martedì 31 gennaio 2017

Le reali necessità del mondo produttivo

«È introvabile un lavoratore su cinque», perché quell'uno su cinque che le aziende (piccole e medie imprese) cercano dev'essere un lavoratore qualificato e competente:
«ancora oggi si fa fatica a trovare ingegneri, architetti, specialisti in scienze economiche e gestionali d’impresa; ma anche periti, dirigenti, operai specializzati; e a tutti, oltre a una preparazione scolastica di qualità (che spesso “non emerge” durante le selezioni), viene richiesta, pure, un’esperienza lavorativa precedente (per due candidati su tre è considerata dai datori di lavoro "un requisito fondamentale" per l’inserimento in azienda)» (via)
Se da un lato la speranza principale delle aziende è di vendere merci nuove, dall'altro lato (per quanto riguarda il capitale umano) le aziende mica vogliono comprare merce-lavoro nuova, macché: preferiscono l'usato sicuro, bell'e rodato.

Allora - dato che la colpa muore sempre vergine, come i lavoratori senza esperienza - dalle parti della Confindustria rilanciano «l’urgenza di un dialogo, più stretto e proficuo, tra istruzione e mondo produttivo». 

In sostanza: bisogna che la scuola formi della merce lavoro competente (ah le competenze, che passion!). 
E infatti
«Ciò accade perché, sotto la spinta di Industria 4.0, la manifattura sta cambiando velocemente e c’è necessità di collaboratori in linea con i mutamenti in atto - sottolinea il vice presidente di Confindustria per il Capitale umano, Giovanni Brugnoli -. Il tema è centrale. Se non vogliamo accrescere il numero di inoccupati è imprescindibile che scuola e università ascoltino aziende, categorie e territori, nel disegnare l’offerta didattica: con questi numeri non possiamo più permetterci una formazione slegata dalle reali necessità del mondo produttivo».
Siccome, à la fois, la dichiarazione del vice presidente per il Capitale umano è un concentrato di stronzate da sciacquonare («sotto la spinta di Industria 4.0) e di elementi da analizzare («la manifattura sta cambiando» significa semplicemente questo: c'è e ci sarà sempre meno bisogno per le aziende di acquistare forza lavoro, se non quella capace di far funzionare e manutenere le macchine che hanno sostituito la forza lavoro stessa), mi limito, in estrema sintesi, a suggerire alle scuole e alle università di dedicare alcune ore di ricevimento alle inascoltate aziende patrie per farsi disegnare alla lavagna (meglio: alla Lim) la loro proposta didattica, volta a non accrescere il numero di inoccupati, che è questa: bocciare il 95% degli studenti finché essi non otterranno la pensione. Minima (forse).

domenica 29 gennaio 2017

Gluten free

Saranno fisime da età della ragione, ma ultimamente, diciamo da un annetto, diminuendo l'uso del frumento, non facendo di esso il cereale base della mia dieta, in essa inserendovi, regolarmente, altri cereali (riso, mais, farro, avena, miglio, grano saraceno, eccetera), mi sembra di star meglio a livello intestinale, dico sembra, perché parlo di me stesso, non voglio certo brigliadorare il volgo con le mie fisime alimentari. Ma insomma, ecco, oggi, porcaloca, col frumento sono andato in overdose, mi sono ingoiato un etto di Panebianco, dio come mi ha malmesso, chiedo scusa in anticipo al mio colon, speriamo capisca, la domenica è un festivo, uno stravizio ogni tanto, vedremo domani le risultanze, ma immagino che domani sarò dimolto sciolto:
«Il tentativo di perfezionare e stabilizzare la democrazia maggioritaria, dopo un quarto di secolo, è fallito. Ritorniamo, per contraccolpo, alla democrazia proporzionale. Ma lo facciamo in un mondo internazionale che non si è stabilizzato, anzi. Il disordine del sistema internazionale è in crescita. Sta finendo la Pax americana, dal Medio Oriente vengono minacce mortali, l’Unione Europea è a rischio di dissoluzione, la Russia di Putin incombe. Non è difficile immaginare cosa comporterà per noi la combinazione fra il ritorno della democrazia proporzionale e l’aumento del disordine mondiale. Le varie fazioni, anche entro le coalizioni di governo, si sceglieranno differenti referenti esteri. C’è da aspettarsi conflitti fra amici e nemici della Russia, fra amici e nemici degli americani, fra europeisti e antieuropeisti, fra i fautori di diverse ricette per fronteggiare la crisi medi-orientale. Mentre i primi ministri — per definizione deboli nella democrazia proporzionale — faticheranno a imporre linee di azione unitarie ed efficaci. La situazione, peraltro, è più grave rispetto ai tempi della Guerra fredda. Allora non c’erano soltanto un quadro internazionale stabile e sistemi di alleanza bloccati. C’erano anche partiti politici solidi che contenevano, almeno entro certi limiti, le oscillazioni e le incertezze della nostra politica estera a loro volta generate dalla conflittualità entro le coalizioni di governo. Quei partiti solidi oggi non ci sono. Né mai torneranno. Ci aspetta un futuro di frammentazione partitica.»
 Cielo a pecorelle.

Il messo (21)


«Siamo sicuri che essere felici sia un obiettivo che valga veramente la pena di perseguire?», lesse Federico.
«Me lo chiedo perché ho come la strana sensazione che, una volta che lo fossimo, un istante dopo, non lo saremmo più, perché quello ci prefiguriamo adesso per essere felici, non sarà, non potrà essere – anche se realizzato – una certezza di felicità. Innanzitutto perché dovremmo essere assolutamente sicuri che quello che pensiamo adesso possa renderci felici appartenga realmente a noi, sia frutto dei nostri desideri più autentici… e mi qui mi fermo, perché nessuno – ribadisco nessuno al mondo ha o può avere desideri che siano esclusivamente suoi, che non siano frutto di una mediazione o di un condizionamento. Credere il contrario è mera illusione, giacché riguardo ai desideri, non esiste tabula rasa, non nascono in noi e con noi, ma entrano in noi tramite contagio. Sono gli altri, i nostri modelli – manifesti o sotterranei che siano – che ce li trasmettono, in forma più o meno diretta. Nasciamo, cresciamo e – se non abbiamo una vita grama, fatta di stenti, sudore per soddisfare le necessità minime del vivere o per difendersi da genitori o adulti aguzzini – ci guardiamo intorno per capire quali sono i desideri da imitare per essere come gli altri o differenziarsi dagli altri, comunque sia sono gli altri il termometro di giudizio per misurare la nostra febbre del desiderio. È chiaro che, in questi termini, una volta soddisfatti ci accorgiamo che i desideri non ci appartengono, non erano nostri, non lo sono mai stati, mai; per questo quasi sempre la risultanza è un post coitum ininterrotto, che ci lascia o amareggiati o disincantati, con in mano quello che volevamo, sì, ma quanta fatica per niente, se ci fosse almeno un mercatino del desiderio usato per poterli rivendere, ripiazzare indietro...
Beh, penso che ammettere questo sia già molto, ma preclude necessariamente ogni forma di felicità prefabbricata da una immaginazione presa in prestito sui cataloghi delle vite altrui. E allora niente, non so dire che cosa vorrei esattamente per essere felice; quello che mi auguro sono soltanto certi momenti di felicità improvvisa, inaspettata, rapida, non durevole, che arrivano addosso come il sorriso di una donna che cammina al tuo fianco lungo un fiume che sembra fermo, come il tempo che sembra fermarsi in quel preciso istante, ma fermo non è. Solo un secondo dopo, infatti, ti accorgi che sei stato felice ma non puoi neanche dirlo, perché è tardi, quell'istante è passato, ecco, puoi soltanto ricordarlo.
Insomma, penso che felici, ma felici veramente, possano esserlo soltanto i saggi o gli idioti, non c’è via di mezzo per quelli che, come noi, credo, e scusatemi se vi raggruppo, siamo attraversati ogni giorno dai fasci dei desideri altrui, dai feticci standardizzati della produzione e del consumo, dalle immagini di contorno, dalle risate viete e muffite della pubblicità. Noi che siamo qui per capire il perché della nostra vita, se essa abbia un senso, beh, penso che conviene arrenderci, alzare le mani, issare bandiera bianca. Non saremo felici, ma non facciamone un cruccio, non importa. Si può soltanto giocare in difesa, parare i colpi dell’oltraggiosa fortuna, per quanto sta in noi, è chiaro, e camminare lungo i fiumi, in attesa che ripassi quel sorriso, perché prima o poi ripassa, deve, foss’anche solo uno che riappare coi ricordi».

giovedì 26 gennaio 2017

Un'interminabile lagna

Via posta, mi è arrivato oggi il numero di Internazionale uscito in edicola giovedì scorso (questa è la ragione principale per cui non rinnoverò l'abbonamento cartaceo). 
In tale numero, il 1188, dedicato all'insediamento di Trump (Dio, come l'hanno presa a culo), c'è un'articolessa di Ta-Nehisi Coates (chi sia non so ma non importa, o meglio l'ho saputo poi, ma vi spiego dopo) dal titolo evocativo (parecchio evo) Il mio Presidente era nero. Era meglio negro.



Mi son provato a leggerlo: m'è saltato addosso un reflusso politicamente scorretto (una sperpetua?) che non immaginavo. La prima cosa che ho pensato è a Mario Carotenuto: «Ma te l'immagini se me nasceva un fijo scrittore come Ta-Nehisi? Mejo fascista» (sto scherzando: è perché non potevo dire come Carotenuto,  «Mejo frocio», ché forse - di questi tempi - un augurio del genere è cosa correttissima).

Di conseguenza, dopo tale avvilimento intellettuale, ho pensato che, per ripicca, non rinnoverò l'abbonamento a Internazionale, neanche alla versione pdf che arriva immediatamente. 36 colonne di scrittura patetica, oltre a non andarmi giù, mi ritornano tutte in su. Soprattutto l'epilogo è stata la goccia, lo schizzo, lo sputacchio catarroso di melassa struggente che m'ha rivoltato lo stomaco.



Peggio che con la coca cola, ho emesso un rutto durato trentasei secondi che ha permesso pure a me di sfidare la storia e la gravità. Gesùcristo, meno male ero solo.

Per rimettermi in sesto, ho cercato qualche rimedio allopatico che contrastasse il piagnisteo post-obamiano e ho trovato, qui, un articolo che poi ho trovato, in versione originale, anche qua.
In esso ho scoperto che 
the American writer, Ta-Nehisi Coates, the recipient of a "genius" grant worth $625,000 from a liberal foundation. In an interminable essay for The Atlanticentitled, "My President Was Black", Coates brought new meaning to prostration. The final "chapter", entitled "When You Left, You Took All of Me With You", a line from a Marvin Gaye song, describes seeing the Obamas "rising out of the limo, rising up from fear, smiling, waving, defying despair, defying history, defying gravity". The Ascension, no less
Oltre a questo coriandolo rivelatore, l'articolo di John Pilger riassume in modo egregio gli otto poco gloriosi anni di Obama alla Casa Bianca. Se l'avessi letto su Internazionale non l'avrei fatta lunga con questo post inutile.


P.S. O.T.
Il Messo non l'ho dismesso ma l'ho messo solo in pausa. Promesso.

martedì 24 gennaio 2017

Ammonire la simulazione

Il rischio che l'universo sia una simulazione è, allo stesso tempo, un rischio nullo e una suggestione comoda, per quegli intellettuali (scienziati, filosofi, divulgatori, visionari di stocazzo) che partono dal presupposto che tutto il meglio sia già qui, visto che ne partecipano consumandone una gran quota.
Il problema non è tanto sapere se in fondo siamo dei robot¹, ma il percepire che determinate condizioni economiche e produttive - il cosiddetto soggetto automatico del capitale - ci rendono simili ad automi (salvo il sangue da far circolare e la merda da evacuare). 
Insomma, anche se fosse vera questa gran cazzata del velo di Maya 3.0, tanto concentrato di intelligenza e conoscenza mai che s'ingegni come fare a strapparlo, il velo, a farla restare in mutande quella svampita di Maya. 

Tutto è rappresentazione una bella sega. 

Come scriveva Giorgio Colli nella sua Ragione errabonda, il capotribù dipende dallo stregone. E se in una consistente fetta di mondo il rincoglionimento religioso, ancora oggi, gioca la sua fottuta parte nel controllo mentale del popolo, nell'altra zona - non voglio dire la più mentalmente progredita, diciamo la più disillusa, la più secolarizzata - qualcosa bisogna fare, il cinema e la televisione fors'anche lo sport non sono più sufficienti a tenere a bada il disagio, la crescente idea che chi comanda voglia continuare a comandare fottendolo, il popolo. Allora, i capotribù chiedono agli stregoni di cercare sul fronte della simulazione qualche espediente per far sì che le persone credano che «la nostra realtà non sia altro che una di queste simulazioni, realizzata da un'altra civiltà super intelligente ed esterna al nostro mondo», così ce la pigliamo cogli alieni, nevvero, entità che hanno regolato l'universo in modo tale che è impossibile cambiarlo. In sintesi: anche gli alieni, come gli dèi, hanno creato un mondo che sottostà ad Ananke, detta anche più volgarmente Legge del Menga universale.

Infine una parola sui libri di fantascienza: non sono un esperto, ma credo che i libri più validi non siano quelli che descrivono come sarà il futuro (anche se poi, più o meno casualmente, ci azzeccano), ma quelli che parlando del futuro descrivono i pericoli del presente, le distopie attualmente in corso d'opera. 

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¹Magari lo fossimo, almeno patiremmo meno le conseguenze sul fronte della sussistenza e dei surrogati del desiderio.

lunedì 23 gennaio 2017

Bella forza


Anche se è comprensibile che abbia rammentato soltanto i due uomini forti a capo delle due superpotenze più forti, così non vale, giacché se servono uomini forti, occorre ricordare che già altri uomini forti siedono fortemente al potere. Infatti, Erdogan, Al Sisi, Kim Jong Un, Maduro (semiforte), Duterte, Bouteflika, al-Bashir, re Abdullah, Mugabe, eccetera sono o non sono uomini forti?

Di più: perché Grillo ha così fortemente combattuto l'ultimo uomo forte (o presunto tale) che ha governato fino a ieri l'Italia?

Ha cambiato idea perché, sotto sotto, nutre velleità di comando in salsa italica?

Mi permetto di ricordargli che ogni comico italiano serio dovrebbe aver letto Eros e Priapo.
 "Venuto dalla più sciapita semplicità, parolaio da raduno communitosi del più misero bagaglio di frasi fatte, tolse ecco a discendere secondo fiume dietro al numero: a sbraitare, a minacciare i fochi ne' pagliai, a concitare ed esagitare le genti: e pervenne infine, dopo le sovvenzioni del capitale e dopo una carriera da spergiuro, a depositare in càtedra il suo deretano di Pirgopolinice smargiasso, addoppiato di pallore giacomo-giacomo, cioè sulla cadrèga di Presidente del Conziglio in bombetta e guanti giallo canarino". C.E. Gadda, Eros e Priapo, Garzanti, Milano 1967
Insomma, io penso che più di uomini forti, il mondo abbia bisogno di meno uomini stronzi. Sarà dura. Proviamo a evacuarli.

domenica 22 gennaio 2017

La pazienza di Coblenza

«Meno di qualsiasi altra cosa i divertimenti abbisognano di giustificazioni».
Bertolt Brecht, Breviario di estetica teatrale, 1957

(C'erano un olandese, una tedesca, un austriaco, una francese e un italiano...)

I sovranisti di Coblenza si sono dichiarati pronti a diventar sovrani qualora il popolo, tramite le attesissime consultazioni elettorali, riversasse nelle urne tante croci (semiuncinate) sopra simboli che rappresentano i lor partiti.

Il sovranismo è un concetto assai in voga in questi questi scorci di secolo, restituisce un senso di conforto e di potenza, vale a dire dà l'impressione che si potrebbe potenzialmente comandare, dirigere, indirizzare, gestire la propria casina chiamata patria o nazione o macroregione in modo tale che essa prosperi bellamente e riccamente lontana dai negativi influssi del mondo intorno ch'è tutto brutto sporco e cattivo, certamente restando dentro la logica del capitale, del lavoro e del mercato, siamo mica bifolchi autarchici che sognano di riprodurre la vita ognun per sé e dio per tutti, oppure, al massimo, con il baratto tra vicini (ti do una pelle di daino in cambio di un arbre magique).

In buona sostanza: Mesdames et Messieurs sopra raffigurati sognano segretamente di ricevere, oltre che dal popolo - primo passo certamente, vedi Trump - approvazione dai grand commis del capitale che ritengano opportuno favorire l'ascesa di questi piccoli leader sui trampoli a livello continentale, per dare una svolticina semi autoritaria, in ricordo dei bei tempi andati di circa un secolo fa, quando i popoli rigavano dritti, l'Europa invadeva l'Africa anziché il contrario e, soprattutto, i treni arrivavano in orario.
Probabilmente costoro farebbero meno danni come capi del governo anziché come capistazione.

sabato 21 gennaio 2017

Il vizio di scrivere

Adeguare la prosa al vizio - e il vizio alla consuetudine. Se fossi un pornagrafo - o forse lo sono - ma se lo fossi, saprei scritturare la carne come il Verbo comanda? Se in principio fosse stata la carne anziché un succedaneo, forse Iddio avrebbe messo alla base della piramide alimentare i carnivori.
Ieri, in auto, a pochi chilometri da casa, dovete credermi, sibilando a un dieci centimetri massimo dal parabrezza, ho visto l'attacco finale di un falco pecchiaiolo a chissà quale preda posta sulla scarpata al lato opposto del mio senso di marcia, le ali aperte in frenata controllata, l'impatto con le zampe avanzate sul terreno scosceso macchiato di bianco da alcuni resti di neve. Gli ho augurato di aver avuto successo: è pornografia questa? 

Ricordo - non so se avrò avuto quindici anni, ma forse anche meno - che in biblioteca, in una vecchia collana Bompiani, copertina rossa cartonata rigida, fui attratto da un libro di Witold Gombrowicz, Pornografia. Non ci fu verso di farsi una sega. 

Poi, vabbè: Opus pistorum. Eh, ma quello fu un libro scritto su commissione. Io è già tanto se commissiono me stesso.

venerdì 20 gennaio 2017

Qualcosa ci sfugge

«Mi piace allora giocare il gioco della “fantascienza” immaginandomi come individuo di un'altra scala (non solo come essere umano rimpicciolito o ingrandito per visitare una simile terra incognita): ma non so fino a che punto avrò successo. In quanto organismi, abbiamo occhi per vedere il mondo della selezione e dell'adattamento espressi, per esempio, nella bella struttura di ali, gambe e cervelli. Ma nel mondo dei geni può prevalere la casualità e potremmo interpretare il mondo molto diversamente se il nostro punto di osservazione risiedesse in questo livello inferiore. Potremmo poi rilevare un mondo di elementi indipendenti, che vanno e vengono in base alla fortuna dell'estrazione, ma con isolotti qua e là dove la selezione rallenta il tempo ordinario e l'embriologia lega insieme le cose. Come potremmo mai comprendere allora l'ordine ancora differente di un mondo più grande di noi? Se ci è sfuggito lo strano mondo della neutralità genica perché siamo troppo grandi, che cosa sfugge al nostro sguardo perché siamo troppo piccoli? Forse che noi diventiamo frustrati, come geni che cercano di afferrare il mondo molto più grande del cambiamento nei corpi, quando, nel nostro essere corpi, cerchiamo di guardare il dominio dell'evoluzione tra specie nella vastità del dominio geologico? Che cosa ci sfugge quando proviamo a interpretare questo mondo attraverso la scala, inadatta, dei nostri piccoli corpi e della nostra minuscola esistenza?»

Stephen Jay Gould, La struttura della teoria dell'evoluzione, Codice edizioni, Torino 2003, pag. 843.

Qualcosa ci sfugge. Ma cosa. Tutto. Va bene, non proprio tutto. Diciamo: una gran parte del tutto. Che affanno esserne circondati. Forse è per questo che prestiamo poca attenzione al quasi tutto che ci circonda e ci sfugge. Meglio tenere ancorata la mente al nostro via vai più o meno frenetico, ai nostri affanni o sollazzi. Meglio non farsi domande sull'organizzazione generale del nostro vivere, a partire dalla riproduzione di noi stessi; meglio evitare indagini accurate su ciò che sta alla base della società umana. Quello che è, è, perché così deve essere, come la bufera.

mercoledì 18 gennaio 2017

Il messo (20)

Nelle tre ore concesse per scrivere che cosa avrebbe voluto, qui e ora, per essere felice, gira e rigira Giulio pensò soltanto a una cosa: vivere una nuova storia d'amore che gli facesse, non dimenticare, ma superare l'amarezza e la delusione causate dalla precedente. 
«Credo, ma non ne sono del tutto convinto, che felicità per me sarebbe ricostruire sopra quello che mi è crollato addosso a un passo dalla sua realizzazione. Sarò banale, ma io immagino che questa sia la maniera migliore per me per stare bene. O almeno provare a esserlo. Una donna che amo e che mi ama, una famiglia, dei figli... Questo è quello che vorrei adesso, anche se qualche dubbio resta, non certo determinato dal timore che tale storia d'amore possa finire malamente come o addirittura peggio della precedente. No. Questa eventualità non mi fa paura, ed è forse questo che mi impedisce di credere per intero che quello che immagino possa realmente rendermi felice, nella stessa misura in cui lo ero con colei che mi ha lasciato. E dunque non lo so se quello che ho immaginato vale. Certo, potrebbe essere una buona base di partenza, o una consolazione. Chissà. Forse, unito a questo, quello che vorrei è sapere, anche di rinterzo, che colei che mi ha fatto soffrire oltremisura possa pentirsi della sua decisione, possa - anche per un momento - provare rimorso, voglia addirittura ricercarmi, riprovare a ricostruire quello che ha rotto. Per sempre. Già: ecco che comincio a capire quello che veramente vorrei che accadesse per essere felice: che lei volesse rimettersi insieme, rifare tutto quello che abbiamo fatto, rivivere quello che abbiamo vissuto fino al momento in cui mi disse addio. Arrivare fino a lì, fino a quel punto e, questa volta, essere io a lasciarla e a farle vivere le medesime pene d'amore che io sono stato costretto a vivere, renderle esattamente la stessa pariglia, farla stare male ugualmente a come sono stato io. Sono stato... Sono stato... Forse è questo l'unico passo giusto fatto finora verso la felicità».

lunedì 16 gennaio 2017

Qualcuno potrebbe

In una risposta a una domanda all'intervista (di Ezio Mauro) pubblicata ieri, l'intervistato (Matteo Renzi) ha dichiarato:
«E soprattutto nessuno può toglierci il futuro».
Converrete che col verbo declinato al presente, il futuro, non essendoci, nessuno può toglierlo.
Poniamo, tuttavia, che, per assurdo, l'intervistatore, nell'attimo stesso in cui l'intervistato stava per dire quella frase, avesse estratto, da una fantomatica fondina, una beretta calibro... non so che calibro.. e glielo avesse tolto per davvero, il futuro, se non al ‘noi’ quantomeno all' ‘io’.
«E soprattutto nessuno può toglierci il fu...»...
Bang. Tolto. Al presente.

Ok, bando ai revolver, ché qui siam più avvezzi a sparare cazzate.
Nondimeno, alla luce del risultato referendario, pur concedendo che il biascica frasi del cazzo non abbia intenzione alcuna di togliersi dai cosiddetti, è legittimo considerare che, nel passato prossimo, il futuro gli è stato tolto eccome, a lui, al suo enfiato ego, anche se non a tanti suoi ex ministri futuristi?


sabato 14 gennaio 2017

Il messo (19)


«Son due ore e mezzo che ci penso e ancora non ho scritto niente, perché non riesco affatto a immaginare quello che mi ci vorrebbe per essere felice. Mi sa che ci sono: per essere felice non ci vuole niente, la felicità non è dentro una cosa o una persona, felice è essere felice, tautologia pura. La felicità è uno stato, una condizione che non è favorita da qualcosa di altro da sé: la felicità quando c'è, c'è, quali che siano i conforti, i piaceri, le persone accanto. Per parafrasare Tolstoj, ci sono migliaia di modi per essere infelici, mentre per essere felici ce n'è uno solo: esserlo. Esserlo da soli, oppure in due o in gruppo, è uguale. La felicità non è una circostanza. È una stanza e basta, senza mura o chiavi. O ne sei dentro o ne sei fuori, tutto qui. Forse adesso ci sono, posso tentare la soluzione: la felicità si percepisce, si intuisce, la si sfiora, ci si fa un passo dentro, a volte ci si entra ma poi lei si sposta, fugge, e lo sbaglio più grande è inseguirla. Non si può. È lei che ti viene incontro, di colpo, come un treno, lo stesso treno che magari dopo la riporta via proprio nell'attimo in cui pareva a portata di mano o di bacio. E ti volti per non vedere il treno partire – perché rincresce a tutti veder partire la felicità – e credi che, in effetti, felicità sia partita, ma al contempo avverti una strana sensazione nella schiena, che non è un brivido ma un irraggiamento, una concentrazione simultanea di benessere assoluto che non può durare che un attimo, appunto, giusto dieci passi, il tempo necessario per risalire in auto e cantare Now the radio stutters, snaps to life».

Dopo che ebbe riletto quanto aveva scritto, il messo si ritenne soddisfatto e, per primo, si rimise al tavolo. Dato che tutti gli altri ancora erano impegnati, volle telefonare ai figli per sapere se stavano bene. I due più grandi non risposero. La piccola sì. Stava accompagnando la madre a fare un piercing. «Ti fai un piercing dove?» le chiese. «Non io, pa’, non io: è mamma che se lo vuole fare. Non mi chiedere dove».

Il senso del suo stesso tramonto

“L’impossibilità economica della accumulazione in una società puramente capitalistica non si manifesta quindi nel ‘cessare’ del capitalismo con l’espropriazione dell’ultimo produttore non capitalistico, ma nelle azioni che l’approssimarsi di questa situazione […] impone alla classe capitalistica nella colonizzazione febbrile, nella lotta per la conquista dei mercati e dei territori ricchi di materie prime, nell’imperialismo e nella guerra mondiale, ecc. Infatti, il dispiegarsi di una tendenza dialettica dello sviluppo non è un progresso all’infinito che si approssima alla mèta attraverso graduali incrementi quantitativi. Le tendenze di sviluppo della società si esprimono piuttosto in un’interrotta trasformazione qualitativa della struttura sociale (della composizione delle classi, del loro rapporto di forze, ecc.). E nella misura in cui la classe attualmente dominante cerca di padroneggiare queste modificazioni nell’unico modo ad essa possibile – e sembra realmente riuscirvi in rapporto ai ‘fatti’ ed ai loro elementi particolari – con la sua cieca ed inconsapevole attuazione delle necessità della sua situazione, essa accelera il realizzarsi di quelle tendenze il cui senso è il suo stesso tramonto.”

György Lukács, Storia e coscienza di classe, cap. III, par. 4.

mercoledì 11 gennaio 2017

Il messo (18)

«Il romanzo che ci interessa non è quello che colloca via via i personaggi nella situazione, ma quello che insedia la situazione nei personaggi. Per la qual cosa questi smettono di essere personaggi per diventare persone. Esiste come una estrapolazione mediante la quale essi balzano verso di noi, o noi verso di loro.»
Julio Cortázar, Rayuela 

Dopo aver offerto a tutti una tazza di karkadè («la più cristiana delle tisane»), il prete, con voce lieve, disse:
«Tutti voi avete narrato la vostra storia, una storia di peccatori, nel senso borgesiano del termine, giacché, come scrisse l'argentino nel celebre El remordimiento voi avete commesso il peggiore dei peccati che un uomo o una donna possano commettere: non essere stati felici. E proprio per questo vi propongo il seguente l’esercizio espiatorio: immaginare una vita diversa, azzerare la vostra provando a costruire ipotetici vissuti che, a vostro giudizio, avrebbero potuto rendervi felici. Al contempo, provate a immaginare come dovrebbe svolgersi la vostra vita adesso per considerarvi, appunto, felici, qui e ora, in questo preciso momento. Avrete a disposizione un’ora di tempo per scrivere, anche per sommi capi, ma scrivere (così eviterete di condizionarvi). Potrete scrivere di tutto, senza preclusioni: quello che immaginerete sarà la misura del vostro desiderio. Però tranquilli, tale compito non costituirà assolutamente una prova d’accusa, perché se, per esempio, riterrete che la vostra felicità deriverebbe dal semplice osservare l'infelicità altrui, questo non avvalorerà affatto l'ipotesi che le vostre male-dizioni avranno un potere predittivo. Nondimeno, se opterete per tale soluzione (cosa che non auspico) vi chiedo soltanto la cortesia, o meglio: la delicatezza di non fare nomi, di restare sul vago, di essere insomma allusivi e mai espliciti, soprattutto se l'interessato (interessata) che vi scandalizza così tanto è qui presente.

Questi sono i taccuini e queste sono le penne. Trovatevi - all'interno o fuori dei locali, sotto le logge - uno spazio libero dove riflettere e quindi scrivere comodamente. Siete pregati di non scambiare opinioni tra di voi. Non è un compito in classe, ma quasi. Tre ore sono più che sufficienti. Buoni pensieri».

martedì 10 gennaio 2017

Un colpo di tosse

J.S. Sargent, A street in Venice.

Le parole che non posso
che restano dentro
che fanno fatica
a venire alla vita.
Parole che non nascono
e neanche abortiscono
si mantengono a mollo
in attesa dei tempi
di un Giovanni Battista
con un paio di sneakers
senza stringhe o teorie.

Una specie di blocco
una sorta di freno
un pendolare sereno
un dondolare di treno.

Una mano che cerca
una mano che aspetta:
se dicessi ti amo
lo direi troppo in fretta
Allora non dico
perché dirlo sarebbe
una foglia di fico
che presto cadrebbe.

Lasciamo sia il vento
a scoprire le carte
del tempo dell'arte
di fare la vita
come piacerebbe
immaginare che fosse.

Bastava un colpo di tosse
per schiarire la gola
ritrovare parola
la sola cosa che posso
per levarmi di dosso
questa specie di blocco
questa sorta di freno
questo vivere meno
ma meno per cosa
ma meglio per più.


domenica 8 gennaio 2017

Un lungo processo di lotta

Se si potesse (o dovesse?) misurare l'inutilità politica dei partiti e dei movimenti di sinistra faccia alla globalizzazione, un indicatore da prendere necessariamente in considerazione è quello relativo al tema della riduzione dell'orario di lavoro. Cavallo di battaglia della sinistra europea, esso conobbe in Francia, nei primi anni del Duemila, il suo più alto (!) punto d'arrivo con la legge sulle 35 ore di lavoro settimanale (e anche in Germania, in certe fabbriche tipo la Volkswagen se non erro, fu applicata una riduzione dell'orario di lavoro, a parità di salario, con plauso della classe lavoratrice). Anche in Italia, i rifondaroli comunisti bertinottiani e vendoliani (ma non son sicuro su quest'ultimi) cavalcarono tale ipotesi riformista, senza alcun successo.

Clamoroso è tuttavia vedere come in pochi anni questa proposta sia diventata politicamente lettera morta - addirittura se qualcuno ne parla, gli danno del provocatore o del pazzo - ed è stata oramai sostituita dalla peregrina ipotesi di introdurre, per i disoccupati, il reddito di cittadinanza, vera e propria elemosina di Stato o reddito di sopravvivenza (basica).

[*]
«L’esperimento dell’orario di lavoro ridotto a sei ore quotidiane era stato introdotto dal comune di Göteborg per i dipendenti (in maggioranza donne) dell’ospizio di Svartedalen. Ha funzionato in un senso: perché i dipendenti con l’orario di lavoro ridotto hanno poi lavorato meglio essendo più riposati. Ma per compensare le ore in meno, è stato necessario assumere 17 persone in più, al costo di 12 milioni di corone, cioè circa 1,3 milioni di euro.»
Già dal tono sogghignante del corrispondente di Repubblica si capisce che ben gli sta agli svedesi, senza però che nulla si dica sul fatto che gli statali nostrali da sempre fanno sei ore al giorno. E meno male. «Ha funzionato in un senso [...] i dipendenti con l'orario ridotto hanno poi lavorato meglio». O bravo: era quello lo scopo cara la mia testina. Uno scopo prettamente umano e quindi onorevole. Se i göteborghiani hanno rinunciato è perché, contrariamente agli italiani, si son detti: mancando li sordi, o si aumentano le tasse o si aumenta il debito pubblico. Sai che? Si torna indietro e amen.
Ma la testina corrispondente dalla Svezia in trasferta dalla Germania (il famoso Tarquini, di Tarquinia), mica fa differenza tra un lavoro pubblico e un lavoro privato, tra quei settori produttivi in cui il lavoro è l'imprescindibile fonte di valore del capitale, e quei lavori pubblici che non sono giocoforza produttivi ma che servono alla società perché qualcuno ci dovrà pur lavorare all'ospizio, o no? Oppure i vecchi si ammazzano da bambini?
Tuttavia, credo inconsapevolmente, il Tarquini aggiunge una cosa di formidabile valore politico, che una qualsivoglia forza politica cosiddetta di sinistra dovrebbe cogliere al volo per metterla al primo posto della propria agenda politica. Cioè a dire, udite udite, «per compensare le ore in meno, è stato necessario assumere 17 persone in più». Bum. Eureka. Altro che job act e voucher del cazzo. Lavorare meno e, a parità di salario, lavorare tutti.
Va da sé che tale proposta non ha più senso e valore se viene dispiegata soltanto in una nazione. Ma se diventasse una direttiva da rispettare in una macro aerea, per esempio l'Europa? Insomma, se tutte le forze della Sinistra europea unite si impegnassero nella battaglia della riduzione sistematica dell'orario di lavoro, potrebbe questo portare buoni frutti alla tavola europea e non solo, tenendo conto della forza di ricatto europea per imporre dazi a tutte quelle merci prodotte con un chiaro sfruttamento della forza lavoro oltre il limite insindacabile delle 35 ore settimanali (considerazioni utopistiche, ok, chiedo venia: la Cina, il Bangladesh et similia continueranno a fare un po' come cazzo gli pare).

Tutto ’sto pippone, che sta per concludersi, ha preso spunto da un ennesimo post chiarificatore di Olympe de Gouges sulla questione comunismo e rivoluzione. In particolare, da una noterella finale, questa
«Solo degli sciocchi o gente in malafede può mettersi a discutere su chi cucinerà il pranzo o svolgerà il lavoro di badante in una società comunista. Anche perché la nuova società non è qui dietro l’angolo, non è cosa che si cala dall’alto, che si compie d’un solo passo, ma è necessariamente un lungo processo di lotta, di scontro, di tentativi, di successi e d’inevitabili fallimenti.»
Ecco, per concludere, penso che lottare per una riduzione universale dell'orario di lavoro sia uno sforzo politico che valga la pena compiere, tenendo in debito conto che è solo un passo, fors'anche due.

sabato 7 gennaio 2017

Generale Calasso

C'è un interessante editoriale di Roberto Calasso sul Corsera in cui sono espresse argomentazioni che mi trovano, allo stesso tempo, in accordo e in disaccordo. 
D'accordo riguardo alle reticenze sull'Islam (compresi i proclami deliranti dell'Isis) di cui media, governi e Chiesa sono responsabili, ognuno per motivi diversi.
In disaccordo sul fatto che ci troviamo di fronte a «una nuova guerra di religione». Anche perché se effettivamente noi Occidentali (pagani e cristiani) fossimo immersi in un conflitto religioso, alla domanda «Che fare, allora?», mi sembra che la risposta di Calasso, che è questa:
«Rispondere combattendo a una guerra dichiarata, come sempre è avvenuto nella storia. E innanzitutto studiare il nemico, non temere di osservare le sue parole e i suoi argomenti, in tutti i dettagli. »
sia un po' di manica corta, alla armiamoci e partite, giacché non basta soltanto studiare il nemico (gli studiosi, anche del dettaglio, non mancano), bensì occorre definire quale strategia bellica di contrattacco dovremmo adottare. Innanzitutto: con quale bandiera dovremmo andare in guerra? Con quella pagana o quella cristiana? O una che le riassume entrambe «Uccideteli tutti! Dio riconoscerà i suoi», tanto cara agli atei devoti? 

P.S.
Curiosità. Non è che sotto sotto il nostro caro direttore editoriale ha dato il via libera alla pubblicazione di un pamphlet di Giuliano Ferrara da inserire nella prestigiosa Piccola Biblioteca?

René Guénon, Simboli della Scienza sacra, Adelphi 1975


venerdì 6 gennaio 2017

Il messo (17)

[mi mancano due personaggi per completare il quadro delle presentazioni. Due personaggi, due donne. Dove le pesco? Donde le traggo? Dalla realtà? Quale realtà?
Questa storia è scritta su un filo: da una parte c'è la realtà, dall'altra la finzione. Il problema è che io non sono tanto bravo come equilibrista e spesso cado, un piede qua, un piede là e il filo nel mezzo, tipo tanga.
Inoltre, non sono poi tanto sicuro che finzione e realtà siano l'una il contrario dell'altra. A volte la realtà è così finta e, viceversa, la finzione così reale, vera... o meglio: verosimile.
Insomma, restano due donne per chiudere il giro e, probabilmente, iniziarne un altro.
Orbene, quali donne prendere a prestito dalla realtà, ovvero dalla finzione?]

La vita da gemelli è abbastanza facile da immaginare, per chi gemello non è. Fra i gemelli c'è chi, senza dubbio, non potrebbe vivere un solo istante senza la vicinanza del fratello; e chi, invece, potrebbe eccome per avere l'esclusiva delle cure e attenzioni parentali, senza avere accanto qualcuno che gliele contende.
Carla e Marta appartengono a quest'ultima categoria. Sorelle gemelle, dizigoti, Marta fu la prima ad uscire dal ventre materno e a guardarle se ne potrebbe congetturare la ragione: alta almeno dieci centimetri più della sorella, più entrante, estroversa, una bella donna dai bei gomiti. Carla, il contrario; ma non per questo meno affascinante. Anzi. Bastava parlarci un attimo per preferire invitare lei a cena anziché la sorella (fatto salvo che a Marta avresti sicuramente offerto prima un caffè).
Chiaramente fu Marta a introdurre la loro storia e a esporre le ragioni per cui erano lì. Quando avevano sei anni, i genitori si separarono. «Che cosa vuol dire amichevolmente mamma», chiese Carla alla mamma. «Che io e quello stronzo di tuo padre non abbiamo litigato». Ecco. E, infatti, fu affido condiviso. Un finesettimana a testa. Prima la nuova fidanzata del padre. Poi il nuovo amico della madre. «Due palle gemelle», pensavano le bambine senza, purtroppo – dato il loro carattere e la mancata complicità –, solidarizzare. Non stavano bene insieme, ma vi erano costrette. Anche a scuola, infatti, avrebbero dovuto fare sezioni diverse, ma proprio quell'anno – causa pochi iscritti – fu fatta solo una prima. E così cinque anni di elementari nella stessa classe. E così alle medie, dato che entrambe volevano frequentare l'unica sezione musicale dell'istituto e nessuna era disposta a rinunciare. Altri tre anni di contiguità che, per loro fortuna, s'interruppe alle superiori: iscritte entrambe all'Istituto Alberghiero, ebbero tuttavia l'opportunità di frequentare sezioni diverse, in base al diverso grado di specializzazione prescelto (Marta nel settore cucina, Carla in quello sala-bar).
Dopo il diploma, la comune volontà di rendersi indipendenti dalla famiglia e di allontanarsi l'una dall'altra, le portarono ognuna a cercare lavoro lontano da casa. Lavori stagionali svolti in stazioni balneari o di montagna. Trascorsero così un paio d'anni senza farsi ombra e presero persino il gusto di telefonarsi di tanto in tanto per dirsi come stavano, raccontarsi quello che facevano. Un giorno, Marta rivelò alla sorella di aver conosciuto un “ragazzo”, un aiuto cuoco, con il quale era nata un'amicizia piuttosto profonda; Carla fece altrettanto, dicendo alla sorella che un suo collega le aveva chiesto di trascorrere alcuni giorni di vacanza insieme e quanto sarebbe stato bello – aggiunse lei alla sorella – se avessero potuto organizzarsi per ritrovarsi coi rispettivi fidanzati, così da presentarsi e conoscersi.
Detto fatto: tre settimane dopo erano nella hall di un albergo con spa annessa di Aosta e che stupore fu scoprire che i due ragazzi erano fratelli, tuttavia non gemelli, per quanto si assomigliassero così tanto che chiunque li avrebbe ritenuti tali. Nati uno un anno a distanza dell'altro, avevano avuto un percorso di studio prima e lavorativo poi analogo a quello delle gemelle. Soltanto, una volta lontani l'uno dall'altro, non avevano l'abitudine di chiamarsi spesso se non per farsi gli auguri di compleanno, per questo non sapevano pressoché niente della loro rispettiva vita sentimentale. E se la cosa fu per loro divertente, per le sorelle, invece, non lo fu per niente perché subito subodorarono che tale coincidenza le avrebbe necessariamente riavvicinate più di quanto loro stesse desideravano. E così fu, infatti. Quando i fratelli, forti di una cospicua eredità da parte di una lontana zia, ebbero l'idea di rilevare un agriturismo in Chianti per farlo diventare una sorta di relais, per loro fu evidente proporre a Carla e Marta di seguirli nel progetto che avevano in animo di realizzare.

«Ecco – concluse Carla – la ragione per cui siamo qui è capire. Capire se facciamo bene ad accettare oppure no; capire se stare vicine ci possa allontanare definitivamente, ovvero se per seguire chi amiamo, potremmo correre il rischio che per vent'anni abbiamo schivato e, sembrava, risolto: odiare noi stesse, definitivamente».

giovedì 5 gennaio 2017

Un lettore che giudica

«Il nostro popolo è la comunità dei lettori, che è anche il nostro unico giudice. Il suo verdetto lo emette ogni mattina, decidendo se leggerci o no.»
Ok, stamani ho fatto un'eccezione, ti ho letto e dunque, in quanto lettore, giacché me lo concedi, ti giudico, ma non te, in quanto direttore (certuni pare che per cert'altri nascano con la faccia da direttore e per essi, ma non per me, tu lo nascesti), bensì, limitatamente, riguardo all'editoriale odierno che mi pare un compitino scialbo scialbo che se l'avesse scritto un maturando e ne fossi stato commissario giudicante, in sede di interrogazione gli avrei chiesto - senza alcuna volontà di spingerlo a gettarsi dalla finestra - se avesse in animo di diventare, da grande, direttore di un giornale.
«Sarebbe sbagliato orchestrare una difesa d’ufficio del giornalismo italiano, senza dubbio non esente da pecche e peccati, ma nel dibattito sui falsi che circolano in rete non siamo noi i colpevoli. La prima responsabilità ricade infatti su chi da anni predica l’inutilità di esperienza e competenza, per cui chiunque può concionare su vaccini, scie chimiche, chemioterapia o cellule staminali con la pretesa di avere in tasca una verità popolare, da nulla suffragata se non da un sentimento di massa.»
Ah, il dibattito sui falsi: è questo il problema che vi assilla e del quale, in quanto categoria, voi giornalisti ci tenete a distinguervi, a differenziarvi, a dire «non siamo noi i colpevoli». 
Un atteggiamento che mi ricorda quello di un bambino (il giornalista) che va dalla maestra (il lettore) a dire che un bambino chiamato Beppe gli ha detto che è uno scemo, brutto e cattivo aspettandosi che la maestra rimproveri Beppe e non che gli dica: embè, ti senti così scemo, brutto e cattivo da crederci? O lo è di più chi te lo dice? Specchio riflesso!
Nessuno - perlomeno non io - vi accusa di diffondere notizie false. Il problema è che vi nascondete dietro le notizie (vere), vi limitate a riferire, a commentare, analizzare (si fa per dire) quello che accade senza capire (o voler capire) perché accade; siete meri diffusori, replicatori di una realtà che sommerge l'umano ben più dello scioglimento dei ghiacci.
A partire dai giochini della politica, per continuare con gli illusionismi dell'economia (e lasciamo stare tutto il resto del pettegolezzo cultural mediatico e il merdume sportivo pro sponsoro tua), tutto fate fuorché esercitare una seria critica dell'esistente, lo date per scontato, approvandolo, perché non potete fare diversamente, giacché è lo stato presente delle cose che vi campa, anche se è uno stato piuttosto pietoso, per non dire apocalittico.
E la mia sentenza è questa: ogni mattina, un euro e rotti me li tengo in tasca.

martedì 3 gennaio 2017

I filosofi dovrebbero sapere

«Quando si disse per la prima volta che il sole sta fermo e che il mondo gli gira intorno, il senso comune dell'umanità dichiarò falsa questa dottrina, ma nel campo della scienza, come ben sa ogni filosofo, non ci si può fidare del vecchio modo di dire vox populi, vox Dei». Charles Darwin, L'origine della specie, edizione VI, 1872.
Quando si disse per la prima che il capitalismo è destinato al fallimento perché dal lavoro, che lo fa girare, non riesce più a estrarre plusvalore sufficiente per autoriprodursi all'infinito - e per questo, da molti anni, ricorre sempre più alla logica soccombente del capitale finanziario, che consente soltanto di procrastinare la resa dei conti - il senso comune dell'umanità, aiutato dalle politiche riformiste di varie correnti (liberiste, keynesiane, stataliste), dichiarò falsa questa teoria, ma nel campo della scienza, come dovrebbe sapere ogni filosofo, non ci si può fidare del vecchio modo di dire vox populi, vox Dei, con dèi (o dii, come direbbe Aniene) intendendo tutti i caporioni che cercano disperatamente di far credere al popolo che dalla crisi si esce col lavoro, colla crescita (e la ricrescita der pelo), coi sacrifici e coi Presidenti Trumpi sparsi per il mondo che c'hanno le ricette, voce grossa e cazzo ritto per dire a qualche capitalista «Ao, andò vai, in Messico? Sta’ bbono sennò fo er ratto de tu sorella».

Gli americani, già. Da oltre un secolo nazione più ricca e potente del globo, avranno avuto modo per fare gli isolazionisti, di chiudersi nel loro giardino, coltivarlo serenamente, pensare per sé, fregarsene del resto del mondo. E invece neanche il dominio continentale gli bastava. Oddio qualche volta ci hanno fatto pure comodo, un aiutino a scacciar li crucchi ce lo dettero (e concediamo pure a contenere i sovietici, pur con tante invasioni liberali da parte loro). Ma dalla caduta del muro di Berlino in poi non avrebbero potuto fare come adesso ha in animo di imporre il nuovo presidente americano? Come mai tanto interesse per la globalizzazione e il mantenimento dello status quo? Care bellefiche filosofiche ce lo sapreste dire?

lunedì 2 gennaio 2017

Il messo (16)

Adesso toccava a lui, Mauro (poco più di trent'anni, una lieve pinguedine e i capelli che parevano reclamare sempre uno shampoo)  e non poteva nascondersi: il giro antiorario delle presentazioni prevedeva il suo turno.
Figlio di piccoli agricoltori specializzati in colture vivaistiche, a lui era destinato continuare l'attività di famiglia, essendo figlio unico e avendo già conseguito, con profitto, la maturità di perito agrario. Ma un giorno di tardo autunno, quando lui aveva poco più di vent'anni, un commerciante di alberi di natale, che da tempo acquistava, presso la loro azienda, un'ingente partita di piccoli abeti, fece sapere ai genitori e a lui che un suo caro amico, responsabile della manutenzione di Autostrade per l'Italia, cercava un giovane esperto di tecnica forestale che si occupasse dell'impianto e della cura delle aiuole, degli spartitraffico e degli svincoli della rete autostradale. Furono i suoi che lo convinsero a tentare tale esperienza lavorativa. Gli dissero che ancora loro ce la facevano da soli a gestire l'azienda; e poi questo avrebbe consentito a Mauro di conoscere il mondo, lui che era sempre stato riservato, introverso, con pochi, anzi: forse nessun amico amico, e delle ragazze, beh, neanche a parlarne. Mauro sulle prime maledì il commerciante, poi vide negli occhi dei suoi un desiderio autentico di allontanarlo, di staccarlo definitivamente dal cordone ombelicale per farlo diventare – mormoravano nella creduta intimità notturna del letto – un vero uomo. Già perché Mauro sin da piccolo, avrà avuto sei o sette anni, appena i suoi si coricavano, aveva preso l'abitudine di alzarsi e di mettersi in silenzio dietro la loro porta per ascoltare, le più volte un bisbiglio che si trasformava presto in un respiro grosso regolare, indice del sonno (cosa questa che lo tranquillizzava al punto di farlo ritornare svelto sotto le coperte per addormentarsi subito) oppure, rare volte, in un respiro affannoso e un muoversi scomposto che non riuscì granché a decifrare fino all'età pubere, o ancora, saltuariamente, in una conversazione abbastanza chiara e scorrevole che proseguiva il discorso fatto a tavola durante la cena – e di esse talvolta era proprio lui l'oggetto del discorso.
Mauro questa storia del vero uomo non l'aveva mai capita. «Cosa voglia dire “vero”, non lo so. Non è già abbastanza essere quel che si è? Perché quello che sono è “falso” e pregiudica la mia esistenza? Non sono un uomo “vero” perché non ho un amico, una donna, un cazzo d'interesse oltre gli studi e la pratica che svolgo in azienda? E mio padre, per caso, è un esempio da seguire in quanto al “vero”?». Fu forse per dare una risposta a questi ricorrenti interrogativi che Mauro acconsentì alla proposta professionale che gli si prospettava.

Il colloquio andò bene, fu assunto in pianta stabile e subito iniziò a svolgere il lavoro in lungo e largo per l'Italia. Più o meno ogni settimana cambiava destinazione e ciò gli impediva naturalmente di mettere radici altrove (e questo era anche uno dei motivi sottotraccia che persuasero i genitori della bontà di quel lavoro). Andava d'accordo con tutti i colleghi, ma con nessuno riuscì a entrare in confidenza. Una volta, l'amico del commerciante, un uomo adulto, già sposato e con prole, lo convinse a trascorrere una serata in un locale particolare a vedere spogliarelliste ed eventualmente – gli disse – portarsele a letto. «A letto dove?», chiese Mauro e l'altro gli dette una pacca sulle spalle come ad una sagoma. Era la prima volta che vedeva una donna nuda dal vivo e questo gli fece pensare che il suo mestiere di giardiniere non era del tutto casuale. Infatti, più che un essere umano, ebbe l'impressione di trovare davanti a sé un angolo di terra in attesa di essere coltivato. Di quella sera, tuttavia, la cosa che più ricorda ancora è il fumo in bocca che gli fu soffiato dalla ragazza che gli si presentò davanti senza veli – e fu da tale esperienza che trasse l'idea, apprezzata dall'amministrazione di Autostrade, di seminare, accanto allo specchio di venere, la menta piperita. Le occasioni di tali serate divertenti si ripeterono saltuariamente, sì che non ebbe modo di diventare dipendente dall'amore a pagamento. Anzi. Da ragazzo parsimonioso qual era, in capo a pochi anni riuscì a risparmiare una bella somma di denaro che avrebbe – pensava – persino permesso al padre di ricomprare un nuovo trattore. Ma non fu così. Sette anni dopo, il padre ebbe un infarto e divenne oramai chiaro a tutti che non poteva più essere lui a dirigere l'azienda. La madre si aspettava, con sufficiente sicurezza, che a questo punto Mauro lasciasse il suo lavoro e ritornasse a occuparsi di quel che un giorno sarebbe diventato suo. Una sicurezza infondata. Infatti, Mauro la prima cosa che fece rientrato al paese, non fu di tornare a casa, ma di iscriversi al corso per capire che cosa fosse realmente quello che in fondo desiderava di più.