giovedì 8 dicembre 2016

Il messo (5)

La seconda a presentarsi fu Juliana, una trentenne originaria del Brasile, divenuta italiana dopo il matrimonio e ancora formalmente coniugata (anche se non vedeva il marito da più di un anno).
Aveva appena diciott'anni quando arrivò in Italia, ospite di una cugina di età maggiore, in Italia per aver sposato un vedovo, zio del suo futuro sposo. Dieci anni di faticosa vita coniugale con uno spiantato alla ricerca di una professione stabile e redditizia: due figli, tre traslochi in tre città diverse, più un anno intero trascorso a casa dei suoceri perché non avevano altro modo per tirare avanti. Ma lei aveva resistito, mai si era persa d'animo perché era profondamente innamorata di suo marito. Stava bene, nonostante i freddi invernali a cui non era abituata, e il fatto – secondario anche rispetto al clima – di non avere vicino la madre (madre che si era risposata e aveva avuto altri figli dopo la morte del padre di Juliana).
Poi tutto le crollò addosso, anche la fatica. Lui aveva abbandonato il tetto coniugale per andarsene – le aveva detto – «in cerca di me stesso». E lei: «Per cercare te stesso, brutto stronzo, mi lasci sola con due figli da badare e senza un quattrino per andare avanti?» Niente da fare: egli raccolse a mala pena un cambio biancheria (manco dovesse andare in paradiso), dette un bacio a piccoli, e disse «addio, addio, spero un giorno mi perdonerete».
«Col cazzo», ripeté più volte Juliana dopo che lui chiuse dietro di sé la porta. E infatti, dopo poche settimane, lei seppe che il marito, più che cercare se stesso, e trovarsi, trovò (Juliana tuttavia non seppe mai quanto cercando) una tedesca venticinquenne, figlia di un dirigente della Miele, la quale, ribellandosi ai progetti paterni, era fuggita in Italia con l'idea di diventare apicultrice – accorgendosi soltanto qualche tempo dopo, che è difficile sfuggire veramente dalla morsa del patriarcato – e lui, dato che tra i mille lavoretti svolti, aveva fatto tre mesi in un'azienda di produzione e confezionamento del miele, si offrì di accompagnarla nel progetto.
Così Juliana era rimasta sola, anzi no: con due figli da crescere, accudire, educare, sostenere. Per i primi tempi, lo zio di lui e la cugina le trovarono un impiego presso una cooperativa di servizi, a pulire locali e uffici pubblici la mattina all'alba (dalle 5 alle 7,30) oppure la sera, dopo il tramonto. La mattina ce la faceva a ritornare in tempo, svegliare i figli e spedirli a scuola. La sera era costretta a chiuderli in casa da soli, almeno sino verso le 22,30, ora del suo ritorno.
A convincerla a partecipare a tale corso fu il prete – ogni tanto andava persino da lui a pulire la canonica. Le volte che lo faceva, incontrava persone sorridenti e dall'aspetto sereno, che la salutavano con garbo e simpatia. Così per quel finesettimana si organizzò chiedendo alla cugina se per una volta una poteva guardare i bambini perché aveva un urgente bisogno di ritornare a sorridere.

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