sabato 24 giugno 2017

Incomprensioni 3

Avevamo da poco superato lo stretto di Hormuz quando Annalisa chiamò per dirmi, tutta contenta, che era una bambina. Mi ero espressamente raccomandato con lei di farmi sapere il sesso di nostro figlio, per prepararmi, per pensare a come affrontare questo evento, giacché se fosse stato maschio, credo che avrei dovuto premunirmi, chiamare un medico specialista in traumi infantili, uno psicologo dell’età involutiva, perché ciò è stata la mia infanzia: una involuzione, un avvolgermi su me stesso fino a che non mi sono dispiegato per le vie del mondo.

«Come è carino tuo figlio, ma guarda come è carino, sembra una bambina» ripetuto cento, mille, quarantadue volte al giorno da quelle stronze di amiche e conoscenti di mia madre, addirittura le zie di Varese e di Brescello, al telefono, la domenica mattina per salutare i rispettivi fratelli, i mie genitori, «Come sta Luciano, mandaci le foto, ma perché non lo porti a Milano a fare i provini per la pubblicità». Stronze. Carino… bellino... un amore... una sega.
Non ero padrone di andare comprare un litro di latte che c’era sempre qualche adulta a sorridermi e farmi una carezzina al capo o darmi un pizzicotto sulla guancia. E i miei amici, a scuola e fuori al parco, giù a prendermi in giro, a chiamarmi Luciana, o Lucilla, a farmi le linguacce e io a maledirli prima, inutilmente, a fare finta di niente e sopportare, una tortura.
Una volta diedi persino uno schiaffo a uno più piccolo di me, perché rideva quando i grandi mi sfottevano. I grandi, già, ci provai a reagire con uno, ma prevedibilmente ebbe la meglio, mi spinse a terra e dopo stetti peggio che mai.
Soffrivo perché, sebbene – a sentita dire – di aspetto lo fossi, io non mi sentivo affatto effemminato, non percepivo dove risiedesse tutta la carineria che mi attribuivano, so soltanto che non mi portava bene coi miei coetanei, e non mi fregava niente se mi teneva in auge coi grandi: mi avessero fatto toccare i seni, le signore, o infilarmi sotto le sottane, mi dicevo piuttosto consapevole dei miei desideri anche da piccolo. Per la verità, una signora c’era che mi stringeva a sé, forte al petto, ed era una delle poche volte che sopportavo di buon grado tutte quelle smancerie.
Il primo moto di ribellione che ebbi fu quel giorno in cui mia madre decise di portarmi dal barbiere (anziché dalla sua amica parrucchiera, ch’era in ferie), e gli dette anche le indicazioni come farmi i capelli: ebbene, io ricordo che al barbiere dissi di tagliarmeli di più, quasi a zero e di usare lo stesso rasoio che usavano per la barba, sentire quel cr cr di taglio strappo sui ciuffi di capelli mi infondeva forza e voglia di avere già vent’anni e di andare via. Che scenata gli fece mia madre al povero Millimetro che, impassibile, si accese un’esportazione senza filtro e si mise a spazzare via i capelli dal pavimento.
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