mercoledì 2 settembre 2015

Un marchio a fuoco sulla pagina sciatta

Nel suo The Death of Tragedy (1961, 1980), Morte della tragedia (Garzanti, Milano 1992, pag. 271-273, traduzione di Giuliana Scudder), George Steiner scrive:

«Non possiamo esser certi che esista nel linguaggio o nelle forme artistiche una legge per la conservazione dell'energia. Anzi è possibile dimostrare che le riserve del sentimento si possono esaurire e che particolari tipi di consapevolezza intellettuale o psicologica possono incrinarsi o svuotarsi. Le arterie dello spirito tendono a indurirsi come quelle del corpo […] La storia dell'Europa moderna – la deportazione, l'assassinio o la morte in guerra di più di settanta milioni di uomini, donne e bambini tra il 1914 e il 1947 – indica chiaramente che i riflessi attraverso i quali una civiltà modifica le sue abitudini per sopravvivere a un pericolo mortale non sono più così pronti o realistici come un tempo.
Nel linguaggio, questo intorpidimento si scorge, a mio parere, chiaramente. Molte abitudini linguistiche della nostra cultura non sono più reazioni spontanee o creative alla realtà, ma gesti stilizzati, che l'intelletto sa ancora eseguire efficacemente, ma da cui trae intuizioni e sensazioni sempre più povere. Le nostre parole sembrano stanche e consunte. Hanno perduto l'innocenza originale o il potere di rivelazione […] E le parole, affaticate, non sembrano più disposte ad assumersi il peso di un nuovo significato e di una polivalenza che Dante, Montaigne e Shakespeare attribuivano loro. Noi arricchiamo il nostro vocabolario tecnologico mettendo insieme rimasugli usati, come si fa per i sottoprodotti del metallo. Non fondiamo più il materiale grezzo del linguaggio in un nuovo lucido prodotto, come fecero i compilatori della Bibbia di Re Giacomo. La curva dell'invenzione è in discesa. Si paragoni il grigio gergo dell'economista contemporaneo allo stile di Montesquieu. Si accosti la prosa da contabile dello storico contemporaneo a quella di Gibbon, Macaulay o Michelet. Quando lo studioso moderno cita un testo classico, la citazione sembra un marchio a fuoco sulla sua pagina sciatta. Sociologi, esperti delle comunicazioni di massa, sceneggiatori di soap-operas, scrittori di discorsi politici e insegnanti di “scrittura creativa” sono i becchini della parola. Ma le lingue si lasciano seppellire soltanto quando qualcosa dentro di loro è veramente morto.
La politica disumana del nostro tempo, inoltre, ha avvilito e abbrutito il linguaggio al di là di ogni precedente. Le parole sono state adoperate per giustificare frodi politiche, massicci travisamenti della storia e brutalità degli stati totalitari. È probabile che qualcosa della falsità e della crudeltà si sia infiltrata nella loro essenza. Poiché sono state impiegate per fini tanto vili, le parole non emanano più la pienezza del loro significato. E poiché ci assalgono in una moltitudine numerosa e stridente, non le ascoltiamo più con attenzione. Ogni giorno assimilano orrori a sazietà – attraverso il giornale, la televisione o la radio [internet] – e così diventiamo insensibili a nuovi oltraggi. Questa insensibilità ha conseguenze decisive sulle possibilità dello stile tragico.»

A noi la tragedia ci fa una pippa. Quer cecato d'Edipo fosse qui, come minimo, prenderebbe una bastonata sul groppone, così capirebbe finalmente che risolvere gli enigmi della Sfinge non serve a un cazzo. Quattro, due, tre: quante che siano le zampe, servono tutte per finire in posizione orizzontale. Fosse una missionaria eterna potremmo anche essere contenti, però uno sopra e uno sotto a turno, sennò ci si indolisce.
La tragedia è morta, la commedia è in sala di rianimazione, quel che resta è uno spettacolo osceno, nel senso carmelobeniano di fuori della scena, spettacolo continuo di umani che si prendono a brani senz'altra mediazione che quella fottuta del denaro, unico Dio rimasto da pregare per accedere al diritto d'esistenza.
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1 commento:

Olympe de Gouges ha detto...

bel pezzo quello di S.
non ci fossi tu a leggere e a scovare per noi ...