sabato 30 aprile 2016

Angeli Gabrielli

Ricordanze: due palle e un 1 che girano

Quando si fanno le nomine non c'è mai un'autentica sorpresa, perché i nominati - per non fare figure di merda in caso diniego - sono già stati avvisati per avere conferma di accettazione del nuovo incarico. In altri termini, le nomine non sono mai anonime; non nomineranno mai me o te, caro lettore, benché abbiamo un nome; per avere una qualche possibilità di essere nominato, bisogna avere un nome già speso, comprato, praticato, prostituito, e per farselo, basta avere l'opportunità di entrare - anche dalla porta di servizio - nella Casa dello Stato, ai piani alti, dopodiché le nomine diventano una routine temporale, due anni, due mesi, periodi di tempo proficuo per magari dipoi arrivare al cavalierato del lavoro o alla commendazione e quindi alla pensione con contributi sufficienti per campare degnamente da onorato servitore dello Stato (una gioia per i figli e i nipoti).

Quanti giri nella giostra dei nomi avranno già fatto i nominati? Quanti nuovi uffici avranno rinnovato, toeletta annessa con seggetta personalizzata da ingiallire come una medaglia da decorazione?

Questo vale anche per i cosiddetti dirigenti del parastato, delle partecipate, dalla Rai o Finmeccanica, alle Ferrovie dello Stato (nel mezzo mettiamoci pure Telecom, le Poste, l'Enel, l'Eni, l'Inps e chi cazzo ne ha più ne metta): stilate i nomi, rimescolateli, vedrete che ai party ci saranno sempre le stesse persone, e manco più un Flaiano per annotare vissuti e caratteri umani in questo rimescolio di merda.

giovedì 28 aprile 2016

Anche Donato sta male


Questo signore è indubbiamente un benefattore. Ha donato, credo equamente, il 90% il 10% delle azioni della sua azienda ai dipendenti (secondo i calcoli, che smentiscono il titolo a effetto del Sole24Ore, nella migliore delle ipotesi essi riceveranno all'incirca 250mila dollari, dunque non è vero che saranno «trasformati in milionari»).

Sgombriamo subito dal campo l'ipotesi che tale attitudine sarà diffusamente imitata da omologhi capitalisti (self-made man o ricchi ereditieri del cazzo alla Elkann che siano); e tuttavia, facendo una concessione all'assurdo, è possibile immaginare che sia questa la strada per una drastica e seria ristrutturazione del sistema produttivo vigente, ossia che, attraverso tali forme di distribuzione della ricchezza, anche i lavoratori partecipino al banchetto degli dèi?

No.

Oh, certo. 250mila dollari sono una bella somma e possono veramente essere d'aiuto. Ma per fare che cosa? Finire di pagare il mutuo? Belle vacanze? Offrire studi più qualificati ai figli?

Invece, quanti di loro potranno smettere di lavorare, ovverosia di vendere la loro forza lavoro, magari diventando essi stessi prenditori di lavoro altrui?

Pochi. Chissà, forse a qualcuno potrebbe venire in mente di aprire una yogurteria in franchising.

martedì 26 aprile 2016

Lavoro


Marco Belpoliti, Primo Levi di front e di profilo, Guanda, Parma 2015
Quanto lavoro umano consumato per produrre merce in eccesso, quanto lavoro sprecato per mantere in vita il meccanismo perverso dell'accumulazione. Quanto fare, quanto agire umano inutile, dannoso, anti economico. Un mero scavare di buche per riempirle di acciaio, cemento, gomma o vitamina C.

Ha ragione Olympe de Gouges: le cause reali di tale andazzo sono davanti agli occhi ma la politica, la società si rifiutano di vederle. Perché? Forse perché sono evidenze che pietrificano ogni tipo di azione, compreso il lavoro. Il lavoro non è dedicato a costruire se stessi e il mondo ma, al contrario, nell'organizzazione capitalistica il lavoro è lesivo per l'uomo e il mondo, in quanto è irreggimentato e consumato al fine di produrre plusvalore.

Ora dopo ora, giorno dopo giorno...

Scusa merda

Cosa se ne fa uno che tifa una squadra che vince sempre di tutti quegli scudetti vinti? Se li caccia in?

Sono un ateo sportivo in generale, del dio calcio in particolare. Non dovrei quindi parlarne e infatti non parlo del gioco del calcio. Parlo del concetto di vittoria.
Orbene, dopo la vittoria, se non sei il proprietario della squadra quotata in borsa che ha vinto, se non sei un dirigente, un allenatore, uno dello staff; se non sei un calciatore (o suo familiare) che riceverà un premio in aggiunta al cospicuo stipendio, cosa resta al tifoso gaudente se non la gloria e lo sberleffo nei confronti dei tifosi delle altre squadre adombrati per aver perso?

E questa gloria che cos'è esattamente?
È uno scettro depotenziato conquistato sul campo di battaglia (il torneo) che il vincitore e i suoi sostenitori detengono per un breve lasso tempo e che poi viene rimesso in gioco appena la contesa ricomincia.

Il palmares è un mero computo insignificante, assai poco consolatorio nel momento in cui ricomincia il duello.
Gli sport come il calcio sono dei rituali contenitivi un certo grado di violenza altrimenti scatenata; violenza assorbita appunto nella ripetizione rituale.

Come il corpo di Cristo si reincarna nella ripetizione eucaristica (le ostie già manducate non contano più), così si ripetono gli incontri, le sfide del campionato in un ciclo interminabile.  

Nello sport non esiste mai una vittoria definitiva, così come - per il momento - non è data una reincarnazione divina definitiva: bisogna rinnovare la fede ogni volta che il sacerdote compie il rito eucaristico.

Di diverso, rispetto al rito religioso, il rito sportivo serve a conferire quello che i Greci chiamavano Kydos - e che Benveniste, nel suo Vocabulaire traduce con «talismano di supremazia».

«Coloro che detengono il kydos vedono decuplicata la loro potenza: coloro che ne sono privi hanno le braccia legate e paralizzate. Possiede sempre il kydos colui che ha dato il colpo più forte, il vincitore del momento, colui che fa credere agli altri e può egli stesso immaginarsi che la sua violenza ha definitivamente trionfato. Gli avversari del trionfatore devono fare uno sforzo straordinario per sfuggire alla suggestione e ricuperare il kydos». René Girard, La violenza e il sacro, Adelphi 1980

E io mi chiedo: e se invece di fare questo sforzo, le altre squadre si ritirassero e lasciassero la Juve Merda giocare da sola?

domenica 24 aprile 2016

Nota a margine

Ho letto i primi tre capitoli di Paul Mason, Postcapitalismo, Il Saggiatore 2016, quindi è prematuro osare un giudizio complessivo. Per il momento mi limito a rilevare che è una lettura divertente, perché l'autore si prende molto sul serio lasciando intendere sin dai primi paragrafi ch'egli è uno che la sua lunga e che più avanti ci offrirà una teoria convincente per superare (andare oltre) il capitalismo. Vedremo se riuscirà a far ridere più di Marx. Groucho intendo.

Per capire un po' il tono del libro, riporto una estesa citazione dal terzo capitolo «Aveva ragione Marx?». Parlando di Rosa Luxemburg, Paul Mason scrive:

«Il suo [di R.L.] libro del 1913, L'accumulazione del capitale, aveva un duplice obiettivo: spiegare le motivazioni economiche della rivalità coloniale fra grandi potenze e dimostrare che la sorte del capitalismo era segnata. Contemporaneamente, sviluppò la prima teoria moderna del sottoconsumo.
Rielaborando i calcoli di Marx, Rosa Luxemburg dimostrò, quantomeno a se stessa, che il capitalismo è in un permanente stato di sovrapproduzione, sempre assillato dal problema del troppo limitato potere di spesa dei lavoratori. Per questo era costretto a fondare colonie: non solo come fonti di materie prime, ma anche come mercati. I costi militari sostenuti per conquistare e difendere le colonie presentavano l'ulteriore vantaggio di assorbire i capitali in eccesso. A suo avviso, era più o meno come lo spreco o i consumi di lusso: servivano a far “scolare” il capitale in eccesso.
Dal momento che l'espansione coloniale era l'unica valvola di sfogo in un sistema incline alla crisi, Rosa Luxemburg prevedeva che, una volta colonizzato l'intero pianeta e introdotto il capitalismo in tutto il mondo coloniale, il sistema sarebbe inevitabilmente crollato. Il capitalismo, concludeva, è “la prima forma economica che non può esistere da sola, senza altre forme economiche come suo ambiente e terreno di sviluppo; che perciò, mentre tende a divenire forma economica mondiale, s'infrange contro l'incapacità intrinseca di essere una forma mondiale di produzione”. [...]
Rosa Luxemburg è importante ancora oggi perché ha individuato un elemento fondamentale per il dibattito odierno sul postcapitalismo; l'importanza di un “mondo esterno” per i sistemi in grado di adattarsi con successo.
Se passiamo sopra alla sua ossessione per le colonie e le spesa militare e ci limitiamo a dire che il “capitalismo è un sistema aperto”, arriviamo più vicini a riconoscere la sua natura adattativa di quanti, seguendo le orme di Marx, si sforzavano di rappresentarlo come un sistema chiuso». [pag. 90-91]

Caro Mason, sarai anche una sagoma, ma qui sei stato una gran testadicazzo. Rosa Luxemburg dimostrò quantomeno a se stessa? Ella aveva una ossessione per le colonie e per le spese militari? Ché non c'è anche adesso uno stato di permanente sovrapproduzione? Ché non è pacifico (bellico, anzi) che, a parte rari episodi di effettiva guerra di liberazione e/o resistenza contro l'invasore, la maggior parte delle guerre del Novecento e di questo inizio secolo ha origine dalla volontà di potenza delle nazioni egemoni espressa al fine di aumentare o consolidare, secondo le modalità ammesse dai tempi e dalla circostanze, il proprio dominio?

Basta un istante

«Vorrei che tutto si fermasse in questo istante»: quando dici così sai benissimo che stai mentendo, ché ogni coito, proprio o esistenziale, sarà interrotto, che tutto scorre e il fermo immagine lo si può ottenere soltanto in digitale; il benessere il benestare la benevolenza - in breve: tutto il bene non si può racchiudere nell'attimo, altrimenti diventa prigioniero, diventeresti tu stesso prigioniero di quell'attimo che si è fermato e non lo sapresti giudicare; nell'eterno a poco a poco tutto diventa noia, le palle, grandi palle divine dell'universo in continua espansione, e soltanto nella finitudine può sussistere, seppur brevemente, la cattura del godimento, dello sguardo che si compenetra nello sguardo, del grado di tepore giusto che si produce per l'attrito dei corpi, la mente che va a farfalle e le spilla nel riquadro dei ricordi, due occhi verdi su due ali fermi qui, da qualche parte, in qualche cassetto, aspetta che le ritrovo, non andare, basta un istante.

venerdì 22 aprile 2016

Dorme il servo e il signore veglia


«La bianca aurora aveva appena permesso allo sfolgorante Febo di asciugare, con l'ardore dei suoi raggi, le liquide perle dei suoi capelli d'oro, quando don Chisciotte, scuotendo la pigrizia dalle sue membra, si alzò in piedi e chiamò il suo scudiero Sancho che ancora russava; don Chisciotte, vedendo ciò, prima di svegliarlo disse:
Oh, tu, beato fra tutti quelli che vivono sulla faccia della terra, che senza provare invidia né essere invidiato dormi con spirito sereno, non essendo perseguitato dagli incantatori e spaventato dagli incantesimi! Dormi, ti dico ancora, e ti dirò altre cento volte, senza che la gelosia per la tua dama ti tenga in continua veglia, né che ti desti la preoccupazione di dover pagare i debiti, o quella di dover provvedere da mangiare ogni giorno per te e la tua piccola e afflitta famiglia. Non ti inquieta l'ambizione, non ti affatica l'inutile sfarzo del mondo, giacché i limiti dei tuoi desideri non vanno al di là del pensiero del tuo giumento, anche perché quello della tua persona grava sulle mie spalle, contrappeso e carico che la natura e la pratica hanno imposto ai signori. Dorme il servo e il signore veglia, pensando a come fare per nutrirlo, educarlo e ricompensarlo. L'angoscia di vedere che il cielo diventa di bronzo, senza soccorrere la terra con la necessaria rugiada, non affligge il servo ma il signore, il quale deve sfamare, nell'aridità e nella carestia, chi lo ha servito nella fertilità e nell'abbondanza».

Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancha, Parte seconda, capitolo XX (traduzione di B. Troiano e G. Di Dio, edizioni Newton, Roma 2007)

***

«È uno degli esperimenti più noti della psicologia moderna e fu pubblicato da Martin Seligman sul Journal of Experimental Psychology nel maggio del 1967. Funziona così. Si prende un gruppo di cani e li si divide in due gruppi chiudendoli in box da cui non possono uscire. Ai cani del primo gruppo vengono date delle scosse elettriche, che possono interrompere spingendo una leva. A quelli del secondo gruppo vengono date le stesse scosse, ma non c’è niente che possano fare per interromperle. Poi, nella seconda parte dell’esperimento, i cani vengono trasferiti in box da cui possono uscire evitando così le scosse. I cani del primo gruppo scappano appena capiscono che i tecnici del laboratorio stanno per far partire le scariche, mentre quelli del secondo gruppo non scappano, restano immobili e subiscono passivamente le nuove scosse. Pensano che non ci sia nulla da fare, e sono rassegnati.
L’esperimento è tornato in mente a Jeff Sparrow, giornalista e saggista australiano, a proposito dei Panama papers e delle reazioni in giro per il mondo. Tranne qualche caso isolato, per esempio in Islanda, non ci sono state sollevazioni popolari o tumulti di piazza. “In un sistema sociale sano, i Panama papers avrebbero dovuto rappresentare un punto di svolta”, ha commentato Fredrik deBoer su Foreign Policy, invece per molti “è stato come sentirsi dire dai genitori che Babbo Natale non esiste: la conferma di un sospetto covato da tempo”. Ogni nuovo scandalo che passa come se niente fosse, che resta impunito senza che nulla cambi, è un altro precedente che viene stabilito.
E, come i cani di Seligman, ci convinciamo che non c’è niente da fare. Perché “la verità, in sé, non porta alla libertà. Al contrario, non c’è niente di più deprimente che capire come funziona il mondo e al tempo stesso avere l’impressione di non poter fare nulla per cambiarlo”. In questo, i mezzi di informazione svolgono un ruolo che alimenta paradossalmente proprio quella depressione, concorrendo a determinare l’assuefazione provocata dalla ripetizione di scandali e rivelazioni. Ma gli esseri umani, dice Sparrow, si comportano (spesso) in modo diverso dai cani e possono imparare rapidamente: “Cosa pensate che avrebbero fatto i cani dell’esperimento di Seligman se avessero avuto la possibilità di affondare i denti nella carne dei loro tormentatori?”.» Giovanni De Mauro, Internazionale, n. 1150

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Quando ci si avvicina a un weekend cosiddetto prolungato (quelli con un ponte di mezzo o una festa in più) i supermercati - nonostante oramai essi offrano aperture festive senza interruzioni - registrano un'impennata nelle vendite: la gente vi accorre e riempie sino allo spasmo i carrelli acquistando tutto due volte più del bisogno, per timore che qualcosa possa mancare a soddisfare fame, sete, toelettatura di vario ordine e tipo. Questo fenomeno accade, beninteso, nella “tranquilla” parte di mondo in cui la maggior parte della popolazione può permettersi di adempiere a certi obblighi di sussistenza. Nel resto di mondo, svincolata da questi obblighi perché afflitta da ben altre necessità primarie, si agogna paradossalmente a una conduzione di vita simile: lo si può constatare benissimo nelle facce multicolori della cospicua percentuale migrante che partecipa nelle nostre contrade al rito della spesa (in alcuni casi con l'ausilio di buoni acquisto forniti da enti caritatevoli o altro tipo di erogazione statale). Comunque sia, tutto questo mondo ruota intorno alla merce, compreso l'uomo, merce particolare, l'unica in grado di mantenere in vita questo sistema di scambio. La società umana più progredita è organizzata nei descritti termini di produzione, vendita, consumo e scarto - e ripartire da capo una volta completato il giro. Ciclo, questo, che si crede definitivo, connaturato all'umanità - diversità tecnologiche con il quale si perpetua a parte.

Insomma, si vive per lavorare e si lavora per sopravvivere. 

Tutto questo cosa c'entra col sonno di Sancho e coi cani di Seligman?
Sarà meglio vada a dormire, sennò abbaio.

Forti cariche emotive

Anch'io stamani, andando al lavoro, ho ascoltato una parte di Prima Pagina (Radio Tre); e ho acceso lo stereo nel momento in cui Marcello Veneziani leggeva l'editoriale «a forte carica emotiva » (ipse dixit) di Concita De Gregorio su Repubblica, Le cuffie che spengono le note della vita, scritto in relazione alla sciagurata vicenda della giovane modella morta arrotata da un Frecciarossa.
Beh, confesso che il tono vibrante della voce unito al pathos del testo hanno suscitato in me una forte scarica emotiva, sì che alla prima piazzola disponibile mi sono dovuto fermare. Meno male c'era una scarpata che non era ferroviaria.

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[*] Ho trovato al volo un pdf dell'editoriale nel caso in aveste bisogno anche voi di una scarica emotiva.

giovedì 21 aprile 2016

Un operaista

Mi sono fissato un'ora su una intervista a Mario Tronti per spillarci qualcosa da scrivere e non è uscito niente, un po' di schiuma, Peroni giapponese svanita a fine barilotto, quasi calda, gusto piscio.

Che vuoi che faccia, che mediti su un pensiero come questo?

«L’individualismo, [...]  ormai ha sbaragliato anche il campo di quanti dovrebbero opporsi a ogni forma di sfruttamento, a ogni imposizione del mercato, alla crescente artificializzazione della vita».

Niente. È proprio vero: per un senatore, gli individui sono sempre gli altri. A prescindere.

I conflitti sociali sono dovuti all'individualismo, al progressismo, al mercato, alla tecnoscienza. E neanche di striscio spiegare cosa determina e regola questi fenomeni. Cuccù. 

Da giovane la cosa che più temevo per il mio futuro (lavorativo) era o diventare prete oppure operaio (in un lavoro alienante, turni di notte di otto ore filate compresi). Che coglione. Va beh, prete non avrebbe fatto al caso mio. Mi toccavo troppo. Neanche l'operaio (non toccavo niente). Tuttavia, come operaista avrei potuto avere un futuro, chissà.

martedì 19 aprile 2016

Un'anima elettrica

Sono preoccupato. Per il blog, intendo. Da alcuni giorni (non so quanti, non molti, pochissimi, qualche ora, vabbè) sono afflitto da una sorta di autocensura: non riesco a buttare giù niente a partire dalla parola io (fosse solo una parola). Una specie di blocco...

L'ho superato subito.

Mi spiace tanto avere una scrittura poco afferrabile dalle forze dell'ordine.

Quelle del disordine sono tutte dentro me. Dentro la pancia, per il momento, in sovrannumero. 
Il mio dialogo con l'intestino prosegue. Stamani siamo andati insieme sul lettino di un dottore con la barba corta come Freud. Manipolandomi la pancia, egli mi ha detto che probabilmente ho il colon troppo lungo. Bel complimento. Volevo aggiungere qualcosa sulla lunghezza, ma poi ho avuto rispetto per i giovani assistenti, lì presenti in ambulatorio per un master col luminare (invero parecchio spento, nonostante il suo tentativo di essere brillante).

Non mi sono sentito imbarazzato a raccontare cose imbarazzanti. Sono un vecchio pornografo, in fondo. Scoperchiare i sentimenti agli sconosciuti mi riesce bene. Con quelli che conosco, invece, sono un po' più pentola a pressione.
«La pornografia [emotiva] è una tecnica e come tale non è affatto neutrale, ma ha un suo preciso obiettivo: stimolare un riflesso incondizionato, un automatismo. E non importa se positivo o negativo (piacere o senso di colpa).» Ippolita, Anime elettriche, Jaca Book, Milano 2016


lunedì 18 aprile 2016

La Via dell'Onestà




Se i tratti somatici hanno scarsa valenza predittiva, i modi linguistici, invece, lasciano poche ombre sul carattere, sulla personalità, sulla natura umana del parlante.
Soltanto un manicheo d'indole dispotica riduce il commercio umano ad una eterna lotta tra onesti e disonesti, dove questi ultimi prevalgono per grazia del favore governativo. 
Per tali paladini del Sommo Bene non esistono zone grigie, tutto è chiaro, netto, definitivo: da una parte il male (gli altri), dall'altra - appunto - il bene (noi). 
Beati gli ultimi che con noi saranno i primi. E viceversa. 
Se andranno al potere, a chi attualmente «dei bisogni dei cittadini onesti se ne frega», renderanno la pariglia: se ne fregheranno dei cittadini disonesti e favoriranno quelli onesti. Per decidere chi farà parte delle due squadre sarà fatta, beninteso, una consultazione online.

domenica 17 aprile 2016

Come son giuste le elezioni


«L'iperesaltazione della mascolinità come ideale fantasmatico perderebbe la sua forza di motivazione compensatoria per la condotta e di modello fantasmatico per l'auto-creazione. Un uomo connotato dal punto di vista di genere dovrebbe attraversare un fiume come fa ogni altro mortale». Judith Butler, Violenza, non-violenza: Sartre su Fanon, (ed. or. 2006), in Aut Aut, n. 344, ottobre-dicembre 2009

Ho votato - e non è stato semplice: c'erano troppe scrutatrici dalle camicette a fiori e dai sorrisi inquisitori, e trovarmi per un attimo davanti a quella primavera, con il presidente di seggio che sicuramente mi guardava storto perché non badavo a lui, bensì alle camicette, mi ha messo a disagio. Per questo sono entrato nella cabina con le idee confuse, non sapendo esattamente quale opzione scegliere tra le due proposte, così ho votato forse.
Solo dopo, infilando¹ la scheda nell'urna di cartone, ho ritrovato chiarità.

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¹ Chissà se Judith Butler, uno dei più autorevoli filosofi del gender, sarebbe d'accordo nel proporre - a livello mondiale - una diversa forma del foro dell'urna elettorale, per esempio rotonda, per la parità effettiva di genere.

sabato 16 aprile 2016

Il perfettino


Ci sono tante ragioni per andare a votare domani, in primis quelle di far dispetto a coloro che hanno suggerito di non andare a votare (Renzi, ma specialmente #Napolitano) affinché non sia raggiunto il quorum. 

Al contempo, ci sono anche delle ragioni per non andarci, di certo meno persuasive rispetto ad altre occasioni, tranne una, invero poco ragionevole, istintiva, dovuta alla mia particolare insofferenza per certi tipi umani che il cittadino vice presidente della Camera dei deputati incarna alla perfezione.

Osservate attentamente i suoi lineamenti fotoscioppati (precisione millimetrica dell'acconciatura, la boccuccia aperta nell'atto di pronunciare probabilmente una "e", la mano disarticolata dall'arto che sorregge il megafono); fate attenzione, altresì, a come gli stanno a pennello giacca-camicia-cravatta. Orbene, tale figura non vi incute un po' di timore anche adesso che, in fin dei conti, svolge un ruolo politico dai banchi dell'opposizione? Non so perché, ma se esistesse una Google Maps storica, collocherei senza indugio tale personaggio in un preciso periodo storico in cui egli rivestirebbe, con agio, i panni di un gerarca, o di un SA, o di un commissario del popolo.

Ma soprattutto, guardate quell'uomo coi baffi (leggermente fuori fuoco), guardate con quale inquietudine frammista a pena lo guarda: sembro io¹.

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¹ Andrò a votare cercando di esprimere, con un emoticon improvvisato, la medesima faccia.

venerdì 15 aprile 2016

Er pasticciaccio brutto de piazza Cavour


Se un carabiniere fosse intervenuto a due passi da San Pietro schiaffeggiando la signora seminuda¹ ci sarebbe stata bufera nell'Arma?

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¹Andrebbe approfondito il concetto di seminudo, perché a me la signora sembra parzialmente vestita: indossa persino i guanti, la sciarpa e il cappello.


giovedì 14 aprile 2016

Onestà, Onestà, Onestà


Le vedete le O maiuscole? 
Preferite quella vibrata dalle labbra tremolanti di Di Battista o quella sospirata dalle labbra ecclesiastiche di Di Maio (di Di, di Di)?

Onestà: sostantivo che nell'atto stesso in cui viene assurto a slogan, diventa il suo contrario.

Onestà: qualità umana che, quando presente, non c'è alcuna necessità di affermarla, ad alta voce perdipiù.

Onestà: una ragione non sufficiente. E anche sospetta. Infatti, ogni clan crede che il proprio leader sia onesto per definizione.  

La bussola dell'onestà è il sacrificio dell'intelligenza (domani cercherò di capire se questo aforisma è una mezza verità o una verità e mezza, K.K. dixit).

mercoledì 13 aprile 2016

Riformatemi

La riforma costituzionale? Penso sia altamente incostituzionale.

In altri tempi, quelli in cui mi dibattevo (moderatamente) negli spalti della politica (non c'è posto in campo per gli scarponi) a fare il tifo per una parte (la sinistra), mi sarei lasciato prendere la mano dallo sdegno e mi sarebbe persino presa voglia di sbandierarlo su queste pagine del fatto che la presente riforma costituzionale lede assai gravemente il principio cardine della sovranità popolare, segnatamente riguardo ai modi in cui essa potrà esercitarsi (esprimersi); infatti, al già scarso potere sovrano di eleggere dei rappresentanti, si aggiunge definitivamente che gli eletti saranno dei meri schiaccia pulsante che approveranno leggi decise altrove. 

Ma vabbè.
Dal marzo 2013 son uscito dallo stadio e col cazzo che mi ci rivedono alla partita. Certo, subisco le contese, non riesco a esserne completamente fuori, ma non le patisco. Faccio spallucce per scrollarmi di dosso gli ultimi resti di indignazione e mi consolo - magramente - pensando che questo modus operandi del riformismo suppositoire possa un giorno venire buono per diffondere estesamente lo stesso senso di schifo e disappartenenza alla res pubblica che pubblica non è, bensì completamente privata e schiava di interessi che non mi riguardano (se non le bucce o le croste - ottanta euri! ottanta euri! - o i gagliardetti della storia patria pace amore e libertà).

Vado a ungermi.

lunedì 11 aprile 2016

Mi è avanzato il terziario

[*]


- Bene, adesso è davvero giunto il momento di lanciare denaro dagli elicotteri.

- Non sarebbe più facile e diretto dare in omaggio le merci?

- Chi sei tu per spezzare la catena di scambio capitalistico?

- Uno che da anni alza gli occhi al cielo per vedere una scena tipo Apocalipse now, ma con gli spiccioli al posto delle mitragliate.


Il valore dei valori

Mentre camminavo in un parco cittadino mi sono caduti i valori sul selciato senza che me ne accorgessi. Per fortuna, un passante gentile me l'ha fatto notare:
«Scusi signore, sono suoi quei valori per terra?»
Arrossendo, ho annuito. Non vado mai fiero dei miei valori con il prossimo. Anzi, quasi me ne vergogno perché sono valori che non so giudicare fino in fondo miei, me li sono in parte trovati addosso, altri costruiti col tempo nelle varie occasioni in cui capita di avvalorarsi, altri ancora scelti a caso, un po' per convenienza o per indolenza. Comunque, per tutti vale il principio che li ho trovati in circolazione, non li ho inventati io, di sana pianta, d'altronde sono un animale sociale, che diamine, e la società in cui sono nato e cresciuto e in cui vivo ha proposto un determinato catalogo di valori, alcuni dei quali si sono persino modificati nel breve volgere di pochi lustri, chi l'avrebbe detto, sembravano così eterni e universali.
Però, ora che ci penso, forse sarebbe stata una fortuna perderli, ritrovarmi senza, almeno per un giorno intero. Chissà se sarei andato dai carabinieri a sporgere denuncia, a titolo precauzionale s'intende, nell'improvvido caso che qualche esaltato, dopo averli trovati, ne avesse fatto un uso incauto, per esempio sbandierandoli come universali e per ciò stesso promuovendoli come un fondamentalista qualsiasi.
Io per il momento non l'ho mai fatto, non ho mai creduto che i miei valori abbiano valore imperituro, non li ho mai esposti dalla finestra come bandierine, ombrelli identitari sotto il quale ripararmi in caso di attacco ai valori. 
A proposito: e se li vendessi al miglior offerente? Meglio ancora: se me ne liberassi a titolo gratuito, al limite dandoli in prestito a chiunque se ne senta sprovvisto? Mi chiami pure, troveremo sicuramente un accordo, ma ad una condizione: venga a prenderseli con un furgone portavalori.

domenica 10 aprile 2016

Ponte petì Perugia

Io penso che il Festival del Giornalismo Internazionale di Perugia, come tutti i festival di carattere culturale, ma questo in particolare, serva soltanto a mettere in mostra l'ego di chi vi partecipa da protagonista per farsi dire quanto è bravo, quanto è dentro, quanto è profondo, quanto è perseguitato, quanto ha viaggiato, quanto ha informato e scandagliato o mamma mia, gesù, di modo che il pubblico plaudente, composto di addetti ai lavori, molti dei quali vivono dei riflessi di questi piccoli soli, possa applaudire, promuovere e riflettere i quintali di autostima che i conferenzieri spargono, come concime, sulla platea.
Quanti sorrisi, quante strette di mano, quanti riconoscimenti e approvazioni. 
Ascoltiamoci, abbiamo tante cose da dire, ma in fretta, ché dopo servono il buffet. La notte è giovane e c'è caso che ci possa scappare una trombata, così, giusto per approfondire le relazioni. 
Oh, come sono euforici gli organizzatori, che bell'ambientino hanno "creato" utilizzando al meglio finanziamenti pubblici e privati. E compartecipati.
Che beau monde, il difficile è entrarci, ma una volta dentro è come diventare dei villi dentro a un intestino: si assorbe più o meno tutto quello che il mondo ingerisce per produrre, dipoi, gli escrementi informativi.
Oddio, ci sono anche i comici sul palco, che ci fanno tanto sorridere perché l'autoironia è una dote indispensabile per una categoria come la nostra. I comici che mandano in onda filmati e diapositive dal loro pc portatile col logo della mela posto in bella mostra sul leggio, da bravi torsoli qual sono. Non manca niente. La realtà, forse.  

sabato 9 aprile 2016

Il cappello di Abrini


«La procura federale ora è in grado di confermare che Mohamed Abrini è il terzo uomo presente in occasione degli attentati all'aeroporto internazionale di Bruxelles. È stato messo a confronto con i risultati di diverse evidenze ed ha riconosciuto la sua presenza al momento dei fatti». Così il comunicato della procura sulla confessione del belga di origini marocchine arrestato ieri, che inoltre ha precisato di «aver gettato la giacca in un cestino dei rifiuti ed aver venduto il cappello». Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/jlIp38

Innanzitutto, dopo tante critiche, complimenti alla polizia belga per aver catturato i ricercati.
Permangono, tuttavia, delle perplessità di ordine formale: infatti, gli addetti stampa della procura di Bruxelles dovrebbero vagliare meglio, al limite censurare, le dichiarazioni degli arrestati da divulgare ai media. In particolare, un terrorista reo confesso che dichiara di «aver venduto il cappello», quel tipo di cappello che tutto il mondo ha visto in quel frammento video, ti sta palesemente prendendo per il culo. In effetti, il cappello è qualcosa di strettamente personale, come le mutande (feticismo a parte, ognuno porta le sue), quindi chi potrebbe credere che qualcuno acquisti il cappello di una testadicazzo se non per diventare o già essere una testadicazzo altrettale? 

Cottura a Bollorè

Vorrei saper raccontare qualcosa di edificante, come un bel piano di edilizia popolare, decentrata, quella dei palazzoni dormitorio dove intorno non c'è praticamente niente, qualche alberello, parcheggi, due panchine, duecento cacche di cane da stare attenti a non pestare, l'asfalto che si sbriciola dopo ogni la pioggia, conseguenti buche, un'auto torna a casa, c'è un signore di una certa età, scarica le borse della spesa e i pacchi da sei dell'acqua minerale, chiama l'ascensore, sale e, arrivato al piano, dei signori molto gentili lo ossequiano, gli spiegano che i signori lo stanno aspettando e lo accompagnano dentro una enorme e fastosissima sala riunioni, un tavolo immenso al centro e seduti intorno signori distintissimi vestiti come si conviene per le grandi occasioni.
«Finalmente», sospira l'amministratore delegato, una signora un po' ossuta ma dallo sguardo fiero e fascinoso, estremamente artefatto, tipico di coloro che non l'hanno mai preso di traverso, nonostante le sentenze passate in giudicato.
Anche gli altri astanti manifestano lo stesso tipo di sollievo compiaciuto, lo stallo, forse - e finalmente - sarebbe terminato.
Il signore, assai perplesso e contrariato, che aveva in animo di domandare ai signori che lo avevano lì condotto dove avessero messo la sua spesa, inizia a sospettare di essere vittima di un equivoco al quale sarebbe stato bene porre quanto prima uno stop. 
«Scusatemi, forse stavate aspettando qualcun altro», dice a mezza voce, ma non per questo non udita da tutti i presenti che, al primo suo movimento di labbra, s'erano taciuti.
All'attimo di gelo apparente, seguono sorrisini compiaciuti. 
«Ma cosa dice mai, signore, è proprio lei che stavamo aspettando. Sa, dobbiamo dirimere una questione importantissima e, senza il suo tributo, crediamo che non andremo da nessuna parte».
«Tributo? Devo pagare qualcosa?».
Metà delle persone ride forte, mentre l'altra inizia a ricompattare tutte le carte sì da metterle ordinatamente nella ventiquattrore.
«No. Ci deve soltanto dire cosa ne pensa del nostro accordo industriale che dà vita a una nuova pay tv europea.»
«Ho capito. Portate qui la mia spesa e vediamo insieme quanta pubblicità ho comprato».

giovedì 7 aprile 2016

Disaffezioni

Durante le conversazioni con il prossimo che sporadicamente mi occorrono, sto facendo fatica a mantenermi dentro i margini della ragionevolezza e del senso comune. Quando ci riesco, obbedisco a una sorta di costrizione, più che altro per troncare quanto prima il discutere, dando ragione allo stereotipo nella stessa misura in cui si dà ragione agli stolti. Ma stolto - beninteso - non è l'interlocutore, bensì il discorso comune, la cosiddetta vulgata, quella che ci rende compartecipi della narrazione storica e politica che caratterizza la nostra epoca.

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Ci sono vari modi per dimostrare la propria impotenza e, nelle moderne società liberal-democratiche, uno dei più peculiari è quello di credere che la propria opinione possa qualcosa contro l'opinione comune. Averne una, anche originale, contrastante, eccentrica, è un po' come indossare l'elmo di Mambrino. Finché si rimane nell'incanto, disputare conviene, anche nel caso di rimanere scornati, gambe all'aria. Il problema è non guardare troppo fissa la realtà, sì da accorgersi che
«l'ordine esistente, è il disordine messo in leggi». Saint Just (via Olympe de Gouges).
perché in questo caso, come mi succede in questo periodo primaverile, si può essere assaliti dallo scazzo, dalla voglia di non pensare o pensare che questo sia il migliore dei mondi possibili, perché è il mondo che più assomiglia nostra testadicazzo.


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Quanto tempo, quanta energia, quanto denaro si perdono per nutrirsi: sinceramente, non vedo l'ora di essere abbastanza grasso per poter digiunare. Con il cibo ho un rapporto che adesso, per ragioni di tempo, non qualifico. Posso dire di aver provato vari tipi di diete, tranne il respirianesimo (a proposito: se un respiriano ha ospiti per cena, sapete cosa prepara per dessert? Io sì, ma mi taccio per ovvi motivi di buona creanza). 
Accenno a questo tema dopo aver visto una parte del pregevole servizio telegiornalistico di SkyTg24 Un piatto di salute. Brava Sarah Varetto. Solo un appunto. Io, al professor Veronesi che con la pacatezza e l'autorevolezza che lo contraddistinguono, quando ha detto che, da un punto di vista scientifico,
«la carne fa male, l'abbiamo visto, io l'ho detto vent'anni fa quando mi ero accorto, facendo il giro del mondo come presidente dell'Unione mondiale contro i tumori, che i paesi dove non si mangia carne, non esistono, o esistono molto poco, i tumori dell'intestino, più carne si mangia, più ci sono tumori intestinali».
e poi dopo anche quando decantava la virtù della pratica del digiuno, avrei domandato:
«Ma perché professore non si candida a presidente del WFP?».

mercoledì 6 aprile 2016

Eurofighissima Finmeccanica


Non bisogna far passare inosservati questi magnifici successi dell'industria bellica italiana. 
È importante progettare, costruire e - soprattutto - vendere. 
A chi? 
Al Q8. 
Cherosene non gli manca.
Appunto: hai voglia a pompe.
E chi gli hanno mandato come istruttori di volo?
Cocciolone e Bellini.

martedì 5 aprile 2016

I blogger sono bugiardi

Mi cresce sempre il naso a primavera. Di poco, in maniera impercettibile, ma comunque cresce, lo sento, lo ravviso soprattutto in punta, sezione in cui i recettori olfattivi si fanno ipersensibili e captano lo svolazzio del polline - la voglia matta della natura di riprodursi per tenere testa a entropia - come un bombo girovago e affamato. Solo che io non poso il naso sui fiori, anzi: in questo periodo, per quanto possibile, cerco di stare alla larga da qualsivoglia florilegio. Così vado a tentoni, naso avanti, a contenere soffi e starnuti, a decongestionare ettolitri di muso, urgenze, queste, che favoriscono di certo lo stimolo della crescita. E non antologizzo niente. 

Secondo me il Lorenzini soffriva di un inconveniente simile: anche a lui cresceva il naso, presumibilmente a primavera, forse per una non diagnosticata allergia al legno. La faccenda delle bugie è un mero espediente per affibbiare delle connotazioni moralistiche a un problema prettamente fisiologico: in taluni, infatti, il naso cresce a prescindere dal fatto che siano inclini a dire menzogne o meno. Riguardo a me, essendo d'indole romantica, mentitore lo sono comunque. Ne ho avuto conferma l'altro giorno quando una bambina mi ha chiesto a bruciapelo: 
«Tu le dici le bugie?»
Ho risposto di sì, ma non so se sono stato sincero. Prima o poi dovrò andare in vacanza a Creta per risolvere l'enigma.

lunedì 4 aprile 2016

Un problema antropologico


Internazionale di questa settimana pubblica meritevolmente la traduzione di una inchiesta sul campo dell'ottimo antropologo Scott Atran e della sua équipe di ricerca dal titolo Rivoluzione e Stato Islamico (qui nella versione originale).
Sicuramente, tale saggio offre una prospettiva diversa per capire il fenomeno, per circoscriverlo e non ridurlo - come fanno essenzialmente la maggior parte dei canali informativi e dei commentatori - a mero terrorismo. Anche se non si scopre niente di inedito, quello che poteva essere detto a mezzavoce trova conferma dalla raccolta e dall'analisi dei dati rinvenuti. E cioè:
«Con le nostre pallottole, le nostre bombe e la nostra arroganza non solo non stiamo riuscendo a impedire che l'estremismo islamico si diffonda, ma sembra quasi che lo stiamo aiutando».
E ancora:
«Mentre in occidente molti liquidano l'estremismo islamico definendolo semplicemente nichilistico, dalla nostra ricerca è emerso qualcosa di molto più inquietante: l'irresistibile fascino di una missione che mira a cambiare e salvare il mondo [...] Nonostante la nostra incessante propaganda che accusa l'IS di essere violento e crudele - e certamente lo è - ci rifiutiamo di riconoscere il suo vero fascino, e ancora meno l'idea che possa essere una fonte di gioia per i suoi militanti. I volontari, soprattutto giovani, che si offrono di combattere per il movimento fino alla morte provano una gioia che nasce dal sentirsi uniti a persone come loro nella lotta per una causa gloriosa, e al tempo stesso la gioia che nasce dallo sfogo della rabbia e dal piacere della vendetta».
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Ciò che del saggio convince meno è il richiamo frequente ad analogie storiche, a mio avviso talvolta anche poco pertinenti.
Ma soprattutto - visto anche il richiamo frequente (e pertinente) alle aspirazioni politiche dell'azione «rivoluzionaria» dei combattenti sunniti per l'edificazione di un Califfato, che secondo Atran costituisce il movente e la forza d'attrazione di così tanti giovani privi d'ideali e affamati di senso - manca in questo studio non dico un'analoga inchiesta-ricerca sullo stato dell'arte in Occidente, piuttosto un accenno sulla natura della perdurante crisi che lo investe, come se il modello di società occidentale, dominata un certo tipo di rapporti di produzione e quindi di classe, fosse un dato naturale e scontato, irreversibile, e non costituisse di per sé un problema, anzi: il problema a partire dal quale scaturiscono tutte le crisi presenti e passate. Infatti, tutto il puttanaio occorso in vicino e medio Oriente dalla disfatta dell'Impero Ottomano a oggi, non è forse una conseguenza di un modo tutto occidentale di pensare la politica ed esportare i propri valori?

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Da quando il capitale si è dispiegato in ogni angolo del pianeta con la globalizzazione e l'apporto informatico-digitale, la classe dominante d'Occidente ha trovato solo un modo per tenere in vita il gioco sporco della valorizzazione: sfruttare al massimo il lavoro umano, aumentare l'esclusione e la precarietà, alimentare il conflitto tra poveri. 
Questi rantoli di restaurazione tribale 2.0 che suggestionano i malati di mente e di senso che si attaccano al cazzo di una religione fanatica e aggressiva finanziata dal petrolio saudita e delle altre nazioni del Golfo (e quindi, indirettamente, anche da noi occidentali che con gli arabi facciamo affari), sono certamente più tollerati e sicuramente preferiti dalle nostre lungimiranti élite rispetto a qualsiasi tipo di critica reale e concreta dei rapporti di produzione e di classe.

Cosa vuol dire questo: che per i figli di puttana che gradiscono il giochino D-M-D¹ (e dentro ci sono anche tutti quei bei fighi democratici della Silicon Valley) è altamente preferibile un Califfato universale alla benché minima messa in causa del sistema di sfruttamento del lavoro umano (unica fonte di valore, checché ne dica la robotica).

Di queste cose l'antropologia, scienza borghese, ancora non si occupa. 
E quando Scott Atran scrive:
«E dove sono  gli intellettuali della nostra generazione o della prossima che potrebbero influire sui principi morali, le motivazioni e le azioni della società per trovare una soluzione giusta e ragionevole che ci porti fuori da questo pantano? Tra gli accademici, ben pochi sono disposti a entrare in conflitto con il potere, quindi si rendono irrilevanti e non si assumono nessuna responsabilità morale cedendo completamente il campo a quelli che criticano»
verrebbe da domandargli: e tu dove sei, invece? 
Già, sei a fare questi discorsi di conclusione che riportano al punto dal quale sei partito:
«Le civiltà sorgono e cadono in base alla vitalità dei loro ideali culturali, non solo alla quantità di beni materiali che possiedono. La storia dimostra che quasi tutte le società hanno valori sacri per i quali i popoli sono disposti a combattere e perfino a morire per non scendere a compromessi. Dalla nostra ricerca è emerso che è così per molti di quelli che si uniscono all'IS, e per molti curdi che gli si oppongono sui vari fronti. Ma finora non abbiamo riscontrato la stessa disponibilità da parte della maggior parte dei giovani che abbiamo scelto come campione nelle democrazie occidentali. Dopo la sconfitta del fascismo e del comunismo si sono rifugiati nella ricerca del benessere e della sicurezza? Ed è sufficiente questo per garantire la sopravvivenza, per non dire il trionfo, dei valori che diamo per scontati e sui quali siamo convinti che si basi il nostro mondo? Più che il jihadismo violento, forse è questo il problema più importante delle società aperte di oggi.».
Ecco, caro Scott, ti ho trovato il prossimo argomento di ricerca: quale sarebbe il problema più importante delle società aperte oggi? Non avere dei valori sacri di scorta per i quali combattere e perfino morire? Oppure il problema antropologico per eccellenza è un altro, ancora poco nominabile nei vostri dipartimenti?
Buon lavoro.

sabato 2 aprile 2016

Pensioni e osei

Leggendo l'intervista a volo d'uccello di Francesco Merlo a Elsa Fornero, stavo quasi per commuovermi, davvero, per la dirittura morale, la fermezza, la ragionevolezza dell'ex ministro del lavoro e delle politiche sociali, con delega alle pari opportunità, nel governo Monti.
Purtroppo, ahimè, mentre estraevo un fazzoletto di carta dal pacchetto, certo di tamponare l'imminente caduta d'una goccia spremuta dal sacco lacrimale, ho letto il seguente scambio di battute:

Merlo: «Ho letto che in Inghilterra vogliono alzare di molto l’età pensionabile.»
Fornero: «E anche in America, vogliono superare i 67 anni. Si va verso la flessibilità. E non solo perché cresce l’aspettativa di vita, ma anche perché aumenta il numero di chi ama lavorare. È già così per molti professori, forse pure per i giornalisti, ma il lavoro alienato esiste eccome, provi a chiedere ad un metalmeccanico quanto si sente realizzato».

Merlo: «Dovremmo privarci del lavoro di Scalfari, oppure impedire a Morricone di comporre e a Muti di dirigere? Ci sono bellissime vite di lavoro che a sessant’anni rifioriscono.»
Fornero: «Io insegnerei anche gratis...»


E mi è venuta voglia di spennare qualcuno, previo ammollo nell'acqua bollente. 
No, non la Fornero.

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P.S.
Come minimo, sono vent'anni che mi priverei del lavoro di Scalfari: anzi: ne me sono già privato largamente da un pezzo.

venerdì 1 aprile 2016

Non si dee adunque noiare altri


« Male fanno ancora quelli che tratto tratto si pongono a recitare i sogni loro con tanta affezzione e facendone sì gran maraviglia che è un isfinimento di cuore a sentirli; massimamente ché costoro sono per lo più tali che perduta opera sarebbe lo ascoltare qualunque s’è la loro maggior prodezza, fatta eziandio quando vegghiarono! Non si dee adunque noiare altri con sì vile materia come i sogni sono, spezialmente sciocchi, come l’uom gli fa generalmente. E comeché io senta dire assai spesso che gli antichi savi lasciarono ne’ loro libri più e più sogni scritti con alto intendimento e con molta vaghezza, non perciò si conviene a noi idioti, né al comun popolo, di ciò fare ne’ suoi ragionamenti. E certo di quanti sogni io abbia mai sentito riferire (comeché io a pochi soffera di dare orecchie), niuno me ne parve mai d’udire che meritasse che per lui si rompesse silenzio, fuori solamente uno che ne vide il buon messer Flaminio Tomarozzo, gentiluomo romano, e non mica idiota né materiale, ma scienziato e di acuto ingegno. Al quale, dormendo egli, pareva di sedersi nella casa di un ricchissimo speziale suo vicino, nella quale poco stante, qual che si fosse la cagione, levatosi il popolo a romore, andava ogni cosa a ruba, e chi toglieva un lattovaro e chi una confezzione, e chi una cosa e chi altra, e mangiavalasi di presente; sì che in poco d’ora né ampolla né pentola né bossolo¹ né alberello² vi rimanea che vòto non fosse e rasciutto. Una guastadetta³ v’era assai picciola, e tutta piena di un chiarissimo liquore, il quale molti fiutarono, ma assaggiare non fu chi ne volesse. E non istette guari che egli vide venire un uomo grande di statura, antico e con venerabile aspetto, il quale, riguardando le scatole et il vasellamento dello spezial cattivello e trovando quale vòto e quale versato e la maggior parte rotto, gli venne veduto la guastadetta che io dissi: per che, postalasi a bocca, tutto quel liquore si ebbe tantosto bevuto, sì che gocciola non ve ne rimase; e dopo questo se ne uscì quindi, come gli altri avean fatto: della qual cosa pareva a messer Flaminio di maravigliarsi grandemente. Per che, rivolto allo speziale, gli addimandava: – Maestro, questi chi è? e per qual cagione sì saporitamente l’acqua della guastadetta bevve egli tutta, la quale tutti gli altri aveano rifiutata? –  A cui parea che lo speziale rispondesse: – Figliuolo, questi è messer Domenedio; e l’acqua da lui solo bevuta, e da ciascun altro, come tu vedesti, schifata e rifiutata, fu la Discrezione, la quale, sì come tu puoi aver conosciuto, gli uomini non vogliono assaggiare per cosa del mondo. – Questi così fatti sogni dico io bene potersi raccontare e con molta dilettazione e frutto ascoltare, percioché più si rassomigliano a pensiero di ben desta che a visione di addormentata mente o virtù sensitiva che dir debbiamo; ma gli altri sogni sanza forma e sanza sentimento, quali la maggior parte de’ nostri pari gli fanno (percioché i buoni e gli scienziati sono, eziandio quando dormono, migliori e più savi che i rei e che gl’idioti) si deono dimenticare e da noi insieme col sonno licenziare. »

Giovanni Della Casa, Galateo, XII, 1558

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¹ bossolo: vasetto.
² alberello: vasetto da farmacista.
³ guastadetta: vaso vitreo da farmacia.