il collarino bianco, il cappello nero a larga falda, perlopiù giovani, percorrere il marciapiede che porta alla stazione, saranno stati una cinquantina, forse più, in fila per tre, col resto di che cazzo ne so, non li ho contati di preciso.
Cosa c'entra.
Loro hanno l'anima e la schiena dritta, e lo sguardo curvo, aldiqua della siepe.
Appunto. Io aldilà - è una speranza. E poi, le schiere: mi intimoriscono, mi portano istintivamente a toccarmi le palle, unica notazione positiva.
Un rifugio come un altro.
Dal quale non fuggire.


mercoledì 19 marzo 2014

Festa del babbo



A parte che non sono papà ma babbo, devo dire che disegna proprio bene la mia Emma.

( Sarà un caso che, ogni tanto, scherzosamente, prima facesse tale copia, l'ho chiamata Mirì?)

martedì 18 marzo 2014

Camminare attraverso se stessi

A volte, penso - e questo pensiero mi pare di averlo già pensato - dovrei provare ad assumere una faccia da portavoce berlusconiano, poi penso a un Capezzone o a questo nuovo Toti e mi prende uno sconforto esistenziale enorme, ma di misura minore a quello che mi prende se penso che ci sono già delle truppe pronte a fare i portavoce renziani, gente che sta sottomettendo le sinapsi alla riproduzione dello scilinguagnolo arrotondato del neo-presidente del consiglio, il bella fica.

Farei meglio non pensare, mi sa. Piuttosto che pensare ai parametri del grado di insoddisfazione esistenziale, farei meglio fuggirne, buttare indietro le ubbie, perché farsi tirare giù dai piombi delle rotture di coglioni mi sembra avvilente, dunque calma, uno scrollone, un risciacquo, una sudatella a fin di bene, il tenimento del sé che è il primo indicatore del riappropriarsi, il primo avere. Nella fattispecie, io - per prima cosa - in sere meditabonde come questa, mi metto le mani sul culo, un gluteo per mano e via, porta fortuna.
«Se Socrate esce di casa oggi troverà il sapiente seduto sulla sua soglia. Se Giuda esce stasera i suoi passi lo porteranno verso Giuda. Ogni vita è una moltitudine di giorni, un giorno dopo l'altro. Noi camminiamo attraverso noi stessi, incontrando ladroni, spettri, giganti, vecchi, giovani, mogli, vedove, fratelli adulterini. Ma sempre incontrando noi stessi. Il drammaturgo che ha scritto l'in-folio di questo mondo e l'ha scritto male (ci dette prima la luce e il sole due giorni dopo), il signore delle cose quali esse sono che i più romani tra i cattolici chiamano dio boia*, è senza dubbio tutto intero in noi tutti, palafreniere e beccaio, e sarebbe anche ruffiano e becco se non fosse che nell'economia del cielo, predetta da Amleto, non ci sono più matrimoni, poiché l'uomo glorificato, angiolo androgino, è sposa di se stesso».
James Joyce, Ulisse, traduzione di Giulio De Angelis, Meridiani Mondadori, [*dio boia = in italiano nel testo]

lunedì 17 marzo 2014

Gravità sociale zero

Tra poco insegneranno e imporranno nuove modalità per essere flessibili, disponibili, pronti per servire i datori di lavoro - ossia coloro che il lavoro lo danno...

Ma cosa cazzo danno, cosa, lo prendono, hai capito, il lavoro, ovvero lo cercano (sul mercato) e lo comprano come qualsiasi altra merce - e questo è il danno, dacché è chiaro che i compratori (i prenditori) cercano da sempre di pagare il meno possibile la merce lavoro, perché è dal capitale variabile, rappresentato dalla forza lavoro, che essi estraggono il plusvalore.

Sii ottimista: la maggiore flessibilità consentirà di aumentare la produttività, così che le nostre imprese saranno più competitive per il mercato globale - e aumenterà il Pil e quindi le entrate nelle casse dello Stato. Vedrai, sarà lo Stato stesso a garantire coperture agli scoperti, a far in modo che la flessibilità non conduca alla disperazione, disponendo una nuova gestione degli ammortizzatori sociali che attutiranno i colpi di chi cadrà col culo in terra a contratto non rinnovato.

Ammortizzami questa fava, figlio di puttana. 

Così va bene?



In un certo senso. Ma dimmi: cosa intendi con ciò? Che i nuovi ammortizzatori sociali saranno tali da gravare meno sui conti dello Stato? O forse intendi che saranno forniti a tutti i senza lavoro dei palloni gonfiabili per staccare l'ombra da terra?

domenica 16 marzo 2014

Diciotto anni fa

N.Y. marzo 1996
Quel perticone smilzo con un Borsalino in testa, occhiali tondi e scuri, i capelli lunghi, il loden tirolese, i Levi's chiari e i mocassini dell'aeronautica che gli aveva regalato un bis cugino tenente di stanza a Bracciano - mocassini che si erano macchiati dal sale gettato sulle strade (e i marciapiedi) dalla municipalità newyorchese dopo un'abbondante nevicata marzolina, e che mi feci poi pulire da un lustrascarpe proprio sotto le Twin Tower - beh, ero io.

Il futuro romanziere.

No, il romanzo è morto: al mattatoio gli hanno sparato e poi l'hanno dissanguato, eviscerato, appeso a testa in giù e sezionato.

Ma se stamani avevi detto.

Dire romanzo per me equivale a dire blog. A tirarla in lunga e in larga questa storia di tenerlo, il blog, secondo varie modalità narrative.

Ti tiri sempre indietro davanti alle tue responsabilità, altroché.

Ma no. Vedi, in quella vacanza di due settimane ospitati, “io e Annie”, da un caro amico, andai pure alla Columbia University dove erano installati, per ogni androne, delle postazioni di accesso ad internet, dalle quali potevo anche scrivere mail, a me stesso, dato che conoscevo solo io che aveva l'e-mail. Bene, fu lì che mi venne in mente di scrivere un ante-post, in attesa nascessero i blog.

Ma quando nacquero, ti tenesti alla larga.

Era un periodo in cui decrescevo felicemente, molto prima di Latouche.

Poi ti toccasti le palle e capisti che la felicità è più legata alla crescita.

Crescita d'amore, di John Donne (tradotto da Cristina Campo) prima strofa:


Credo appena il mio amore così puro

come l’avevo pensato
se, come l’erba, dura 
vicissitudine e stagione.
Dunque tutto l’inverno mentii, quando giuravo
il mio amore infinito, se cresce a primavera.


C'è una formula matematica per stabilire se una vita è degna di essere vissuta? Esistono parametri dentro i quali si può rispondere sì e altri no? Pensavo al Formamentis e al suo tragico, al suo spavento, alla sua tribolazione e mi chiedevo, per esempio, se io e lui, in due letti distanti, seminudi, affidati a sapienti mani orientali che ci massaggiano un po' dove capita, potessimo trovare una sintesi a due diversi punti di vista.

White Russian Galaxy

Domenica:
con una Simca
blu prussia
sono andato a Simferopoli
a votare sì
alla Russia
arruffapopoli.

Prima, colui che ha iniziato a scrivere un romanzo, ha twittato i suddetti versucoli. Si sappia, tuttavia, che il romanziere che si occupa di politica internazionale non è credibile.

Io non mi occupo, mi preoccupo, mi prende una sorta di magone ad assistere a certune cose, e così cerco di stabilire un contatto tra la mia periferia esistenziale e il centro dell'attenzione mediatica, di carattere politico.

Che anima gentile e pia. Sembri uno che non aspetta altro che diventare famoso per andare a fare il tuttologo in tv, sai quei salotti con ospiti seduti su poltrone e il conduttore più o meno in piedi o più o meno a sedere anche lui. Dalla cronaca al costume, dalla politica allo spettacolo, dalla cultura all'economia, dappertutto, salvo che per lo sport (anche il tutto ha un limite), a dire la tua opinione, attesa come quella di un oracolo.

Tu sai come mortificarmi, come seppellire quello che resta della mia volontà di scrivere. Fai bene, e tuttavia ti sfido: più che alla fama, aspiro alla fame, intesa come appetito continuo di attenzione alle faccende che mi circondano, per addentare bocconi di storia, masticarli bene, cioè a lungo, inghiottirli e, si spera, digerirli, assimilarli, farli diventare propria carne e, il resto, il sovrappiù, via, espulsione più o meno rapida per le vie rettali.

Sei patetico: usi similitudini spurie, dovute sicuramente alla banale realtà delle tue funzioni organiche. Caghi spesso, vero? Quante volte, figliolo? Ti netti bene il didietro?

Non mi abbasso al tuo livello, quindi mi elevo. La mia intenzione di scrivere non sottostà alle tue bassezze, deve osare, così entro nel merito della questione su cui intendevo esprimere un parere.

Sono tutto orecchie, disse un elefante a una farfalla.

Oggi, su Repubblica è stato pubblicato, in traduzione italiana, un articolo di Thomas L. Friedman del quale condivido solo il titolo: Non fate qualcosa. State fermi. Il resto no, soprattutto questo passaggio mi ha fatto drizzare tutti i peli pubici:
«La più importante linea divisoria nella geopolitica del mondo odierno è “fra quei Paesi che vogliono che il loro Stato sia potente e quei Paesi che vogliono che il loro Stato sia prospero”, sostiene Michael Mandelbaum, professore di politica estera all'università John Hopkins» 
Infatti gli USA, non volendo che il loro Stato sia potente, hanno l'esercito più potente del mondo. 

Vedi, caro romanziere: se tu sapessi l'inglese a un certo livello potresti fare domanda alla John Hopkins e spararle te simili cazzate. Altro che Publish or Perish. Agli ammericani digli che sono prosperi (soprattutto quelli con le tette rifatte) e vedrai come ti coccolano.

Già, ma io e l'America... te lo spiego dopo.

Faux feuilleton

Ho deciso d'iniziare a scrivere un romanzo. 
Dove. 
Qui. 
Perché.
L'assenza di punti esclamativi nell'interrogante non frenerà le mie ambizioni.
Ne hai.
Ne ho soltanto di inconfessabili, per il momento.
E quindi approfitti della finzione per estrarle dalla tua coscienza e dal tuo inconscio.
Ascolta: il romanzo è mio, ancora non è iniziato e tu mi deframmenti le palle con tutte ’ste domande che mi fanno perdere il filo, se solo l'avessi avuto, il filo. Avevo una volontà, meglio: un proponimento: scrivere un romanzo a puntate, qui, nel mio spazio d'azione e reazione alle cause perse del mondo, un fogliettone, come si conviene a colui il quale non ha ancora un'idea ben definita su cosa andrà a scrivere nel suo romanzo di in-formazione.
Senti, un consiglio: sia la prima e l'ultima la lineetta spezza parole di stampo heideggeriano e giù a cascata, nel rimpozzamento della filosofia post-moderna, che utilizzi.
Convengo, anche se non lo faccio per posa, ma perché mi sembra necessario sia colta la pluralità di senso che fornisce una medesima parola.
Suvvia, comincia.
Non spingere, non pressarmi, ho detto che scriverò un romanzo ma ancora mi manca il soggetto, l'azione, il fine e la causa efficiente.
Mena il can per l'aia: mettiti al centro, diventa imperatore del tuo spazio, comanda, ordina, imponi un ordine e una successione, godi a tuo piacimento di ogni millimetro di vita che si consuma.
Sei uno stress, sappilo. Averti addosso m'impedisce una seria analisi della situazione, un esame approfondito mediante il quale dar cominciamento al tutto. M'inibisci all'incipit. Mi fai temere che, se parto, subito vengo, eiaculazione romanzesca, uno sputo, pochi milligrammi di piacere e finita lì, una sciacquata e via.
Millimetri, milligrammi: sei sulla buona strada, le misure sono tutto, soprattutto quelle piccole, dalle quali tutto ebbe inizio, anche tu, organismo pluricellulare che non sei altro.
Scrivendo, acquisto senso, mi dispongo, mi sfaccio, mi destituisco e impressiono, mi sprigiono: una sorta di imitatio del Grande Inizio, da alcuni legittimamente chiamato the Big Bullshit.
Sappi che, così facendo, ti precludi le simpatie di Vito Mancuso, il teologante.
M'importa sega. Senso o non senso, io scrivo per ottenere un manufatto, pur se etereo e impalpabile, come questa sequenza di parole in formato elettronico: io digito e saltano fuori le concrezioni di un pensiero indomito.
Ti piacerebbe.
Mi piacerebbe e piacque fin dal primo momento in cui m'accorsi che, con esse, potevo incantar le allodole.
E succhiare tette - è indubbio: non hai ancora smaltito il trauma dello svezzamento.
Lasciami in pace, va' a fare un giro, fuori c'è un sole velato, vedrai: camminerai benissimo, temperatura ideale, pochi pollini, quindi eviterai persino di starnutire. Va' e lasciami solo qualche momento. Fammi raccontare una storia.

Space Race, BBC, via Giavasan

sabato 15 marzo 2014

Assorbiti dal mero occuparsi


«L'individuo si muove in un sistema formato di attrezzature e apparecchiature, che egli stesso ha determinato e dai quali viene determinato, ma già da un pezzo ha perduto coscienza del fatto che questo mondo è creazione umana. Il preoccuparsi pervade tutta la vita. Il lavoro è stato diviso in migliaia di operazioni indipendenti e ogni operazione ha il proprio operatore, il proprio organo esecutivo, tanto nella produzione quanto nelle relative operazioni burocratiche. Il manipolatore non ha davanti agli occhi l'opera intera. L'intero si manifesta al manipolatore come qualcosa di già fatto; la genesi esiste per lui soltanto nei particolari, che per se stessi sono irrazionali.
Il preoccuparsi è la prassi nel suo aspetto fenomenico alienato, che ormai non allude alla genesi del mondo umano (il mondo degli uomini, della cultura umana e dell'umanizzazione della natura), bensì esprime la prassi delle operazioni giornaliere, in cui l'uomo è impiegato nel sistema delle “cose” già pronte, cioè delle attrezzature. In questo sistema di attrezzature l'uomo stesso diventa oggetto di manipolazione. La prassi di manipolazione (travaglio) cambia gli uomini in manipolatori e oggetti della manipolazione.
Il preoccuparsi è manipolazione (con le cose e con gli uomini), in cui le azioni si ripetono ogni giorno, sono già da un pezzo diventate un'abitudine, e pertanto vengono eseguite meccanicamente. Il carattere cosificato della prassi, espresso dal temine preoccuparsi, significa che nella manipolazione non si tratta più dell'opera che viene creata, ma del fatto che l'uomo viene assorbito dal mero occuparsi e “non pensa” all'opera. L'occuparsi è il comportamento pratico dell'uomo nel mondo che è già fatto e dato; è trattamento e manipolazione delle apparecchiature nel mondo, ma non è creazione del mondo umano. L'abbagliante successo della filosofia che ci ha dato una descrizione del mondo della cura e del darsi cura [riferimento ad Heidegger] deriva dal fatto che un tale mondo costituisce il piano universale superficiale della realtà del ventesimo secolo. Questo mondo non si manifesta all'uomo come realtà da lui creata, ma come un mondo già fatto e impenetrabile, all'interno del quale la manipolazione si presenta come impegno e attività. Il singolo maneggia il telefono, l'automobile, l'interruttore elettrico come qualcosa di ordinario e indiscutibile. Soltanto un guasto gli rivela che egli esiste in un mondo di apparecchiature che funzionano e che costituiscono un sistema internamente collegato, le cui parti si richiamano scambievolmente. Il guasto dimostra che l'apparecchiatura non è una cosa singola, ma una pluralità; che il ricevitore è privo di valore senza il microfono, e così il microfono senza i fili, i fili senza la corrente elettrica, la corrente elettrica senza la centrale elettrica, la centrale elettrica senza il carbone (materie prime) e le macchine. Il martello o la falce non sono attrezzature (apparecchiature). La distruzione di un martello è cosa perfettamente semplice, che anche un solo uomo può eseguire. Il martello non è un'apparecchiatura, ma solo un arnese: esso non rimanda ad un sistema di apparati come al presupposto del suo funzionamento, ma rimanda ad un cerchio di produttori il più stretto possibile. Nel mondo patriarcale della pialla, del martello, della sega, non è possibile cogliere la problematica delle attrezzature e degli apparati, che è creazione del moderno mondo capitalistico del ventesimo secolo.»


Karel Kosìk, Dialettica del concreto, Bompiani, Milano 1965, traduzione dal ceco di Gianlorenzo Pacini, pag. 78-80

Rimettere mano a questo mondo, non limitarsi ad aggiustarlo. L'aggiustamento o la riparazione prevede che vi sia stato un mondo che funzionava (e quando mai? quando c'erano le pensioni baby per tutti?). Quello che mi preoccupa è che, aldilà dei visionari vaneggiamenti casaleggioleschi da decrescita felice e/o rintanamento nel proprio guscio clanico, non vi sia un serio dibattito politico e filosofico sul fatto che questo cazzo di mondo, più che riformato, vada ribaltato, scosso, che cadano tutti i centesimi dalle tasche di coloro che hanno assorbito, succhiato il fare e la fatica umani senza altro obiettivo reale al di fuori dell'accumulazione e del possesso - con qualche vessillo nazionalistico o religioso a fare da supporto.
Il mondo non è - almeno: non dovrebbe essere - del capitale, né delle nazioni che lo fanno operare, il capitale, credendo di asservirlo ai lor principi costituenti. 

- Bravo.
- Grazie.
- Ti meriti l'Eliseo.
- Mi accontento di un bagno turco.

venerdì 14 marzo 2014

Un tale rimorso

Reaz.

I figli dei ricchi
hanno un tale rimorso
che noi figli dei poveri
siamo fuori concorso.


Giancarlo Majorino, Autoantologia (1953-1999), Garzanti, Milano 1999

giovedì 13 marzo 2014

Selfie

Non doveva succedere, anche se ero preparata, anche se lo sapevo, cioè: me lo immaginavo da tempo, in fondo, ho sempre sperato che tu restassi, e invece sei voluto partire, andartene, provare a rifarti una vita altrove, con un'altra compagna che non ami, tra l'altro, almeno a quello che tu mi hai detto e, nonostante tutto, ti ho creduto sincero. Hai ceduto alle lusinghe di qualcuna che ti ama più di me, questo è sicuro. Ti comprendo ma, allo stesso tempo, ti biasimo, perché tu sai benissimo che, così facendo, coltiverai la tristezza e la disperazione in qualcun altro. Ma inutile tornare sui soliti discorsi, è tardi, devo andare a lavorare, mica posso prendere un giorno di ferie perché tu te ne vai, cosa dico al capoufficio: «Sa, mio marito stamani si è alzato con la valigia pronta, pronto per andare via dalla mia vita». No, non lo butto via un giorno di ferie per questa stronzata, va' pure, facciamo finta che tu parta per il lavoro, ti concedo questo intero giorno per ripensarci e poi stop, cambio la serratura, abbandono del tetto coniugale, non ci sono cazzi, la casa resta a me.

E così Paola esce di casa per andare a lavorare in perfetto orario. Mezzo chilometro di passi, la stazione, il treno che arriva, si ferma, lei sale e si accomoda seduta vicino alla porta d'uscita del vagone, in uno spazio in cui ci sono soltanto due posti a sedere, e l'altro è vuoto, ci mette subito la borsa e il cappotto per fare in modo, per quanto possibile, di restare sola.
Il treno parte, Paola non pensa a niente, limitandosi a guardare con più attenzione il paesaggio solito fuori dal finestrino.
Alla stazione successiva, il treno si riempie di gente. Paola prova a resistere, tenendo la sua roba sul sedile di fronte, ma per poco: senza tanti scrupoli, una ragazza le chiede se il posto è libero e lei non può far altro che rispondere di sì, meglio lei che quel bel signore che seguiva, non avrebbe avuto voglia di rispondere ai sorrisi che di solito gli uomini le fanno, sempre, essendo Paola una bella donna dallo sguardo accogliente e non respingente, con la quale viene spontaneo per un uomo conversare.
La ragazza davanti a lei è bella, truccata eccentricamente e abbondantemente, labbra color magenta, una profonda scollatura che mette in evidenza un fresco e sostanzioso seno, i capelli tirati indietro allo spasimo e fermati da una coda di cavallo tenuta al centro della volta occipitale. In più, come se non bastasse, la ragazza indossa una mini gonna con delle calze a rete, rotte nei punti giusti, proprio in quelli dove fuoriesce il rosa fucsia dei petali di un tatuaggio floreale.
Per un attimo, Paola pensa se, in quarant'anni, si è mai vestita una volta così, non tanto per qualche ballo in maschera ai tempi dell'università, né per Carnevale – quello lo ha fatto anche lei, mascherarsi, e fu anche divertente – bensì per andare al lavoro o a fare la spesa.
No, la risposta è no. Ma pazienza. Non è un rimpianto questo, non mi fa né caldo né freddo se qualcuno si veste in modo provocante, forse è una divisa specifica e sta andando al lavoro anche lei, chissà – non certo a una festa in maschera, Carnevale è finito, è un mercoledì mattina di fine inverno, il sole è pallido, e l'unico spettacolo che si preannuncia non sarà qui, in questo tratto di ferrovia, ma a Palazzo Chigi nel pomeriggio.

Il treno riprende la sua corsa e Paola, nonostante non sia granché invogliata, estrae dalla borsa il suo e-reader per provare a leggere qualcosa. Ma invano, non tanto perché presa dai pensieri del marito che sta per andarsene, quanto perché la ragazza di fronte inizia ad autofotografarsi col suo smartphone, per ogni scatto assumendo una posa diversa, facendo compiere alle labbra mille smorfie, tutte apparentemente seducenti, e gli occhi poi: da gatta, da cerbiatta, da iena, da vampira, da leonessa, da colomba, da pitonessa, da cagna – tutta la fauna al completo, insomma.
Paola guarda divertita, senza farlo trasparire, forse solo il suo sguardo rivela la sua ironica commiserazione. Il bello è che non può fare diversamente, dato che la ragazza continua il suo gioco come fosse su un set e Paola stessa l'aiuto regista costretta a guardare le sue prove.
Il climax del selfie arriva quando la ragazza estrae dalla sua borsa Braccialini una banana: la sbuccia giusto sino a metà ed inizia il suo blow-job, prima passando la lingua sulla punta e sull'asta del frutto, poi inserendo la metà nella sua bocca – il magenta delle labbra si fonde sul bianco della banana mentre lei, flan flan flan, si fotografa a ripetizione.
Paola zitta, soltanto uno sguardo ancora più divertito e leggermente più fisso su di lei. La ragazza, allora, forse per dimostrarsi più emancipata e sicura di sé, si rivolge a lei in modo strafottente, dicendole:

- Fa invidia, eh?
E Paola:
- No. Fa tristezza.

La ragazza morde la banana e ripone il telefono. Paola rituffa lo sguardo là, fuori del finestrino, verso qualcosa in più del niente.

mercoledì 12 marzo 2014

Quel Paese

«Se fallisco sulla fine del bicameralismo, lascio la politica»
Matteo Renzi, addì mercoledì 12 marzo 2014

«Tutti esprimevano forte la loro disapprovazione, tutti ripetevano la frase detta da qualcuno: “Ci manca solo il circo coi leoni”, e l'orrore era sentito da tutti; così che, quando [Renzi]* cadde e [l'Italia]** mandò un gemito forte, in questo non c'era nulla di straordinario. Ma subito dopo nel volto [dell'Italia]** avvenne un mutamento che era già affatto sconveniente. Ella s'era del tutto perduta. Cominciò a dibattersi come un uccello che sia stato preso: ora voleva alzarsi e andare in qualche posto»¹...

… ma c'era rimasto solo un posto dove andare per l'Italia e non era l'Europa, no.

¹ Lev Tolstoj, Anna Karénina, Parte Prima, Cap. XXIX, edizione BUR, traduzione di Leone Ginzburg.
*Vrònskij
**Anna

Precisazione

Cosa intendevo ieri con Figli di Eichmann:

«Per favore, Klaus Eichmann, si soffermi un attimo su questo. Poiché ora ci troviamo veramente di fronte ad una delle radici del “mostruoso”. L'inadeguatezza del nostro sentire non è un semplice difetto fra i tanti; non è neppure soltanto peggiore del fallimento della nostra immaginazione o della nostra percezione; essa è invece addirittura peggiore delle peggiori cose che sono già accadute; e con questo voglio dire che essa è persino peggiore dei sei milioni. Perché?
Perché è questo fallimento che rende possibile la ripetizione di queste terribilissime cose; ciò che facilità il loro accrescersi; ciò che probabilmente rende addirittura inevitabili questa ripetizione e questo aumento. Infatti ad incepparsi non sono solo i sentimenti di orrore, della stima o della compassione, bensì anche il sentimento della responsabilità. Per quanto possa sembrare infernale, anche per quest'ultimo valgono le medesime cose che valevano per l'immaginazione e la percezione: esso si fa tanto più debole quanto più aumenta l'effetto a cui miriamo o che abbiamo già raggiunto; diventa cioè uguale a zero. E questo significa che il nostro meccanismo d'inibizione s'arresta del tutto non appena si sia superato una certa grandezza massima. E poiché vige questa regole infernale, ora il “mostruoso” ha via libera.»
Günther Anders, Noi figli di Eichmann, Giuntina, Firenze 1995 (traduzione A.G. Saluzzi).

Ecco, sia pure in sedicesimo di millesimo, anche per il PD e per chi ancora ci crede, è stata superata una certa grandezza massima per la quale ogni meccanismo d'inibizione si è arrestato. In una parola: essi, i piddìni, hanno dato vita e stanno dando vita al mostruoso. 

martedì 11 marzo 2014

Testa di cavolo

via
Allora, ricapitolando, anche se non serve a niente ricapitolare, se non a mantenere un certo ordine mentale, che, personalmente, vivo come un contrappasso.

Nell'autunno 2012 (se era autunno, non ho voglia di controllare), ho partecipato alle primarie di coalizione per eleggere il candidato premier del centrosinistra. Al primo turno ho votato Puppato, al secondo Renzi perché volevo, in qualche modo, dati i due euro, dare un segnale alla vecchia classe dirigente del PD. Ma vinse, da pronostico, Bersani.
Nel febbraio 2013, alle elezioni politiche, abbastanza convinto, votai PD, contribuendo quindi, nella misura del mio voto, ovvero nell'esercizio impotente della mia parte di sovranità popolare, ad eleggere deputati e senatori del mio collegio (chissà chi erano di preciso, potrei fare una ricerca... c'erano liste bloccate, non si potevano dare preferenze, dunque poteva esserci chiunque, persino Rosa Quota).
Da allora, dalla non-vittoria di Bersani, è trascorso un intero anno con, nel mezzo, i seguenti accadimenti
a) il tentativo, fallito, di fare un'alleanza inedita col M5S;
b) la vittoria di Pirro dei presidenti delle Camere, Grasso e Boldrini;
c) la figura di merda fatta con Prodi, l'ostinato rifiuto di eleggere Rodotà, la miserabile rielezione di Napolitano;
d) l'accordo con Berlusconi e la nascita del governo Letta;
e) l'uscita dal governo di Berlusconi e sua decadenza da senatore;
f) la Corte Costituzionale dichiara incostituzionale la legge elettorale che ha eletto il presente Parlamento;
g) le primarie del PD per eleggere il segretario, vinte da Renzi.
h) l'intesa extraparlamentare per le riforme (elettorale e costituzionale) tra Renzi e Berlusconi;
i) la scelta del PD di far cadere il governo Letta e di far “nascere” il governo Renzi;

Questo è, in sintesi, con alcune omissioni, quanto politicamente è accaduto in Italia, con il Partito Democratico protagonista. Il partito che ho votato. Il partito che non voterò più – e non vedo l'ora di poterlo fare alle prossime elezioni (non votando tout court, probabilmente). Mi piace ricordarlo, anche se è una magra consolazione, che non ripaga, certo, il voto che gli diedi, sperando chissà che. Ecco: in quel chissà tutto pensavo fuorché quello che è accaduto e ciò che sta accadendo. E se ho rimesso in fila quanto sopra riportato è per non dimenticare la moderata convinzione che mi portò a tracciare una X sul simbolo del PD, cosa che, nel mio piccolo, mi fa sentire una sorta di piccolo figlio di Eichmann, una maniera come un'altra per non dirmi quanto sono stato figlio di puttana.

Cioè la violenza

Stamani, Olympe de Gouges ha riassunto la trama del Dottor Stranamore e io, mentre leggevo, oltre a pensare, naturalmente pensare, a tutto l'ammasso di ordigni atomici che sono ancora in giro (qualcuno ancora in Italia?), m'è tornato in mente Clausewitz, Della guerra:

«Non daremo della guerra una grave definizione scientifica: ci atterremo alla sua forma elementare: il combattimento singolare, il duello.
La guerra non è che un duello su vasta scala. La moltitudine di duelli particolari di cui si compone, considerata nel suo insieme, può rappresentarsi con l'azione di due lottatori. Ciascuno di essi vuole, a mezzo della propria forza fisica, costringere l'avversario a piegarsi alla propria volontà: suo scopo immediato è di abbatterlo e, con ciò, rendergli impossibile ogni ulteriore resistenza.
La guerra è dunque un atto di forza che ha per iscopo di costringere l'avversario a sottomettersi alla nostra volontà». […]
«Le più violente passioni possono accendersi anche fra i popoli più civili [… ] Confermiamo dunque: “La guerra è un atto di forza, all'impiego del quale non esistono limiti: i belligeranti si impongono legge mutualmente: ne risulta un'azione reciproca che logicamente deve condurre all'estremo”. […]
«La guerra di comunità […] nasce sempre da una situazione politica e vien provocata solo da uno scopo politico: costituisce dunque un atto politico. Se essa fosse una manifestazione completa, indisturbata, assoluta di forza, quale dovremmo dedurla dalla pura astrazione, allora, dall'istante in cui la politica le ha dato vita, si sostituirebbe ad essa come alcunché di assolutamente indipendente, la eliminerebbe, non seguendo più che le proprie intrinseche leggi, come la esplosione di una mina non è più suscettibile di essere guidata dopo che si è appiccato il fuoco alla miccia. È in tal modo che finora si è concepita la cosa, quando una disarmonia fra politica e condotta di guerra ha fatto pensare a distinzioni teoriche del genere. Tuttavia, non è così; anzi, questa concezione è radicalmente falsa. Nel mondo della realtà la guerra non è […] una cosa così assoluta che la sua tensione si risolva in una sola decisione […] ma non perciò lo scopo politico assume il carattere di un legislatore dispotico: deve adattarsi alla natura del mezzo, donde risulta che sovente esso si modifichi profondamente; ma è pur sempre l'elemento da tenersi soprattutto in considerazione.
Così, la politica si estrinseca attraverso tutto l'atto della guerra, esercitando su questa un influsso continuo, per quanto è consentito dalla natura, delle forze che nella guerra si manifestano». […]
«Quanto più grandi e forti sono i motivi della guerra, quanto più essi coinvolgono l'intera esistenza dei popoli, quanto più violenta è la tensione che precede la guerra, tanto più la guerra si avvicina alla sua forma astratta, tanto più si tratta di abbattere il nemico, tanto più vengono a coincidere l'obiettivo militare e lo scopo politico, tanto più puramente guerriera e meno politica sembra essere la guerra. Ma quanto più deboli sono i motivi e le tensioni, tanto meno la direzione naturale dell'elemento guerresco, cioè la violenza, collima con la linea data dalla politica, tanto più la guerra si allontana di necessità dalla sua direzione naturale, tanto più divergente è lo scopo politico dall'obiettivo di una guerra ideale, tanto più la guerra sembra diventare politica» […]
«La guerra non solo rassomiglia al camaleonte perché cambia di natura in ogni caso concreto, ma si presenta inoltre nel suo aspetto generale, sotto il rapporto delle tendenze che regnano in essa, come uno strano triedo composto:
  1. della violenza originale del suo elemento, l'odio e l'inimicizia, da considerarsi come un cieco istinto;
  2. del giuoco delle probabilità e del caso, che le imprimono il carattere di una libera attività dell'anima;
  3. della sua natura subordinata di strumento politico, ciò che la riconduce alla pura e semplice ragione.
La prima di queste tre facce corrisponde più specialmente al popolo, la seconda al condottiero ed al suo esercito, la terza al governo. Le passioni che nella guerra saranno messe in giuoco debbono già esistere nelle nazioni; l'ampiezza che acquista l'elemento del coraggio e del talento nel campo della probabilità e del caso dipende dalle qualità del condottiero dell'esercito; gli scopi politici, per contro, riguardano esclusivamente il governo […]

La soluzione del problema esige dunque che la teoria graviti costantemente fra queste tre tendenze, come fra tre centri di attrazione».

Tali brani l'ho ripresi da René Girard, Portando Clausewitz all'estremo (Adelphi, Milano 2008).
Da tal volume estraggo anche:
Domanda: L'idea che Clausewitz si fa dell'azione reciproca (Wechselwirkung), cioè del commercio tra gli uomini inteso sia come commercio mercantile sia come relazione bellica, implic[a] la percezione del duello come struttura nascosta di tutti i fenomeni sociali?  
René Girard: Penso di sì. Solamente questa intuizione teorica è in grado di percepire l'indifferenziazione, che si può descrivere in modi diversi: simultaneità nell'azione, tendenza all'estremo nell'alternanza di vittorie e sconfitte, reciprocità nel cuore dello scambio. L'attenzione teorica di Clausewitz per la guerra gli permette di concepire il duello come un'astrazione concreta, un'idea realizzabile. Il duello è questa simultaneità, questo faccia a faccia: in potenza, quando l'azione militare è differita o “discontinua”; in atto, quando l'azione militare è “continua” e tende all'estremo. L'impiego del Wechselwirkung, e delle sue due accezioni di “azione reciproca” e di “commercio”, consente inoltre di comprendere perché Clausewitz stabilisca un'equivalenza tra la guerra e lo scambio monetario, e perché non faccia una vera distinzione tra le due attività. A questo riguardo, è già prefigurata in lui una formidabile profezia di Marx: il commercio non sarebbe una metafora della guerra, ma riguarderebbe la stessa realtà.»

Ecco, per concludere, scusandomi delle mie scarse, anzi assenti considerazioni: spero che il ministro Mogherini abbia Clausewitz sul comodino.