venerdì 29 novembre 2019

Le cose come stanno. Finale prima stagione

Le cose come stanno, stanno. E non c'è verso di farle stare diversamente, nonostante si scopra, piuttosto velocemente, che le cose potrebbero stare diversamente, ma non si sa da che parte cominciare. 

Basta guardare il mondo e poi chiudersi in sé, dimenticare tutto, tutto, salvo il proprio personalissimo precipizio. La caduta degli dèi più in piccolo: la caduta di io, caro Luchino. O anche: La caduta nel tempo, caro Emilio Cioran, tanto il tempo dura poco, giusto il tempo necessario per la «chiaroveggenza della [propria] insignificanza», compreso l'insignificante pessimo cosmico borghese, più o meno raffinato, più o meno espresso da stanze confortevoli o nella miseria dignitosa del proprio appartamento parigino, blaterando sentenze acute su storia e utopia, e certificando la naturalezza di un sistema e il suo inimmaginabile superamento. Perché l'uomo è un caduto, condannato, un primaticcio della sfiga.

E io sono colpevole, come tutta la mia generazione lo è, perché non ho fatto niente, non farò niente, non tirerò alcuna bomba a mano, non proverò a prendere le armi contro il flusso costante di stronzi al potere, non griderò in alcuna piazza che le cose come stanno fanno schifo, tutto concentrato sul mio apparato digerente come sono, coi sensi obnubilati dalle cose come stanno, tutte - ed è inutile mi consoli con il pensiero di fare il cammino di Santiago appena avrò la pensione da fame che mi daranno, di fare penitenza, di guidare la macchina della misericordia per portare le persone anziane a fare esami all'ospedale, o adottare un druido a distanza, tramite il mio abbonamento al Cielo.

«...Ma la cecità non è così [...] La cecità dicono sia tutta nera, Invece, io vedo tutto bianco...»¹

E non sarà più quello della Democrazia Cristiana.

Amintoreee...

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¹ José Saramago, Cecità.

mercoledì 27 novembre 2019

Come stanno le cose 3

Adesso che sono povero, adesso che non ho i soldi, le cose come stanno mi fanno... cosa mi fanno? Niente, perché stanno lì e basta, intoccabili, irraggiungibili, a volte desiderabili, a volte in attesa che qualcuno me le faccia desiderare. Io ci provo a fare l'indifferente, ma è uno sforzo inutile, giacché si legge in volto che faccio finta; quando si è poveri lo snobismo è un lusso che non ci si può permettere. Allora sto in disparte, cerco di evitare le cose come stanno e me ne resto in periferia, dove le cose come stanno stanno così male che stanno bene anche per me, sono alla mia portata, come un autobus in ritardo, o il volo dei gabbiani verso la vicina discarica. Le cose come stanno sono ridotte all'osso. Io sono ridotto all'osso, nonostante i pasti caldi, regolari, della mensa della caritas. Oggi, a pranzo, c'era una tristissima e sciapissima sogliola impanata con contorno di zucchine che sapevano di piscio: ho preso più calorie dal sorriso melanconico di una cameriera stanca che da quel piatto che stava lì davanti a me come una cosa che potevo permettermi ma che mi dava il voltastomaco. Per fortuna fuori pioveva, così aveva un senso stare seduto al caldo e all'asciutto davanti a  qualcosa che faceva piangere e un po' rabbrividire. 

lunedì 25 novembre 2019

Il gioco delle parti


Sono alcuni giorni che guardo questa immagine e mi vengono in mente tanti pensieri che si affastellano e quindi è giusto che gli dia fuoco. Avanti, bruciamoli.

Ci sono due parti, il Governo (che rappresenta lo Stato italiano) e un'impresa (una multinazionale) privata (è straniera, ma non ha importanza).
L'impresa privata, che aveva rilevato, in concessione dallo Stato l'Ilva, dopo un periodo di prova, ha verificato che la produzione dell'acciaio (una merce base della produzione industriale) in quel di Taranto non garantisce profitto, è cioè il Denaro investito per produrre la Merce acciaio non si trasforma in una quantità maggiore di Denaro.
Visto l'andazzo, l'impresa privata vuole abbandonare il campo, preferendo rescindere il contratto anziché continuare in una produzione dalla quale non trae guadagno.

Se tutto questo fosse lasciato alla logica di mercato, l'Ilva dovrebbe interrompere la produzione ed operai e impiegati restare senza lavoro; per tali ragioni, per evitare la perdita di posti di lavoro, interviene il governo. E parte la trattativa. 

Che cosa si saranno dette le parti? Anche senza leggere le cronache, è facile intuire: 
Governo: «Restate con noi, Signori, non ci lasciate, restate con noi, Signori, avremo la pace sociale (con un po' tosse e cattive digestioni dovute ai veleni in giro)».
Arcelor Mittal: «Sì, potremmo restare, ma...»
Governo: «Voi privatizzate i profitti, noi socializziamo le perdite».
Arcelor Mittal: «Affare fatto: restiamo».

E avanti con questo simpatico giochino della produzione per la produzione.

Vox populi:

«Eh, ma così sarei bravo anch'io a fare il presidente del consiglio».
«Io, invece, sarei più bravo a fare il figlio del capitano d'industria».

Ma pensare di cambiare gioco, no? Cioè a dire: a pensare di cambiare la logica che informa la produzione, si fa peccato?

Vox seminerios phastidious

«Lei è un comunista!»

Grazie.

sabato 23 novembre 2019

Come stanno le cose 2

Adesso che sono ricco, adesso che ho i soldi, le cose come stanno non mi fanno paura. Addirittura mi sono comprato una cappella al cimitero, con l'aria climatizzata e i diffusori di oli essenziali per i vivi che verranno a trovarmi, naturalmente, ché da morti le cose non si annusano; ma pensare, da vivo, di puzzare di morto da morto mi fa orrore, e per questo ho pensato che i fiori da soli non bastino a coprire la cosa, la morte, anzi: i fiori, se non li rinnovi e li lasci a lungo nella loro acqua, in pochi giorni puzzano di morto anche loro; quindi, mi sono consultato con il mio maestro yogi e lui mi ha suggerito questa cosa dell'aromaterapia.

Avere i soldi significa disporre delle cose (di quasi tutte le cose, fossero anche solo i soldi stessi), più o meno come si vuole, perché, oggigiorno, a come stanno le cose, è che le cose sono a disposizione di coloro che i soldi li hanno, perché ogni cosa va in giro con un cartellino al collo, o un codice a barre, o un tatuaggio sul quale è scritto il prezzo. «Cento euro con, duecento senza» mi ha detto freddamente, con accento bielorusso, una ragazza tatuata che offre servizi in camera oltre alla colazione. Anche in questo caso, mi sono consultato con il mio maestro yogi che mi ha detto: «A volte, al mattino, è bene restare digiuni». Non ho mai avuto un buco allo stomaco più grande.

Come stanno le cose

Credo che per capire esattamente come stanno le cose, occorra osservare attentamente dove stanno le cose; e solo dopo tale verifica scrupolosa si possa azzardare una risposta. Perché le cose non sono tutte come i mobili o i soprammobili ricoperti di polvere, che stanno fermi in una stanza di una casa qualsiasi dove abita la persona che li ha posizionati, poi è morta e i gli eredi che si contendono la casa non possono toccare niente per volontà della persona defunta finché essi non troveranno un accordo - e non lo troveranno perché sono persone avide che credono di sapere come stanno le cose, anche se non lo sapevano, non lo sanno e non lo sapranno mai. 
Piuttosto, se le cose fossero mobili e soprammobili, sarebbero come i mobili e i soprammobili esposti nei saloni espositivi di Ikea: basta andarci tre, quattro volte all'anno per accorgersi di come le cose, che prima credevi in un posto, invece, cambino di posto, addirittura molte spariscano e tocchi domandare al personale di servizio dove possano essere state messe. «Ci dispiace signore: questa cosa è fuori catalogo». Fuori catalogo una cosa? Ma vi sembra questo il modo di trattare le cose? Le producete - e all'inizio sembra che ci siano solo loro al centro del mondo, belle, in vetrina, in promozione; e poi, via, le fate sparire dalla circolazione, ma non per essere messe all'ammasso dove tutti potrebbero beneficiarne e usufruirne; no, ma perché debbano essere dimenticate, seppellite, arrugginite, allontanate dal loro valore d'uso. Piccole, grandi cose perdute, che ci mancate da morire, adesso che sapremmo cosa dire, adesso che sapremmo cosa fare, adesso che...

martedì 19 novembre 2019

A ciascuno il suo onorario

Aldilà della vicenda specifica che riguarda Liliana Segre (sempre sia lodata) e la gara delle amministrazioni comunali a chi le dà o non le dà la cittadinanza onoraria, in primo luogo mi sembra opportuno osservare che tale titolo onorifico sia pleonastico conferirlo a chi cittadino - in qualche altra città della stessa nazione - lo è già. In secondo luogo, mi pare evidente che le amministrazioni comunali, e in particolare i sindaci e gli assessori che si prodigano in tale esercizio celebrativo, lo facciano principalmente per dar lustro alla propria immagine, sia ai fini di una propaganda politica spicciola, sia per gonfiare il proprio petto di tacchini rappresentanti pubblici sulle pagine facebook istituzionali e ricevere tanti "mi piace", molti "cuoricini" e un paio di sporadici vaffanculo.

E la domanda sorge artefatta: perché invece di dare cittadinanze onorarie, i sindaci non elargiscono un onorario a ogni cittadino semplice, tale che si andrebbe ad assommare allo stipendio o, altresì, al reddito di cittadinanza? Le casse comunali non lo consentono? Allora il premio sia estratto a sorte tra i cittadini residenti iscritti regolarmente all'anagrafe; oppure ai viandanti che passano per la città.
A me, per esempio, magro come sono, piacerebbe molto avere la cittadinanza onoraria di Abbiategrasso. Si può fare?

domenica 17 novembre 2019

Il flagello

Per mantenere vivo l'esercizio della mia incompetenza, annoto due o tre pensieri sulla tragicomica realtà circostante, che è quella che è perché noi ominidi ci impegniamo abbastanza per farla essere così, garruli amatori di classifiche, tra chi ce l'ha più lungo e sostanzioso, il conto in banca - e tutti gli anni o è uno o è l'altro, finché non morranno - se morranno - e avanti, belle gare in cui sprizza l'intelligenza, qualità intraspecifica tanto usata a sproposito, anche per considerare Salvini uno statista, un patriota, uno stronzo a galla che si adagia sul salato, mentre le acque che hanno invaso la Padania si ritirano.

***
Uh. E di che parlo? Del figlio di Savoia e della di lui pubblicità? Piango a pensare che, se è sempre valido quello studio sul quale si basò tutto il berlusconismo - «la media [intellettiva] del pubblico italiano rappresenta l'evoluzione mentale di un ragazzo che fa la seconda media e che non sta nemmeno seduto nei primi banchi», allora è persino probabile che se «i reali stanno per tornare» siano in molti ad attenderli a braccia aperte - e nessuna rivoltella in mano.

Quando ci si allontana troppo dall'evento fondatore senza mantenere di esso viva la memoria (se non nelle melense commemorazioni ufficiali), qualsiasi costrutto, anche un concetto futile come la nazione, si intiepidisce fino a spegnersi del tutto, diventando cenere. In buona sostanza, i rituali vanno coltivati e riprodotti con serietà e aderenza al mito dai quali hanno avuto origine. Per tale motivo, visto che la realtà, così com'è, è difficile mutarla, visto che la fucilazione non rientra nei criteri sanciti dalla Costituzione, farebbe bene ogni tanto mandare in esilio qualche reale, così, a prescindere, solo perché ci sta sul cazzo, con quella faccia, quella voce e quel pelo rossiccio.

***
Io quando odo o leggo «Italia flagellata dal maltempo» spero sempre che, per qualche verso a me oscuro, tale flagellazione arrivi a compiere dell'Italia stessa, ciò che Piero della Francesca ha compiuto con il suo dipinto: una distaccata perfezione.

venerdì 15 novembre 2019

Il sorriso dei casellanti

Lei non faceva per me.
Né tanto meno io facevo per lei.
Non ci facevamo, dunque.
Ci sfacevamo, anzi.
Non eravamo stupefacenti.
E di noi non restavano che tracce scarne 
d'un amore che fu felice per un po'
diciamo un tre quarti d'ora e poi
fu un intervallo continuo
in attesa del secondo tempo
che tardava a venire.
In verità, tardavamo a venire entrambi.
Per fortuna, bevevamo tè caldo in continuazione.
Tanto tè caldo, ma così tanto
che ci venne la cistite a forza di orinare teina
una droga con minor tenore di effetti psicotropi
ma faceva la sua parte anch'essa
a tenerci sospesi nel disamore.
Poi arrivò un avvocato che ebbe pena di noi
che ci portò davanti a un giudice
a confessare le nostre discolpe.
E fummo disciolti dai vincoli
ma legati per sempre agli svincoli
illusi bastasse cambiare la strada
per avere una nuova vita.

E i casellanti sorridono.
Noi meno, ma fa niente.
L'importante è che qualcuno si diverta.




martedì 12 novembre 2019

Un governo di pampersi

I bei gualtieri del governo tentano di dare in pasto al popolo bocconcini prelibati come gli asili nido gratis dal primo gennaio: bravi, finalmente una misura popolare dal braccino corto, tuttavia, giacché, dato l'andamento generale della popolazione, con il drastico calo delle nascite, l'esborso statale sarà riservato - bene per loro, ci mancherebbe - a quei pochi che annidano figli negli asili nido. Nondimeno, quanto più  popolare e di successo (ma guai soltanto a dirlo, vero?) sarebbe stato proporre case di riposo gratis dal primo gennaio o anche, più giustamente - più equamente - far pagare all'utenza una retta della casa di riposo pari a tre quarti dell'ammontare mensile della pensione; ad esempio: prendi mille euro di pensione, sei anziano e non sei più tanto in grado di vivere da solo? Bene (anzi, male: ma vabbè), la casa di riposo ti costa 750 euro al mese tutto compreso. Le casse dello Stato saltano? Pensate all'Alitalia, pensate all'Ilva, pensate a Roma, alla Lega (49 milioni bis), a tutto er magna magna der meridione, delle regioni autonome di stocazzo, a tutti i carrozzoni, eccetera - mi fermo, ognuno ha la sua da dire, non voglio rinfacciare altro, solo far presente che le misure in favore della cosiddetta famiglia dovrebbero riguardare tutta la famiglia, non solo gli infanti e la mitologia iperprotettiva che li accompagna, ma soggetti più deboli, più soli, più bisognosi di attenzione e di cura.

lunedì 11 novembre 2019

San Martino

Lucas camminava lungo una strada, una strada. C'era la nebbia, ma forse era soltanto una fitta pioggia che s'infiltrava nei suoi pensieri, annebbiandoli. Le macchine frusciavano accanto al marciapiedi e davano l'impressione di riprodurre il frangersi delle onde lungo la battigia. Lei non c'era, non c'era, ma la tigre assenza non minacciava la quiete dei suoi passi. Avrebbe potuto camminare delle ore, avrebbe. Ma limitò il cammino a tre quarti d'ora, il tempo di una partita inutile, senza arbitri, palle, giocatori e pubblico altro che lui, cosa che gli consentì di riflettere sulle significanze, e cioè: soddisfazione dei bisogni primari a parte, aveva senso vivere? «No, ma andiamo avanti», si rispose, mentre nel cielo rossastre nubi si disponevano a fondale per il passaggio di uno stormo d'uccelli neri che non si facevano tante domande del cazzo e continuavano a volare, a volare.

giovedì 7 novembre 2019

Post diuretico

In Italia, al Ministero della Cultura, una cosa del genere è impensabile giacché le candidate poi assunte, per prassi, orinano già benissimo di suo nei bagni delle abitazioni del ministro, del viceministro, del sovrintendente e del direttore del museo.

Mi domando come mai un tizio con così tanta passione non si sia messo a studiare urologia: un talento sprecato. 

Comunque, la sessualità (maschile) è una brutta bestia: cosa non si fa per un'erezione, un tiramento, un senso del possesso (che fu pre-alessandrino). Le semplici masturbazioni non bastano più. È la fantasia che patisce i propri limiti e cerca di costringere il reale ai propri desideri - che non sono mai veramente propri, ma suggeriti, giacché io dubito fortemente, a dispetto della bizzarria, che eccitarsi a vedere una donna pisciare sia un desiderio sponteneo mosso soltanto dalle proprie gonadi.

Certo, sarà capitato a molti di coprire o a aiutare a nascondere una donna colta da un impellente bisogno di orinare. Io mi ricordo di colei che mi strappò il cuore e lo portò al banco della disperazione (disperai, dunque fui). Era un pomeriggio di una primavera inoltrata, forse maggio e lei aveva un vestito lungo, bianco, senza maniche e un giubbotto di jeans. Eravamo andati in macchina verso un passo che separa la Toscana dalla Romagna con l'intenzione di imboscarci in una radura poco frequentata. Fui io per primo a innaffiare le felci che spuntavano a ridosso della faggeta. Poi anche lei fu presa dalla necessità e si abbassò, da un lato coperta dallo sportello aperto come un scudo e dall'altro io, a controllare - dandole la schiena - non sbucasse qualcuno d'improvviso dal folto del bosco. Lei si alzò la gonna, sorridendo e si chinò. Gli stivaletti a mezza gamba davano un aspetto country alla cosa e io, quando sentii il fruscio del getto sfrigolare sulle foglie umide, mi prese una gran sete e un gran voglia di far l'amore. Una fonte vicina soddisfece la mia prima voglia. La seconda... a ripensarci, mi scappa da orinare.


martedì 5 novembre 2019

Coattamente

Andrea Cortellessa, rinomato critico letterario e storico della letteratura italiana, professore associato presso il DAMS dell'Università degli Studi Roma Tre, dove insegna Letterature comparate e Storia della critica letteraria, in una lunga relazione tenuta in occasione dell'incontro Filologia e leggenda. Giornate di studio per Michele Mari, (Roma, ottobre 2019), «da par suo», scrive:
«Diversi incunaboli importanti del genere iconotesto, specie all’intersezione cruciale di questo con la vocazione autobiografica, mostrano questo stesso carattere “archeologico” o, per dirla appunto col lessico di Mari, “filologico” »
E più avanti:
«Un’altra comprova, di questo statuto sinora coattamente liminare dell’immagine, è la ridottissima parte a essa riservata da una produzione saggistica, quella di Mari, per la sua stragrande parte dedicata invece, si sa, alla letteratura del passato.»
Da dispari mio, ho la "comprova" che tutto, come il cesio e lo stronzio, decada. Anche la critica letteraria. Anche la letteratura italiana. Anche l'insegnamento della letteratura italiana, delle letterature comparate e della storia della critica letteraria. Io me li immagino gli studenti di Cortellessa prendere appunti durante le lezioni all'università in previsione dell'esame da sostenere coattamente, sul liminare dell'immagine per discutere dei «diversi incunaboli del genere iconotesto, specie all'intersezione cruciale di questo con la vocazione autobiografica» di stocazzo.

- 30!

domenica 3 novembre 2019

L'erba spinella

Non so quanto durerà questo governo, ma spero abbastanza da poter liberalizzare l'erba spinella, sì da sopportare, con qualche aiuto, il governo che gli succederà.


In fondo (come mi ha detto una collega che si fa la sigarette da sola e che, in previsione, ha già fatto la scorta dai cinesi) la tassa sui filtri e le cartine l'hanno già inserita in manovra e nessuno ha abbaiato come sulla plastica...

Farsi cenere

«Grande fosforo imperiale, fanne cenere». 
Franco Fortini


Nonostante fosse più faticoso, il turno di notte era quello che preferivo e che ricordo con maggior favore. Lo preferivo perché, dato che eravamo in coppia e le mansioni da svolgere erano piuttosto semplici, potevamo dormire un po', a turno, sì da non essere proprio due stracci per le ore diurne; mentre il favore del ricordo è dovuto alla routine che si era stabilita: il caffè appena arrivati; lo spuntino della mezzanotte; il colloquiare sereno e rispettoso di due vite che da poco si affacciavano nel mondo del lavoro; l'ascolto della radio (Rai Radio Notte - e la mitica sigla che dava la carica); l'affacciarsi graduale alle nostre finestrelle del chiarore dell'alba. 
Detto questo, il lavoro scorreva, come i rifiuti, prima infuocati e poi fatti brace e cenere, scorrevano lungo il nastro dell'inceneritore. Noi vedevamo il processo in diretta nelle telecamere a infrarossi ubicate dentro al forno, che servivano appunto a controllare che dei rifiuti fosse fatta cenere. Se capitava - e capitava spesso - che alcuni non bruciassero bene, dovevamo bloccare il nastro trasportatore, per far sì che il fuoco avviluppasse interamente il materiale combustibile. Il blocco del nastro, tuttavia, era una manovra da compiere con attenzione, giacché determinava un aumento della temperatura del forno ai limiti della norma. Se non ricordo male, la temperatura di esercizio per l'inceneritore in questione era tra gli 800 e 1100 (o 1200?) gradi. Sotto gli 800, in pratica, i rifiuti non subivano un trattamento di incinerazione adeguato. Sopra i 1100 si rischiava di far uscire le fiamme dalla canna fumaria e di conseguenza mettere in pericolo la struttura.
Per quel tipo di inceneritore, la spazzatura - per essere un buon combustibile - doveva avere certe caratteristiche: non essere troppo umida, né troppo secca; né troppo fresca, né troppo fermentata; doveva contenere una dose equivalente di tutti i materiali di scarto (all'epoca, la raccolta differenziata si faceva solo del vetro). Eravamo noi, con la benna, a "frugare" nella buca tra i rifiuti del comprensorio per cercare di ottenere un mélange combustibile "equilibrato" tale da sfamare correttamente la bocca del forno.
Quando la cenere ottenuta dal processo di incinerazione raggiungeva un certo quantitativo, era da noi precipitata in un dumper posizionato nel locale seminterrato e, con tale mezzo, trasportata e depositata in un terreno adibito allo scarico, situato a un centinaio di metri dall'impianto. Aldilà della rete di confine, s'ergeva un altro capannone prefabbricato che s'illuminava in ore determinate della notte, dentro al quale - anziché umani - lavoravano galline con una turnazione schiavistica più pressante della nostra (con tale sistema, infatti, alle galline veniva imposto un regime di vita da due giorni in uno, in modo che potessero deporre il doppio delle uova - e non so se tale pratica sia ancora consentita).
A ripensarci, quella luce artificiale faceva sembrare il terreno grigio cenere un paesaggio lunare e noi, alla guida del dumper - vestiti con una tuta arancione, il casco e la mascherina -, due astronauti che girovagano in avanscoperta. Chissà quanti milligrammi di diossina abbiamo inalato o ingerito, più o meno delle galline del capannone accanto? Certo, a noi, anziché granturco e medicine, ci davano un milione e quattrocentomila lire al mese che a qualcosa servivano: sussistere più qualche vizio - e non era poco.

venerdì 1 novembre 2019

L'etica sindacale

Riguardo alla seguente frase dichiarata dal segretario confederale nazionale della Cgil, Emilio Miceli, detta in presumibile risposta alla puntualizzazione redazionale di Euronews che il governo francese sarà "particolarmente vigile" sulla localizzazione dei centri decisionali dell'eventuale nuovo gruppo automobilistico che nascerebbe dalla fusione di FCA e PSA:
«"Noi non abbiamo mai pensato che mettere la sede legale del gruppo in Olanda sia stato un esempio di eticità assoluta. Quindi non è su quello che litigheremo".»
chiedo un soccorso ermeneutico, giacché la mia interpretazione, questa:
Come sarebbe a dire: voi sindacalisti pensate che il lacchezzo¹ della Fiat di portare la sede legale in Olanda sia stata una merdata che danneggia lo Stato italiano, e non vi siete incazzati di brutto contro i damerini ereditieri del cazzo?
probabilmente non riesce a cogliere a pieno la finezza e l'ironia del linguaggio sindacale e potrebbe pertanto risultare una semplice, scurrile cantonata.

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¹ Lacchezzo: nell'accezione figurativa di imbroglio, affare intricato.