venerdì 30 giugno 2017

Etimologia della crisi

L’etimologia si identifica con l’origine degli strumenti denominativi allorché la forza di un nome o di un verbo si ricava mediante un’interpretazione. Aristotele la chiamò σύμβολον, Cicerone, invece, adnotatio, poiché essa, sulla base di un esempio, offre la nozione dei nomi e dei verbi esprimenti la realtà: in tal modo, fiume ha tratto il proprio nome da fluire perché cresce fluendo.

La conoscenza teorica dell’etimologia si rivela spesso di utilità imprescindibile all’interno del concreto esercizio interpretativo proprio dell’etimologia stessa: quando infatti vedi da dove è nato un nome, più rapidamente comprendi la forza che quello stesso nome racchiude. Conoscendo l’etimologia, l’esame di ogni realtà diviene certamente più facile. Non tutti i nomi, però, sono stati imposti dagli antichi secondo natura: alcuni anche secondo il gusto, così come anche noi diamo a volte nome ai nostri servi o ai nostri poderi in base a ciò che piace al nostro volere. Da qui il fatto che non di tutti i nomi è possibile trovare un’etimologia dal momento che alcuni hanno ricevuto il proprio strumento denominativo non in base alle loro qualità innate, ma secondo l’arbitrio della volontà umana. Le etimologie dei nomi si danno o per causa – ad esempio re da [reggere o] agire rettamente – o per origine – ad esempio homo, che significa uomo, perché creato ex humo, ossia dalla terra – o per contrarî – ad esemplo lutum, che significa fango, che viene da lavare per il fatto che il fango non è pulito, e lucus, cioè bosco, così detto perché il bosco, oscurato dall’ombra, riluce poco.

Isidoro di Siviglia, Etimologie o origini, Utet. Torino 2013

Un bancomat. Un signore, credo un pensionato, persona distinta, incivilita, sta concludendo delle operazioni, probabilmente un prelievo. Indugia qualche secondo di troppo, ma non fa niente, non ho fretta. Quindi si scosta, esitante, parlottando qualcosa che non capisco, si aggiusta la giacca e si perquisisce, controllando se il portafogli è nella tasca giusta. 
Tocca a me. Avanzo verso il terminale, ma il signore non si scosta di molto, sta quasi a fianco, con aria distratta, fischetta qualcosa. Lo guardo di sbieco e «Buongiorno», gli dico, con un tono non propriamente cordiale, come di chi saluta sbrigando una pratica e deviando lo sguardo per non aggiungere parola. Niente. Il signore resta sul posto, dondolante, ma volta lo sguardo alla parte opposta del terminale, facendomi digitare con tranquillità il codice segreto.
Clicco il taglio dei contanti desiderati, rifiuto la ricevuta, estraggo la carta entro i 30 secondi, prendo il contante e lo metto nel portafogli. In quel momento, il signore rivolge lo sguardo e dice: «Senta, per favore. Come ha visto, ho provato anch'io prima di lei, ma non è uscito niente. Siccome la pensione mi arriva il primo [del prossimo mese, immagino], ce l'avrebbe mica due euro per comprare il pane?»
Il pane?
Controllo invano nelle tasche e nel portamonete, ma ho solo un euro (e non sono troppo samaritano da dargliene cinquanta).
«Tenga. Ho solo questo, mi scusi».
«Fa niente, si figuri: andranno bene per il companatico».

mercoledì 28 giugno 2017

Manipolatori di elezioni cercasi


Dopo l'epidemia di morbillo che miete vittime come una trebbiatrice miete grano quando circola sull'asfalto, un cyber attacco colpisce l'Italia pesantemente, colpendo soprattutto le teste dei titolisti e dei giornalisti in generale. 
Ma Kiev avverte: 
«Russia cercherà di manipolare vostre elezioni».
Intanto ha manipolato gli articoli la e le; ed è tutto dire.

È interessante constatare come i media italiani, da buon ultimi, ripetano le stesse trame imbastite prima dai media statunitensi e poi anche da quelli francesi  Gli hacker russi, ingaggiati dal Cremlino, manipoleranno "anche" le nostre elezioni. E sia. Nondimeno, prima di pubblicare stronzate, sarebbe opportuno farsi delle semplici domande. Per esempio, la manipolazione: a vantaggio di chi sarà fatta? Berlusconi, Salvini, Renzi, Grillo, Meloni perché già appoggiata da La Russa? Ma soprattutto: in che modo, visto che ancora neanche noi italiani sappiamo con quale sistema elettorale andremo a votare? O meglio: sarà per timore dei russi che la questione è stata rimandata a settembre?

Ahimè! E io che dell'Ucraina avrei voluto sapere come è andato il raccolto del grano, parte del quale sarà esportato nel nostro paese e utilizzato dai principali pastifici. O anche sapere come sta Julija Tymosenko, se dispone ancora la treccia sulla testa come fosse un'aureola e se le sue gambe eleganti sono (spero tanto per lei) ritornate a ballare. Non certo per me.

martedì 27 giugno 2017

Moolta a Google

«L’Unione Europea accusa Google di mostrare – nelle sue pagine dei risultati – link verso siti per gli acquisti online che pagano per essere messi in evidenza, senza dare spazi ad altri motori di ricerca dedicati esclusivamente allo shopping come Kelkoo. Secondo la Commissione, la dimostrazione più evidente è il pannello con le anteprime dei prodotti che Google mostra in testa alla sua pagina dei risultati quando si cerca uno specifico prodotto: se si cerca “pentola a pressione”, il motore di ricerca mostra una serie di anteprime con prezzi e caratteristiche che rimandano direttamente al sito del venditore. Per finire in quella posizione privilegiata, i venditori pagano Google come per i classici annunci pubblicitari mostrati in testa nella pagina dei risultati. I siti che offrono servizi analoghi, cioè che permettono di confrontare i prezzi di un prodotto tra diversi venditori, dicono di non essere messi in evidenza a sufficienza nelle pagine dei risultati e di subire la presenza del pannello con le anteprime, che porta gli utenti a non utilizzare o notare i loro servizi.» via
Invece di multare Google (e altre multinazionali del settore) perché non paga(no) le tasse specifiche di ciascuna nazione dove opera(no), i commissari europei emettono multe per questo genere di infrazioni; e ciò, a mio avviso, è un po' come imporre un limite di velocità in un tratto di strada mentre le auto stanno circolando e senza installare cartelli che per indicare le nuove disposizioni. 
Che Google, da tempo ormai (e da oggi non più, fateci caso), mettesse in evidenza gli annunci sponsorizzati, se ne era accorto anche mio nonno, al quale - pover'anima - gli avevo insegnato a scorrere la rotella del mouse in basso per evitarli e scegliere con un pochino più di autonomia.

Ma veniamo al dunque: dato che Der Kommissar, Margrethe Vestager, pretende di avere miliardi, nel caso li ottenga, si può sapere dove li metterà? Rifonderà quei siti che, poverini, «permettono di confrontare i prezzi di un prodotto tra diversi venditori»? Oppure pagherà un caffè a tutti gli utenti che non ne avevano notato i servizi?

Il deliquio del capitale

«Gli svenimenti, comunque, sono diminuiti nell’ultimo anno: da 1.800 nel 2015 a 1.160 nel 2016. Lo ha assicurato Cheav Bunrith, direttore dell’ente di previdenza cambogiano» via
Gran parte dell'abbigliamento che compro e indosso è prodotto in Cina e in altre nazioni del Sud-Est asiatico. Devo dunque sentirmi, seppur in parte minima, responsabile delle condizioni di lavoro in cui sono costrette a lavorare le operaie e gli operai del settore tessile e calzaturierio di quegli stati?

No.

Non cominciamo con le colpe e con la coscienza creativa del consumo responsabile. Per un paio di Asics decenti ci vogliono almeno una settantina di euro (scontate), e che? devo spenderne settemila per non far svenire le addette alla produzione?

Sono dunque colpevoli Nike, Asics, Puma, VF Corporation, eccetera - nella fattispecie: il management che - in virtù della globalizzazione - ha dislocato la produzione in stati dove lo sfruttamento della forza lavoro è massimo e i diritti dei lavoratori al minimo?
Sì e no. Sì, nel senso che sono responsabili di adeguare la produttività dell'azienda agli standard previsti per essere competitivi sul mercato globale, pena il declino e, poi, il fallimento dell'azienda; no, perché questo adeguamento non lo fanno perché sono cattivi insensibili e inumani (anche se ci mettono del suo), ma perché, appunto, al sistema produttivo capitalistico fotte sega quali sono le condizioni di lavoro delle operaie e degli operai, l'importante è spremere per estrarre il succo, il pluslavoro, che è l'unica sostanza che aggiunge plusvalore al valore investito. Per non scimmiottare la questione, rimando a Olympe de Gouges, perché spiegare la faccenda meglio di così...

Sono per caso i governi di quelle nazioni a essere responsabili perché permettono alle multinazionali di imporre un regime produttivo ai limiti del servaggio?
Neanche. Nella competizione globale, alle nazioni con una struttura socio-economica arretrata e che non hanno ricchezze copiose nel sottosuolo, non resta che gareggiare con il capitale umano presente nel proprio territorio, per sfruttarlo in modo estensivo - e sottocosto.

E allora, anche questa volta, la colpa muore vergine?
No. Il problema è che il colpevole non è qualcuno, bensì qualcosa di impersonale: un sistema di riproduzione sociale che fa dell'uomo un mezzo e non il fine. È la logica del valore il vero responsabile della crisi che investe il consorzio umano.
Lascio la parola a Samuele Cerea che, nell'introduzione al libro di Robert Kurz, Il collasso della modernizzazione, Mimesis, scrive:
«Nella società moderna plasmata dal valore le relazioni umane su cui si fonda la riproduzione sociale devono prendere necessariamente la forma dello scambio di merci e della transazione monetaria e gli individui sono membri della società a pieno titolo solo in quanto venditori della loro forza-lavoro».
Ecco, care operaie cambogiane, piango con voi, ma sappiate che i vostri svenimenti - oltre a pagarvi un piatto di riso e poco più - sono una garanzia di identità. 

Che fare? 
Per il momento non mi sembra che ci sia qualcuno in esilio in Svizzera.

lunedì 26 giugno 2017

domenica 25 giugno 2017

Centostronzi

«L'ormai ex re del prosecco - che a partire dagli anni Novanta ha progressivamente trasferito patrimonio e aziende ai figli - si è presentato alla caserma della guardia di finanza di Vicenza assieme ai penalisti che lo assistono».

A volte, sotto l'effetto di un buon bicchiere (non di prosecco del cavalier Zonin), esagero e mi escono di bocca cose.
Per esempio: ne avessi facoltà, io domani alla figlia di Riina concederei il bonus bebè.

Stasera, per l'appunto, ho aperto una bottiglia di Placido Rizzotto rosso
Placido Rizzotto Rosso
prodotto nelle terre libere dalle mafie.
Ne avessi facoltà, io domani esproprierei tutti i tenimenti passati di mano ai figli di Zonin e sulle etichette delle bottiglie scriverei: vino prodotto nelle terre libere dai presidenti di banche che non sapevano nulla delle frodi compiute dai direttori operativi.

Serve a poco, lo so. Le mafie e il malaffare continueranno a esistere. Tuttavia, una gioia ogni tanto consola.

sabato 24 giugno 2017

Incomprensioni 3

Avevamo da poco superato lo stretto di Hormuz quando Annalisa chiamò per dirmi, tutta contenta, che era una bambina. Mi ero espressamente raccomandato con lei di farmi sapere il sesso di nostro figlio, per prepararmi, per pensare a come affrontare questo evento, giacché se fosse stato maschio, credo che avrei dovuto premunirmi, chiamare un medico specialista in traumi infantili, uno psicologo dell’età involutiva, perché ciò è stata la mia infanzia: una involuzione, un avvolgermi su me stesso fino a che non mi sono dispiegato per le vie del mondo.

«Come è carino tuo figlio, ma guarda come è carino, sembra una bambina» ripetuto cento, mille, quarantadue volte al giorno da quelle stronze di amiche e conoscenti di mia madre, addirittura le zie di Varese e di Brescello, al telefono, la domenica mattina per salutare i rispettivi fratelli, i mie genitori, «Come sta Luciano, mandaci le foto, ma perché non lo porti a Milano a fare i provini per la pubblicità». Stronze. Carino… bellino... un amore... una sega.
Non ero padrone di andare comprare un litro di latte che c’era sempre qualche adulta a sorridermi e farmi una carezzina al capo o darmi un pizzicotto sulla guancia. E i miei amici, a scuola e fuori al parco, giù a prendermi in giro, a chiamarmi Luciana, o Lucilla, a farmi le linguacce e io a maledirli prima, inutilmente, a fare finta di niente e sopportare, una tortura.
Una volta diedi persino uno schiaffo a uno più piccolo di me, perché rideva quando i grandi mi sfottevano. I grandi, già, ci provai a reagire con uno, ma prevedibilmente ebbe la meglio, mi spinse a terra e dopo stetti peggio che mai.
Soffrivo perché, sebbene – a sentita dire – di aspetto lo fossi, io non mi sentivo affatto effemminato, non percepivo dove risiedesse tutta la carineria che mi attribuivano, so soltanto che non mi portava bene coi miei coetanei, e non mi fregava niente se mi teneva in auge coi grandi: mi avessero fatto toccare i seni, le signore, o infilarmi sotto le sottane, mi dicevo piuttosto consapevole dei miei desideri anche da piccolo. Per la verità, una signora c’era che mi stringeva a sé, forte al petto, ed era una delle poche volte che sopportavo di buon grado tutte quelle smancerie.
Il primo moto di ribellione che ebbi fu quel giorno in cui mia madre decise di portarmi dal barbiere (anziché dalla sua amica parrucchiera, ch’era in ferie), e gli dette anche le indicazioni come farmi i capelli: ebbene, io ricordo che al barbiere dissi di tagliarmeli di più, quasi a zero e di usare lo stesso rasoio che usavano per la barba, sentire quel cr cr di taglio strappo sui ciuffi di capelli mi infondeva forza e voglia di avere già vent’anni e di andare via. Che scenata gli fece mia madre al povero Millimetro che, impassibile, si accese un’esportazione senza filtro e si mise a spazzare via i capelli dal pavimento.
[...]

venerdì 23 giugno 2017

A tratti

A tratti la vita
presenta dei fatti
che sembrano darti
l'impressione
di avere il controllo
di essere al centro –
e tutto dintorno
pare che ruoti in funzione
del tuo desiderio.

A tratti diversi
la vita ti prende alle spalle
e l'impressione
di avere il controllo
svanisce, il centro
si perde in un gorgo
di misfatti e niente
gira come vorresti –
e ti arrendi.

A tratti
la vita neanche la vedi
perché vivi come se fosse
per sempre:
e quanti ritardi
inutili attese
zero rimpianti
decisioni mai prese
ché la vita ti sembra
permanente.

A tratti
vivere una vita da distratti:
non prestare attenzione
a quello che passa
nella bolgia dei fatti
tra vita che passa
e vita che sta 
morire ignorando
che la vita finisce
è l'unico scampo
che il dolore lenisce.

A tratti
vivere una vita da matti
rinchiusi ma capaci
di liberarsi in vita
della vita intesa come condanna:
fumarsi una canna
riempirsi di baci
distesi sull'orlo del vuoto
come dei gatti
in attesa di un sogno 
che faccia cadere
con un colpo di reni
all'impiedi
(occhi su occhi
mani su seni).

giovedì 22 giugno 2017

Basta tabù




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E se alimentassimo la rete idrica con la metà della produzione annuale vinicola italiana (mediamente 22 milioni di ettolitri), soprattutto con quei «vinelli leggiadri dai tannini smussati»?

mercoledì 21 giugno 2017

La tristezza e Lagioia

Ho letto un'intervista a Lagioia e, in certi punti, mi è saltata addosso una tristezza che voglio condividere.
William Faulkner è il grande poeta epico del Sud. Tutti siamo voluti essere dei suoi allievi, e tutti ci siamo illusi di aver imparato qualcosa da lui. García Márquez, Malcolm Lowry, Mo Yan e tanti altri non avrebbero scoperto i propri stessi mondi d’appartenenza se William Faulkner non avesse sfondato per tutti una ben determinata porta. Il suo speculare non è James Joyce, come si crede, ma Franz Kafka, che è il grande scrittore del Nord almeno quanto Faulkner agita lo scettro (che a seconda dei momenti è un bastone pastorale o una bottiglia di gin) sull’altra parte del mondo.
Sfondatori di porte su Rieducational Channel. Ma soprattutto: se uno riflesse un po' su Faulkner come “grande poeta epico del Sud” e Kafka “come grande scrittore del Nord”, non gli verrebbe naturale toccarsi le palle - pubblico femminile compreso - e verificare che una è a Est e l'altra a Ovest?
Non parto mai per un’avventura senza Dylan. Con il Salone del Libro mi ha molto aiutato: quando c’era da fare muro contro muro con qualche interlocutore, lo mettevo in cuffia mezz’ora prima, ed ero pronto a giocarmi il tutto per tutto.
Anche per prendere il Bari-Molfetta, Jokerman a palla?
Augh.
A prescindere dal merito - e non discuto che Lagioia sia meritevole, può essere, come no, alla radio è bravo - se il prezzo per dimostrare di esser intellettuale organico-poeta laureato-maître à penser è lasciare i propri centesimi di cultura all'intervistatore che - con domande piuttosto del cazzo - ti elemosina saggezza, fatemelo dire, meglio essere evasivi, orsù, l'oracolo di Delfi non dice né nasconde, ma accenna, e i nomi tutelari, i santini, ognuno se li tiene nel proprio portafoglio, ogni tanto gli dà una sbirciatina, mica ti danno crediti formativi, su, importa sega cosa ascolti in cuffia e cosa leggi la sera prima di addormentarti e fare incubi, o meglio: se ne vuoi parlare sii preciso, non generalizzare, entra nel dettaglio, disorienta, ché i punti cardinali, diovoglia, li sappiamo già.

martedì 20 giugno 2017

Made in


Dalla Cina. No, perché quegli altri, iPhono compreso, vengono da Marte.

Con preghiera di

- Buonasera Dio.
- Buonasera uomo.
- Che cosa pensi delle preghiere?
- In che senso?
- Ti piacciono?
- Non mi fanno né caldo, né freddo.
- Come mai, allora, la preghiera si è imposta come la principale forma di comunicazione tra noi e te, o Altissimo?
- E daje con questo Altissimo (poro Renato). Che cosa vi fa supporre che io sia altissimo? 
- Era per usare un superlativo assoluto.
- Lascia stare. Comunque: le preghiere, secondo me, sono una forma inutile di ossequio.
- Come si ossequiano i signori...
- Esatto.
- Ma tu essendo il Signore, meriti forme di ossequio adeguate, come le preghiere.
- Io farei anche a meno, dacché al novantanove per cento sono lagne inenarrabili. 
- Come il rosario?
- Chi Rosario? Dawson? Mica tanto lagna, lei.
- E del Padre Nostro che ne pensi?
- A tratti è passabile. La prima parte, per esempio, mi localizza (sono, infatti, nei cieli. Quali? Mistero della fede), mi santifica, mi sprona a governare l'universo. La seconda, invece, con tutte quelle richieste (Dacci , Rimetti, Non ci indurre, Liberaci) un po' mi infastidisce.
- Perché non sei in grado di soddisfarle?
- Riguardo al pane: non ci sono problemi, vedi quanto ne va sprecato. Riguardo ai debiti: risanare le banche, dalla Goldmann e Sachs, a Banca Etruria, mi sembra già abbastanza. Riguardo alle tentazioni: suvvia, che nel momento stesso in cui mi chiedete di non indurvi in tentazione, pregate, in cuor vostro, di essere tentati... e a buon fine. Riguardo al male, dovete capire una cosa: o sono un Dio d'amore e allora sono impotente, o sono un Dio onnipotente e allora il male è possibile. In vista di che cosa? Misteri della fede.
- Annunciamo la tua morte o Signore...
- Aspetta che mi tocco...
- ... proclamiamo la tua Resurrezione
- ... in attesa della mia venuta.
- Un Dio sacrilego.
- Macché: io sono tutto fuorché una faccenda seria.
- Un Dio antropomorfo.
- Non bestemmiare, please.
- Più ti parlo e più sei sfuggente.
- E lasciami sfuggire. Soprattutto: lasciatemi divertire. 
- Le preghiere, dunque, non ti divertono?
- No: mi tediano. Questo perché, contrariamente a quanto sostiene il Catechismo, la preghiera non eleva le vostre anime a me, ma le atterra nella mediocrità, perché figurati se io ho bisogno di sentirmi ripetere tutti i giorni, per x miliardi di volte al giorno, che io sono questo e quello: lo so chi sono. Piuttosto voi non sapete chi siete e che cosa realmente volete in quanto mortali che credono a me, perché così passa il caso della tradizione nella quale le vostre menti imberbi sono ficcate. Io, se esisto (a volte lo metto in dubbio, ma è una faccenda mia), vorrei interlocutori in grado di interloquire, non di ripetere a babbo morto sempre le stesse parole che nella ripetizione perdono ogni significato.
- Ma perché, allora, le autorità religiose parlano della bontà della preghiera, insegnandola e prescrivendola?
- Perché la preghiera costringe il pensiero dentro un riflesso condizionato. 
- Uhm. Questa frase mi dà pensare.
- E tu pensa. Anzi, no: prega.

domenica 18 giugno 2017

Incomprensioni 2

Poi un giorno, durante una breve vacanza a Sirmione – un cameriere dagli occhi lucidi ci aveva appena servito del luccio  –, i suoi crucci non furono più confortati dallo svolazzio dei balestrucci e me lo disse, chiaro e quadrato come il tavolo del ristorante dove eravamo seduti: voleva sposarsi, ma più ancora: voleva un figlio, subito. 
Sua sorella, più giovane di cinque anni, era alla seconda gravidanza, la sua amica aspettava dei gemelli, e lei, lei che sino al quel momento non aveva fatto della maternità un obiettivo, ecco, adesso lo diventava, voleva un bambino, era il momento giusto, trentasette anni, non poteva più aspettare, anche se prima non solo non aveva aspettato, proprio non ci aveva pensato, ecco tutto, mentre adesso ci pensava, domandandomi, inoltre, perché io non avevo ancora chiesto il trasferimento in ufficio, com’era previsto dal contratto, giacché, dopo un tot di anni, l'azienda consentiva di far domanda e lavorare sulla terra ferma, alla distribuzione di quello che finora avevo contribuito a trasportare via mare.

Un figlio. Io non ci avevo mai pensato a un figlio. Anche quando alcuni colleghi prendevano congedo per la nascita della prole e poi, dopo alcune settimane, rientravano in servizio entusiasti e coi cellulari zeppi di foto del neonato, ebbene, ciò non mi faceva alcun effetto, non sentivo scoccare alcun desiderio analogo – e non solo perché nessuno, tra i miei colleghi,  era un punto di riferimento o modello. No. A meno di non essere folli, la nostra epoca non consente di idealizzare alcun individuo, casomai una situazione, uno status, un immaginario collettivo che imprime nelle nostre tavole di cera certe forme del desiderio piuttosto di altre. A parte questo, penso però che il vero motivo per cui non ero mai stato assalito dal pensiero della paternità è che quando ricordavo la mia infanzia pensavo al periodo più infelice della mia vita e l'ultima cosa che volevo era rivivere una medesima tristezza negli occhi di un altro bambino, soprattutto se fossero stati gli occhi di mio figlio.

Ma di questo racconterò un'altra volta, se ci sarà tempo (se ci sarà voglia).

Dopo cena, nella confortevole camera d'albergo, Annalisa era euforica e della sua decisione e per aver bevuto qualche qualche bicchiere di Lugana in più. Temevo il peggio. E infatti. 

In quindici anni di fidanzamento era la seconda volta che prendeva l'iniziativa. La prima fu quando, dopo due anni, le dissi che non ero convinto di noi due, ch'era meglio prendersi una pausa. La secondo fu quella sera, quando sentii le sue mani scivolarmi addosso come acqua di lago: le dissi che avevo bisogno di una doccia.

venerdì 16 giugno 2017

Incomprensioni

Ho deciso di lasciare da parte tutte le incomprensioni, casomai fruttassero come i buoni postali, con tassa agevolata al 12,50% e garantiti dallo Stato. Ho in vista diventare chiaro, limpido, trasparente come un paio di lenti appena uscite dall'officina Galileo, precise, potenti, che permettono di contare tutti i buchi della luna, e riempirli, con le incomprensioni rimaste nel portafoglio. Anche dietro, dark side of the moon, là dove tignola e ruggine non hanno speranza di attecchire.

Io le avevo spiegato come stavano le cose e l'intenzione che avevo di procedere, piano, quindici anni di fidanzamento sembrano troppi, ma non c'è mai fine al conoscersi, si cambia in continuazione, in capo a pochi anni ogni cellula del nostro corpo è rinnovata e, sebbene abbiano conservato le stesse istruzioni scritte nel genoma per riproporsi com'erano prima, le cellule sono via via più attente a non lasciarsi trascinare in patimenti inutili, giocano di conserva,  se ne fottono - e se lei non ha capito, capirà e sennò pazienza, io ce l'ho messa tutta per essere chiaro, limpido, trasparente come uno specchio della Rinascente sul quale milioni di donne in capo a un anno lasciano la loro immagine riflessa e catturata da apposite società di marketing che, sulla base di algoritmi specifici, determinano usanze e costumi della stagione successiva.

Il lavoro, ecco: tutta colpa del lavoro. Viaggiare sulle petroliere porta via tempo, di porto in porto, molto al largo, passando talvolta dagli stretti. Quanta pace a bordo, però. Quanto tempo per pensare, scrivere, far di conto. Quindici anni, tre lustri, vedersi ogni tot mesi, felici di stare insieme dopo tanto, fare questo e fare quello, di nuovo separarsi, rattristarsi, eppure, dopo, dopo un tot di mesi, ritrovarsi e via daccapo.
[...]


Iva soli

«C'est triste des gens qui se couchent, on voit bien qu'ils se foutent que les choses aillent comme elles veulent, on voit bien qu'ils ne cerchent pas à comprendre eux le pourquoi qu'on est là. Ça leur est bien égal. Ils dorment n'importe comment, c'est des gonflés, des huîtres, des pas susceptibles, Américains ou non. Ils ont toujours la conscience tranquille». 
Louis-Ferdinand Céline, Voyage au bout de la nuit


Più o meno è vero: abbiamo la coscienza tranquilla, da brave ostriche.  La sera, la notte arrivano e che vuoi fare? Vuoi metterti a litigare con te stesso sullo Ius soli? Non posso. Fossi lussemburghese, forse. Mi batterei con vigore affinché altri non lo diventino. Ma italiano, suvvia, lo sia chiunque: che c'è di prezioso in sé nell'esserlo? Il parlarlo e lo scriverlo, forse. Altro? Ad esempio: pagare la tassa di circolazione dell'auto, della caldaia e dei pannelli solari alla Regione di appartenenza?

Per risolvere la questione: io darei la cittadinanza onoraria a tutti coloro che la richiedono, indistintamente. Con l'Iva al 22%.

mercoledì 14 giugno 2017

Baci

«Devo andare», mi disse con una punta d'incertezza che io colsi, per cui non mi mossi, restai seduto, doveva alzarsi lei, tra l'altro dovevo finire il mio caffè ristretto, lo lascio sempre raffreddare da quella volta che mi scottai la lingua il giorno del nostro primo appuntamento, il giorno del nostro primo bacio, che le detti, appunto, con la lingua ustionata e fu più patire che godere, ma io non glielo dissi mica, che pativo, questo è il punto, in quel momento persino una spina su un fianco non avrei percepito, epperò volevo dirglielo adesso che se ne stava andando, che mi lasciava così su due piedi (non ho mai capito perché la gente si lasci su due piedi e non su due mani, o altro, per esempio, cinque o sei dita, due pollici, un orecchio da mercante e un occhio per occhio dente per dente, se mi lasci, ti lascerò anch'io, che credi, la prossima volta magari, appena me ne darai il tempo), senza preavviso, senza avermi dato il tempo di mettermi la camicia di jeans, quella che trovava sexy quando me la sbottonava, lentamente, e si metteva ad giocherellare con quei pochi riccioli che ho sul petto, «Sai, lo facevo spesso anche a mio padre», «Oddio», rispondevo «io non posso ricordarti lui, mi vedi? sono toto coelo differente», «Per questo mi piaci, per questo voglio stare con te, io ho ammazzato Edipo da giovane, che credi», «E ti credo, certo che ti credo; magari se però scendi con quella mano ti crederei di più», ecco, e tu aumentavi il sorriso a dismisura, che diventava un sole, e io, occhiali non avendo, per non abbagliarmi, chiudevo gli occhi, eccetera.

Disse ancora: «Devo andare», ma con maggiore esitazione, come se aspettasse da me una preghiera per fermarla. Quindi ripose il cellulare nella borsa, estrasse il portafogli, controllò l'importo dello scontrino, vi pose sopra i soldi, mi guardò con aria incerta, forse aspettando un saluto, una lacrima (o insulto e uno sputo?), si levò dalla sedia, ma non completamente, come chinandosi per controllare non le fosse caduto qualcosa ai piedi e, in quel momento, posai la mia mano sul suo braccio e dissi: «Aspetta. Concedimi ancora qualche minuto».

Non riuscii a interpretare se nel suo sguardo vi fosse più un'espressione contrariata o soddisfatta. Credetti alla seconda, per predispormi a un discorso meno astioso, più tenero e melanconico, che – speravo – avrebbe potuto instillare in lei un minimo di ripensamento. Perché aveva scelto di stare con me, in fondo? Perché, beninteso, là dove non ci sono rapporti di forza o di potere sono quasi sempre le donne a scegliere. «Perché avevi un'aria interessante, parlavi bene, ma soprattutto: sapevi ascoltare. Vedevo i tuoi occhi seguire i miei occhi e non le labbra mentre sillabavano le parole della mia storia. Tu – anche adesso, per dire – mi guardi negli occhi mentre parlo e io, parlando, mi sono sentita, forse per la prima volta, interamente ascoltata. Prima di te, soltanto la professoressa d'italiano delle superiori mi aveva guardato così mentre parlavo, e infatti: nonostante abbia fatto ragioneria, dopo mi sono iscritta a lettere, grazie a lei».
«E, grazie a me, a che cosa ti iscriverai, adesso?»
«Non fare lo scemo: dimmi che cosa dovevi dirmi».
«Vorrei baciarti, un'ultima volta».
«Non posso»
«Non puoi o non vuoi?»

«Non posso: mi sono bruciata la lingua con quella cazzo di tisana».

martedì 13 giugno 2017

Flussi di seppia

Avrei voluto sentirmi più scabro ed essenziale e invece sono risultato lo stesso melenso prolisso di sempre, mai al punto, di continuo aperta parentesi, nel timore di chiudere il discorso, ché se lo avessi chiuso sarei stato costretto a dirti, vabbè, poche storie: «Ti amo», per poi restare muto, più sorpreso io di averlo detto che tu di averlo sentito, finalmente, chiusa parentesi, punto, come se quella frase minima fosse veramente il nucleo dal quale sono partite e partono tutte le espansioni, le frasi sul più e il meno, sul fatto che, in pratica, quasi metà del corpo elettorale non si sia espressa, abbia trattenuto la propria volontà dentro una parentesi, dentro l'impotenza manifesta che è inutile esprimere in un voto, per esempio il mio voto sarebbe quello di non farla più tanto lunga, di venire al punto, di scrivere, appunto: «Ti amo», ma non posso esprimere questo nel segreto dell'urna, perché poi lo scrutinio renderebbe il mio voto nullo, come se non avessi detto niente, come se chi ha votato un simbolo e/o un nome avesse detto tutto, e, invece, io sì che avrei detto tutto, due parole, per tacere e, soltanto in seguito, fare un'analisi dei flussi, e io fluire, leggero, lampeggiante lucciola che si appoggia sul vetro di una finestra accesa dalla luna.

domenica 11 giugno 2017

Ci vuole mestiere

"Chi si è presentato non aveva la valigia degli attrezzi che occorre per entrare in una classe. Al concorso per l’infanzia il livello culturale dei candidati era basso, negli altri i commissari hanno rilevato una profonda competenza culturale ma uno scarso livello di preparazione di natura didattica".
[...]
L’interrogativo da porsi è su come si stanno formando a livello universitario questi insegnanti. Un tempo uscivano dai vecchi istituti magistrali, magari non solidi sulla teoria ma più preparati a insegnare. Ora siamo passati a una formazione eccessivamente tecnica e disciplinare. Ancora non abbiamo centrato l’obiettivo". Ma come è possibile che nemmeno con un “concorsone” si riescano a selezionare i docenti necessari alla scuola? "La fatica è improba e di fronte a tante bocciature ha poco senso – ammette Versari –. Il meccanismo è farraginoso, ma non è quello che ha determinato il fallimento. I bocciati non avevano le competenze fondamentali. Per entrare in una scuola ci vuole mestiere nel senso più alto del termine".

Solo di striscio, perché parlare della scuola italiana, tentare di dipanare la matassa, è più complicato che capire e risolvere la questione mediorientale. Mi preme soltanto far notare che mi sembra alquanto contraddittorio - come sostiene il provveditore agli studi di Bologna - rimproverare i candidati al concorso per titoli ed esami di non avere «la valigia degli attrezzi che occorre per entrare in una classe» e poi addebitargli di avere «formazione eccessivamente tecnica e disciplinare». 

Classico caso del cane o del gatto o del cazzo che si mordono la coda. Infatti, chi ha formato gli aspiranti insegnanti? Chi li ha licenziati con esami universitari e tesi? Chi gli ha detto e imposto: devi sapere questo e quello, si fa così e cosà? Soprattutto compra il mio libro di didattica sulle competenze dove c'è scritto come diventi competente?

Infine: se «per entrare in una scuola ci vuole mestiere nel senso più alto del termine», allora (suggerimento per il legislatore) a che cosa servono i concorsi? Anni e anni di precariato - e quindi di lavoro e quindi di mestiere e di esperienza - non sono più che sufficienti? E il vecchio tirocinio? E la meteora del TFA (a pago)?

No. Il concorsone era necessario, vero Matteo, vero Stefania? In particolare - per insegnare all'asilo - è necessario fare il test d'inglese. 

«You are assholes». 

Traducete questa frase.

sabato 10 giugno 2017

La rinuncia di Dio

10Quando annuncerai a questo popolo tutte queste cose, ti diranno: «Perché il Signore ha decretato contro di noi questa sventura così grande? Quali iniquità e quali peccati abbiamo commesso contro il Signore, nostro Dio?». 11Tu allora risponderai loro: Perché i vostri padri mi abbandonarono - oracolo del Signore -, seguirono altri dèi, li servirono e li adorarono, mentre abbandonarono me e non osservarono la mia legge. 12 (Geremia, 16)
Ci sono passi nella Scrittura che, dal mio punto di vista ermeneutico, possono far pensare che il Dio unico sia diventato tale perché abbia, con il terrore, tolto dalla mente degli adoranti tutti gli altri dèi presenti sul mercato dell'adorazione. Infatti, a leggere i suddetti versetti, pare che Dio, per il tramite dei suoi profeti, ammetta implicitamente di non essere l'unico Dio, ma che ve ne siano altri, certo inferiori a Lui che è l'Altissimo onni-eccetera, epperò non è il solo, dato che gli basta(va) un niente, foss'anche uno sguardo, per incazzarsi tremendamente e mandare giù fulmini e strali, peste e corna, lapilli e lava, infamia e desolazione, se qualche sciagurato si azzardava a invocare un altro deucolo di poco conto. 

Ché siano state queste scenate di gelosia furibonda a far sì che, alla fine, noi mortali adoranti, ci siamo adattati, per salute spirituale e corporale, all'idea che in Cielo vi sia un solo Deo, maschio, sulla sessantina, barba e capelli mossi, che quando gli girano spara sempre nel mucchio e ndò cojo cojo?

Per assurdo: se Dio ci fosse e ci volesse veramente bene come fossimo suoi figli (e noi, dunque, tutti fratelli), visto che - anche se indirettamente, più che altro come scusa e/o sprone - è nel suo nome che ancora si compiono copiosi crimini e scelleratezze, e molte testedicazzo comandano e fottono il mondo; in breve: un Dio magnanimo e filantropo, da unico che è diventato, sbaragliando la competizione ultraterrena, potrebbe, magicamente, auto scomparire? Togliere l'idea di Sé dalla nostra mente sprovveduta, sì bisognosa e dipendente di cazzate trascendentali, come un oppiomane lo è del lattice che trasuda dalle capsule immature del papavero officinale? 
Insomma, una preghiera: Dio, per l'amor d'Iddio e di noi, tuoi presunti fiji de 'na mignotta, potresti rinunciare a essere? Potresti sparire? Ti prego, Dio, dicci addio, anche soltanto per qualche secolo: che cosa vuoi che sia per te che sei Eterno? Niente, non sarebbe niente. 

giovedì 8 giugno 2017

Lo Stato del Catarro


Il Catarro è un piccolo stato ubicato tra il Tropico dello Sputo e quello dello Scaracchio. 

Terra arida e purtuttavia florida di anemoni fallaci che spuntano spontanei nelle crepe dell'asfalto che spesso si liquefa ai bordi della carreggiata allorquando le temperature esterne toccano i 65° C., il Catarro è la sola nazione al mondo guidata da un insultanato. L'Insultano, infatti, è la guida assoluta del Paese: uomo improbo e disonesto, amministra il popolo con spregiudicatezza e pusillanimità, riservandosi una consistente parte del pil locale, compreso lo ius primae noctis unisex, per tastare i polso e i genitali alle susseguenti generazioni di sudditi.

L'Insultano veste bizzarramente con una sorta di trapunta quattrostagioni, frescolana cashmir, trapunta di fiori e spini di rosa canina, tutta un pari, dalla testa ai piedi, che lascia scoperta soltanto la testadicazzo, dalla cui bocca emette, una volta al mese, il suo sputo sacro sulla popolazione stupefatta che, speranzosa, si mette in fila per riceverlo per le note proprietà taumaturgiche.

L'insultano vive in una parmareggia dalle mura difensive a forma di grattugia che la rendono pressoché impenetrabile da eventuali attacchi di improbabili nemici.
All'interno della parmareggia vi sono tutti i dicasteri, compreso il ministro del più grande spettacolo dopo il big bang, più uno stadio di ok su prato (un gioco in cui, i sudditi, a faccia sorridente, si stendono sull'erba sintetica con smile di ordinanza in attesa di essere colpiti dalle mazze di hockey che gli insultini eredi al trono sono autorizzati a colpire per giubilo dell'Insultano che va in brodo di giuggiole a vedere che sono figli di cotanto padre), più un circuito di Formula Un in onore dell'Indeterminato.

Ultimamente, l'insultanato del Catarro è al centro di una crisi internazionale, in quanto accusato, dagli stessi suoi storici alleati, di finanziare il terrorismo a vocazione suicida di estremisti ispirati dal catarrismo, (movimento religioso che trae linfa da tutte le vacuità espettorate in nome della fede). 

Tuttavia, il capofila di coloro che cercavano un caprone espiatorio per non arrivare a martellarsi sulle palle da soli, ha telefonato all'Insultano per rassicurarlo che si tratta soltanto di una messinscena per deviare l'attenzione dai maggiori responsabili del carnaio in corso d'opera in vicino oriente e, pure, in misura minore, in alcune metropoli occidentali. L'Insultano ha fatto cattivo viso a buon gioco: è sceso nelle sue scuderie e ha portato di persona un po' di fieno ai settecento cavalli di ogni testarossa.

martedì 6 giugno 2017

Come pasta d'acciughe

Le lasciai un biglietto sopra il tavolo, poche frasi di circostanza, meno di niente per essere un addio come si deve, ma Lisa era contenta lo stesso, bastava me ne andassi, finalmente, non ne poteva più dei miei argomenti, delle bottiglie vuote di birra e dei vestiti impregnati di nicotina, delle unghie lunghe dei piedi che, freddi, graffiavano il suo corpo quando entravo a letto mentre lei dormiva – ma soprattutto era contenta me ne andassi per liberarsi dall'assillo della mia gelosia impropria, visto che per ogni cosa che faceva le chiedevo «Cosa hai fatto? Dove sei stata? Chi hai incontrato?» anche se lei usciva quasi esclusivamente per assolvere ai doveri della nostra sussistenza: birre, sigarette, surgelati e pasta d'acciughe da spalmare su pane di segale, perché un po' di fibra fa sempre bene per il transito.

Appena un paio d'ore dopo che me n'ero andato, iniziò a piovere così forte che avrei avuto subito una scusa buona per rientrare e dirle che l'amavo ancora – soprattutto se sul suo viso avessi visto lacrime piovere come pioveva forte in quel momento. Ma sul ciglio della porta, un attimo prima che suonassi il campanello, la sentii parlare e ridere al telefono, soprattutto dire, con voce soddisfatta, ch'era un sogno me ne fossi andato, che il pensiero di impacchettare tutta la mia roba per disfarsi di ogni traccia della mia presenza, le riempiva il cuore di gioia, perché le sembrava di porre fine all'assurda fatica di Sisifo che era diventato il nostro stare insieme, dove chiaramente ero io il macigno, io la punizione divina.

E pensare che glielo avevo dato io, da leggere, Camus.

Per dispetto, presi il suo ombrello preferito, uno bianco coi fiorellini color lilla, e mi avviai verso la stazione. Salire su un interregionale notturno era la sola cosa possibile in quel frangente, uno di quei treni che si fermano in tutte le stazioni e si svuotano gradualmente sino ad arrivare al capolinea con tre persone a bordo, il macchinista, il controllore e me, addormentato, dimenticato da tutti, persino dai sogni.

domenica 4 giugno 2017

Messaggeri di fede




Io son convinto che gli eroici gladiatori tassisti con licenza pubblica ufficiale der Campidoglio avrebbero aperto le quattro porte più quella del bagagliaio e, soprattutto, avrebbero spento il tassametro.

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Proseguono le gesta vigliacche degli zeloti islamisti, i quali - come d'abitudine - invocano, durante la furia omicida, il Dio che, secondo loro, appena spirati, li porterà direttamente dove la loro mente stupefatta crede. 
Credulità per credulità, notevole sarebbe che, nel momento del trapasso, quando la coordinatrice delle vergini si predispone a illustrare il catalogo al martire, arrivasse un nero cherubino che le dicesse: «Non portar; non mi far torto / Venire se ne dee giù tra’ miei meschini» (Inf. XXVII).

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Forse perché sono un occidentale, di tradizione giudaico-cristiana, secolarizzato, disincantato, avente casa, uno stipendio, una certa tranquillità emotiva e/o stabilità psicologica, abbastanza soddisfatto di sé ma non pienamente, un po' di scoramento esistenziale ci vuole sennò la scrittura ne risentirebbe, che diamine, un po' di lagna insomma, un piangersi addosso, masturbazioni cerebrali e non, insomma un io che dichiara spudoratamente la propria beata nullità, con ciò non considerandosi nullo, ecco, insomma, per farla breve (anche se breve non l'ho fatta), non potrò mai capire (e quindi prevenire e cioè curare: insomma: fermarli con le buone o, meglio, le cattive) coloro i quali si preparano di tutto punto con armi bianche e nere, proprie e improprie, e una mattina o sera decidono di andare ad ammazzare dei generici infedeli, passanti perché passava il caso, senz'altro motivo che una promessa di fede e quasi sicuri della propria morte, anzi: prevedendo proprio di morire, o suicidi o ammazzati. Cioè: capisco quelli che sono sul campo in Siria, anche se, beninteso, fortissimamente vorrei fossero sconfitti, perché almeno essi lottano per la prospettiva di un loro Stato con le loro cazzo di leggi. Ma che questi uccidano e prevedano di essere uccisi perché dai loro atti di terrore il futuro Daesh ne trarrà beneficio, beh... faccio una fatica enorme a comprenderli, perché se è pur vero quanto scrive Fabristol:
«Come al solito l’opinione pubblica e i media sono completamente slegati dalla realtà se pensano che gli attentati dell’ISIS abbiano come obiettivo quello di fare terrore e toglierci libertà. L’ISIS con i suoi attentatori suicidi non parla alle folle ma ai governi. Non parla ai libertini apostati occidentali ma ai servizi segreti. Usa le masse e i mass-media come amplificatore per smuovere governi e servizi segreti. E in questo chi fa retweet soprattutto durante le prime ore degli attacchi è tecnicamente uno strumento nelle mani dell’ISIS. Ma cosa vogliono dire gli attentatori ai governi occidentali e ai servizi segreti? Semplice: lasciateci stare.»
Questo ragionamento che qualcuno si sacrifichi a beneficio della causa, va bene per chi riesce a persuadere altri a sacrificarsi. Ma che dei tristi figuri (generalmente quasi tutti maschi in pieno vigore) si sacrifichino così, a babbo morto, per dire ai governi occidentali: «Lasciateci stare» e per la maggior gloria terrena altrui, persuasi dai convincimenti di fede promossi da qualche mullah, ecco, mi arrendo, rinuncio:
« Caedite eos! Novit enim Dominus qui sunt eius»

Pane e rose


Chi tocca i petali vive.

sabato 3 giugno 2017

L'Unità ristorata


Proprio perché il PD sta in silenzio, provvedo io a parlare per far notare che, la redazione in sciopero, «in una giornata drammatica e convulsa», non abbia rinunciato a consigliarci di bere cioccolata calda espresso durante la pausa caffè.

Meglio calpestare una storia che una capsula.

venerdì 2 giugno 2017

Contro sbarramento

Non credo più, da alcuni anni oramai, nell'esercizio della sovranità popolare esplicitata mediante il meccanismo delle elezioni, giacché - e in misura predominante nel 2013 - sempre ho verificato l'impotenza di me sovrano, la mia personale nullità rappresentata e sussunta nei parlamentari che, in milionesimo, ho contribuito a eleggere, deputati e senatori, facce di culo o meno che siano risultate.
E tuttavia, dopo l'azzeramento della Corte Costituzionale, avevo sperato che le prossime elezioni si potessero di nuovo svolgere con il proporzionale puro - e senza sbarramenti, se non quelli dello zero virgola. E invece: modello tedesco, anche se non è vero un cazzo che sia tedesco, perché, come scrive un maturo Acerbo
«il sistema è maggioritario camuffato da proporzionale. Non si dà la possibilità - come avviene in Germania - di votare in due schede diverse candidato uninominale e lista proporzionale e tra collegi uninominali, liste proporzionali bloccate e pluricandidature, per l'elettore capire chi elegge sarà un rebus. Insomma avremo di nuovo un parlamento di nominati. Persino l'uninominale è truffaldino perché in realtà il candidato più votato in un collegio potrebbe non essere eletto e chi lo ha votato in realtà contribuisce a eleggere il listino bloccato.»
Lo sbarramento, quale che sia la percentuale, è una limitazione all'esercizio di voto, è incostituzionale alla radice perché impedisce di dare voce alle minoranze, e rende nullo il voto del "sovrano" che vota i partiti minori. 
Io credo che una ventina di parlamentari che non diano conto alle segreterie dei principali partiti, o al movimento teleguidato di Beppe Grillo, sarebbero, almeno in potenza, fonte di pluralismo, perché rappresenterebbero tutto il resto degli elettori che non si riconoscono nelle forze politiche che stanno predisponendo la presente, ennesima frode ai danni del popolo - anche perché la legittimità di questo parlamento è decisamente screditata, proprio perché costituitosi in base a una legge elettorale incostituzionale.

Lo sbarramento è una forma di ricatto: per veder riconosciuta la propria sovranità, l'elettore è costretto a scegliere una forza politica non in base ai propri ideali, interessi o convinzioni ma sulla scorta di chi, in potenza, garantisce di superare la soglia del 5%.

L'accordo attuale ha come scopo esclusivo quello di eliminare il potere di ricatto dei partiti politici minori: ma quanto veramente i partiti politici minori hanno potere di ricattare?
Vediamo cosa accadde trent'anni fa, alle elezioni politiche del 1987.
Questa è la Camera


E questo il Senato



Ora, fatto salvo il PRI, il PSDI e il PLI che erano consustanziali al Pentapartito, ditemi: in che misura i Sudtirolesi, Democrazia Proletaria, il Partito Sardo d'Azione, l'allora Lega Lombrarda, o persino i Verdi e i Radicali avevano potere di ricatto sul parlamento e quindi sul governo? Misura nulla, certo, ma almeno garantivano plurarità di voci in parlamento, tipo quella (se non ricordo male) di Pannella (ancora non completamente fumato) o Capanna. E adesso invece che cosa si prospetta se non un ennesimo parlamento di nominati a tavolino?

giovedì 1 giugno 2017

Essere altro (3)

Giovanni era un bell'uomo, inconsapevole di esserlo, nel senso che non aveva mai prestato troppa attenzione al proprio aspetto, tanto si guardava poco allo specchio, giusto il necessario per radersi o togliersi un punto nero che puntualmente emergeva dopo aver mangiato la maionese; egli, infatti, non dava peso agli sguardi, né ricambiava eventuali apprezzamenti di colleghe o vecchie amiche che ogni tanto incontrava. Di solito, quando una donna lo fissava, con una mano scendeva a controllare se aveva la cerniera dei pantaloni aperta, oppure si passava un fazzoletto prima sugli occhi e poi sul naso in cerca di eventuali escrezioni.
«Mi sarò fatto male la barba?», si chiedeva se lo sguardo risultava più insistente. E se lo specchio confermava l'impressione, si tagliava gli ultimi peli rimasti sul collo, con le forbicine che aveva sempre l'abitudine di portarsi dietro.

Essersi messo nei panni del cugino avvocato, aver ricevuto, ascoltato e infine aver suggerito una strategia al cliente che voleva separarsi dalla moglie, lo portarono a voler essere un suo caro amico d'infanzia, lui sì davvero bell'uomo che, fin da ragazzo, era sempre stato fortunato con le donne. Alto almeno dieci centimetri più di Giovanni, robusto e atletico, era maestro di tennis e di tango, cosa questa che lo rendeva particolarmente seducente, come Vilas.

Giovanni decise di esserlo e, in pochi giorni, giusto quelli necessari per carpirne le abitudini quotidiane, fece conoscenza della moglie del cliente, una donna che a tutta prima non lasciava aperta alcuna porta sulla primavera, la vita tutta ancora rivolta in devozione all'istituto del matrimonio. Giovanni, tuttavia, mise a frutto tutta la sagacia del suo essere altro e riuscì, come primo passo, a strapparle un caffè, nel bar adiacente al supermercato dove lei aveva l'abitudine di fare la spesa un paio o tre volte alla settimana.