mercoledì 2 luglio 2014

La cerimonia del disfacimento

Una strada di Roma. Un signore con il suo clarinetto intona Rapsodia in blu. È bravissimo, ma nessuno si ferma ad ascoltare. Allora posa lo strumento nella custodia, sale coi piedi sopra di essa e inizia a parlare, e, nel volgere di poco tempo, la strada si riempie di gente che ascolta quanto segue:

Fammi fingere, fammi fingere ancora. Per il tuo bene, visto che ti piace ch'io finga quello che tu, a torto, interpretavi come mia condizione permanente, il carattere immutabile di un menefreghista che tiene le parole tutte dentro e le riserva soltanto per il pubblico pagante e le elemosine.
Faccio pena, non lo vedi, faccio pena io a suonare in quest'angolo di mondo, cappello in terra e nessuno che mi dedichi un sorriso e quell'euro buttato lì dal quel coglione glielo tirerei in faccia tanto mi fa incazzare che non abbia capito che io non ho fame, non ho fame ho solo bisogno di dire con estrema calma le cose come stanno.
Escono note, versi, ritratti e alcuni dicono che sono un bravo artista, ma tu non puoi saperlo, tu hai sempre girato il collo da un'altra parte, tu non mi hai mai capito, ti sei rifiutata di farlo accontentandoti di quello che non sono, di quello che a poco a poco non sono riuscito più a rappresentare, quel ruolo che tu pretendevi e che – altrettanto a poco a poco – mi sono tolto di dosso perché non mi appartiene.
Per carità, anch'io non mi sottraggo a una tua legittima critica equivalente, anzi la pretendo perché sono consapevole dei miei limiti (sono tanti), dei miei nascondimenti, delle fughe verticali per verificare se davvero il silenzio tra noi fosse davvero minore del silenzio dello spazio.
Il disamore ha presentato il conto: è l'ora di alzarsi, pagare, cantare forse:

Si migliora a tutt'andare. Conviene
abituarsi. Sembra che la vita
si sia trasformata in un'infinita
coniugazione del verbo star bene,

che si muoia, ecco, a furia di guarire
da tutto, mal di testa, mal di gola
malinconia – le fidate, le sole
certezze d'un tempo, o d'un avvenire

d'altri tempi... Ma no, niente paura,
anche senza far male i denti cadono,
la memoria perde i colpi, la prostata
s'ipertrofizza, la vista s'oscura:

si celebra al netto d'ogni lamento
la cerimonia del disfacimento.


Giovanni Raboni, Quare tristis, Mondadori 1998

2 commenti:

Massimo ha detto...

Questo post è bellissimo, Luca: anche (direi soprattutto) senza la poesia di Raboni, di cui dopotutto l'unica cosa che ho sempre e solo ammirato sono le coscette della moglie.
In ogni caso bel post, che va dritto al (mio) cuore.

Luca Massaro ha detto...

Grazie di cuore, Massimo.
Ti abbraccio.