venerdì 28 febbraio 2020

La farina

Non so, forse ho sbagliato a suonare il campanello: ha risposto un signore che gridava di essere lasciato in pace con il suo dolore perché aveva finito le lacrime, la morfina, la disperazione e proprio in quel momento aveva deciso di buttarsi di sotto dal terzo piano, un volo sufficiente per prendere aria e ridere mezzo secondo della vita vissuta.

«È contento, adesso, che sono ancora vivo?»
«Non dia a me la colpa di essere vivo. Perché non l'ha fatto?»
«Pensavo fosse mia figlia, di rientro da Siviglia, coi suoi venti gradi fissi d'inverno e un cielo che trasforma la tristezza in desiderio».
«Mi dispiace che lei soffra così tanto. E mi scuso di averla disturbata».
«No, non disturbato. Distratto: semplicemente distratto. Ero così concentrato sull'idea di morire che non pensavo ad altro e forse questo è il modo peggiore di farla finita».
«Forse è la natura stessa del suicidio a richiedere tale assoluta determinazione».
«Sì, ma io detesto che il pensiero diventi schiavo di qualcosa, foss'anche l'assoluto»
«Allora perché mi ha chiesto, con tono risentito, se ero contento che fosse ancora vivo?»
«Perché pensavo che lei fosse stato mandato da qualcuno, affinché mi distraessi e perdessi la concentrazione che con tanta fatica ero riuscito a ottenere».
«Si sbaglia: io cercavo la signora Carmen, donna matura, formosissima, calda, affascinante, completa, con una voglia che non passa».
«Ma è mia moglie, solo che è andata a far la spesa: sa, con questo corona, ci mancava la farina, la farina che è sempre bene avere in casa».

martedì 25 febbraio 2020

La rarefazione

Il dirsi si fa più rarefatto e l'udito si riposa perché si gode ampi spazi di silenzio prima occupati dal brusio continuo, assordante, delle voci. Non è un mistero che staccare la mente dal flusso informativo lo faccia ricaricare per effetto contrario alla batteria del cellulare. Mettere la mente in "stato aereo" restando a terra, togliere anche i suoni di notifica e il tormento delle vibrazioni. Puntare gli occhi in un punto immaginario della stanza. Ricordare. Esistere doppiamente. 

Tutto questo presente addosso, com'è faticoso, come riempie il tempo senza ristoro alcuno. Questa gravità: come schiaccia a terra per paura che gli stomaci restino vuoti.

Il silenzio prolungato della strada, un'area di sosta improvvisata, il lancio dello sguardo nell'orizzonte in fuga, ecco:


E rivedi nell'ombra la luce, nel vuoto il pieno, nel concavo il convesso, nel difforme la forma di un vaso o forse due volti che non si baciarono mai.

domenica 23 febbraio 2020

Il disagio del contagio


Nel mentre redigo questo post, mi provo un paio di sneakers con il pigiama: una combinazione di tendenza che rende più accattivante il mio look da pantofolaio serale (e seriale). D'altronde, cerco di distrarmi come posso, per essere sempre a mio agio, lontano dal contagio.

Soprattutto - alche anche se è piuttosto difficile - provo a stare lontano da: notiziari tv e trasmissioni in diretta con inviati aventi il microfono in mano (meglio in mano); dai socialmedia; dai quotidiani online (purtroppo, così facendo, mi sale l'Ansa).

Ma torniamo alle sneakers.

Con le stesse scarpe da corsa, che ho indosso adesso per provare combinazioni di tendenza, stamani ho corso dodici chilometri e duecentosettanta metri in un'ora e due minuti e qualche secondo, tenendo quindi un passo di 5:06 min/km: non male per un ultracinquantenne.

A proposito degli ultra-enni: perché sovente i giornali, nei titoli e negli occhielli, non specificano l'età precisa delle persone coinvolte in fatti cronaca, ma si rifugiano, appunto, ultra-enni?  

Ma quanto stronzo è quel virologo ultrà della Lazio? Gli pigliasse la diarrea per far uscir di culo tutta la merda che sparge via social.

Purtroppo non sono disinformato; purtroppo tengo aperte varie finestrelle delle news per contare i numeri del contagio, o per leggere la sequela di ordinanze delle pubbliche autorità, o per sentire i pareri degli esperti, o per piangere sulle dicerie degli untori...
Spero torni la calma presto, o il niente presentato da Fiorello e Amadeus.

sabato 22 febbraio 2020

Chiamare le cose per nome

« Le comunità medievali temevano talmente la peste che il suo solo nome le terrorizzava; evitavano il più a lungo possibile di pronunciarlo e perfino di prendere le misure che urgevano, a rischio di aggravare le conseguenze delle epidemie. La loro impotenza era tale che riconoscere la verità non significava far fronte alla situazione, ma piuttosto abbandonarsi ai suoi effetti disgregativi, rinunciare a ogni parvenza di vita normale. Tutta la popolazione si associava volentieri a questo tipo di accecamento. Una simile volontà disperata di negare l'evidenza favoriva la caccia ai “capri espiatorii”. »
Rene Girard, Il capro espiatorio, Adelphi, Milano 1987

A vedere quel che accade col Coronavirus, è innegabile che la peste odierna sia pronunciata abbastanza, da tutti, complici i media, i socialmedia o dai classici discorsi da bar. L'impotenza popolare, grazie ai progressi in campo medico e all'organizzazione del sistema sanitario nazionale, si è trasformata in uno scaramantico (almeno per il momento) che Dio ce la mandi buona con preghierina a mani giunte dell'emoticon su whatsapp. La caccia ai capri espiatori è (quasi) unanimemente esecrata. Vige insomma la Speranza (non solo ministeriale) che si trovi presto un vaccino e il contagio non si diffonda più di tanto, o attenui i suoi effetti ad una semplice febbrata da influenza invernale. 

Dette queste banalità, oltre al superamento dell'emergenza, quello che sarebbe veramente auspicabile è la comprensione generale e diffusa di quanto sia importante trovare una coscienza planetaria svincolata dagli interessi particolari dei singoli stati nazione, giacché la corona dei virus potrebbe - almeno potenzialmente - anche essere messa sul capo dei re.
Nondimeno, qualora uscissero fuori leoni come quelli raccontati da La Fontaine in Les animaux malade de la peste (Favole, 1669), occorrerà diffidare delle volpi e dei lupi che cercheranno il modo di incolpare qualcuno (l'asino) per deviare l'attenzione dalle responsabilità reali della società di classe.


giovedì 20 febbraio 2020

Polvere di stalla

Conosco di vista un genetista di mucche da latte che ha selezionato una razza in grado di scappare da una stalla di Abbiategrasso e di correre sulle ciclabili senza reggipetto, così per farsi ballonzolare le poppe a piacimento e spargere latte sul selciato senza mungitura e, di poi, aggredire una ragazza snella con un tight aderente dell'adidas per invidia sociale, farsi arrestare e giudicare sommariamente da una giuria di macellai amanti dell'ordine precostituito.

Peccato che non vi sia una branca della genetica che si occupi di selezionare una razza di politici meno insulsi, antipatici, deficienti, egocentrici, con la faccia come un culo da nettare dopo aver espletato le sue normali funzioni di svuotamento - politici che sanno anche loro scappare come bovi dalla stalla, senza tema di trovare dopo un mattatoio.


domenica 16 febbraio 2020

Io se fossi Dio (lato 2020)

1. Io, se fossi Dio, data la febbre planetaria, convocherei un G8 (o un G20 o un GTutti) straordinario a Wuhan, senza mascherina.

2. Dato che noi umani non facciamo praticamente niente di quanto sarebbe possibile fare per l'emergenza climatica e ambientale del pianeta, io, se fossi Dio, darei all'asse terrestre un movimento ondulatorio, per velocizzare il cambiamento delle stagioni (comprese le mezze) negli emisferi e dare un senso metafisico all'impazzimento generale del clima. La Terra trottola...

3. Io, se fossi Dio, direi a Lula di riportare Cesare Battisti in Brasile con un lasciapassare vaticano.

4. Io, se fossi Dio, «e io potrei anche esserlo, sennò non vedo chi», darei uno schiaffo a Renzi da appiccicarlo al muro e, da bravo Signore dei Braccianti, toccherei pure il culo alla Bellanova.

5. Io, se fossi Dio, andrei al Carnevale di Venezia per vedere se i sensori saprebbero contare anche me. Sennò, al limite, manderei mio figlio (Ostia Lido).

6. Io, se fossi Dio, basta: sposterei Betelguese un po' più vicina da queste parti qua.


venerdì 14 febbraio 2020

Vicino, vicino

Mentre, distratto, riflettendo su cosa fare da cena, assorbiva il lucore degli agrumi disposti a schiera nel reparto ortofrutta di un supermercato, sentì di spalle pronunciare il suo nome con un tono sorridente e, infatti, girandosi, la vide sorridere e disporsi di slancio verso un abbraccio che, in un certo qual modo, lo turbò. «Come stai, quanto tempo, questa è mia figlia», una copia di lei, qualche anno più indietro. Strinse le labbra al pensiero che la ragazza, più o meno, fu da lei concepita pochi mesi dopo che si erano lasciati, o meglio: che l'aveva lasciato senz'altro motivo che quello di essersi innamorata di un altro. Purtroppo per lui, lui, a quel tempo, l'amava ancora, di un sentimento che si sentì strappare di dosso come una pelle, tanto ancora credeva - a torto - che lei gli fosse attaccata.
Si limitò a poche parole di convenienza: non gli uscì alcuna di quelle frasi a effetto che, negli anni, si era preparato per occasioni come questa. Disse anche lui dei suoi figli, uno dei quali era a studiare in Thailandia grazie alla borsa di studio del ministero, e che presto sarebbero andati a trovarlo, lui e sua moglie - e sapeva che diceva questo solo per coprire il fianco scoperto al desiderio di sempre: poter riprendere con lei un treno prima che finisca l'inverno, prima che il vento diventi insopportabilmente caldo e quel poco di freddo che resta diventi desiderabile toglierselo di dosso dentro una camera d'albergo, tra le lenzuola. E sebbene non una parola di queste uscì dalle sue labbra, lei che lo aveva sempre saputo leggere oltre la convenienza e la tristezza, questa volta, l'unica volta dopo tanti anni che non si vedevano, rispose: «Mi piacerebbe».
Se fosse stato un serio giocatore di poker sarebbe andato a vedere, ma non lo fece. I cellulari di entrambi emisero un suono soffocato di notifica, elementi di perdurante distrazione. Forse sarebbe stato il caso di scambiarsi i numeri, ma per dirsi che? Per vedere i propri reciproci stati su whatsapp? O per inviarsi delle foto ogni tanto e fingersi di nuovo teneri amanti che si cercano, come prima si scrivevano foglietti di un bloc notes a quadretti in una corrispondenza immediata, inframmezzata di baci?
Non c'era più tempo per nessuno dei due. Ciò che erano stati, non lo sarebbero stati più. Restava il ricordo reciproco di ciò che di bello avevano rappresentato in un tempo preciso della loro vita e, se ci pensavano un po' più intensamente, se si guardavano, vedevano e sentivano inumidirsi gli occhi, ma nessuno dei due sarebbe stato disposto a piangere. O forse no, forse a lui dopo, in macchina, qualche lacrima scesa sarà.

mercoledì 12 febbraio 2020

Le circostanze

Non vado più a tempo
Non faccio più a caso
Mi mento per altro
E smetto tra poco
Di stare nel gioco
Che faccio del disco
Incantato succede
La sveglia su un piede
Che scalzo levò
E tutto appare diverso
Dal prezzo del pene
Che scorgo laggiù
Non altro che un fatto
Di vita che nuova
Presenta il suo conto
In un'alba racchiusa
E vedo distante
La stanza e la fede
Il dare coerenza
Agli atti scomposti
Piuttosto mi scanso
O lo specchio riappanno
Con un filo di fiato
Mi sbarbo a casaccio
Mi lavo un solo avambraccio
Ché l'altro era quello
Dove ho sognato
Riavere la guancia
Attaccata alla tua
Ascendente bilancia
Mi asciugo e mi vesto
Bisogna faccia presto
Sorseggio un caffè
La borsa la corsa
La notte lontana
Ma più lontano sei tu
Distante da te
Presente a che cosa
Le ore che volano sopra
I capelli che non sono più
Non mi pettino più
Non mi mettano giù
Le circostanze
E vada finché l'andare
Sarà possibile.

domenica 9 febbraio 2020

Il peso umano

« Intorno all’XI secolo secondo il computo cristiano, [...] popolano il pianeta (ma si tratta, avverto, di stime) suppergiù, ad essere ottimisti, 290 milioni di persone. Niente, in confronto ai sette miliardi e mezzo di oggi. Differenza abissale, di un pianeta notevolmente meno antropizzato, dove nel rapporto tra uomo e natura è la natura ad avere il sopravvento, con una forza condizionante. »
Amedeo Feniello, in AA.VV, Storia del mondo. Dall'anno 1000 ai nostri giorni, Laterza, 2019.

Insomma, nel 1010 d.C. gli umani erano, suppergiù, 300 milioni, mentre nel 2020 sono o, meglio, siamo (finché si campa) 7 miliardi e mezzo. E diamo pure la colpa ai pangolini.
Chissà nel 3030 quanti saranno (saremo non lo potremo dire, Sanremo chissà).

Pensando all'oggi, a questo oggi che ci costringe a essere così deludenti rispetto a quello che potremo fare per rendere il mondo un posto migliore (il mio modestissimo contributo, quasi nullo, è qui, nella dispersione di pensieri senza costrutto e spessore), possibile che non ci accorgiamo di quanto graviamo sulla biosfera con il nostro vivere, defecare compreso?

A questo proposito, in un altro libro che ho attaccato a leggere oggi: S.L. Lewis-S.A. Maslin, Il pianeta umano. Come abbiamo creato l'Antropocene, Einaudi, 2019, si legge:
« Sulla terraferma, se pesiamo tutti i grandi mammiferi presenti sul pianeta oggi, soltanto il 3 per cento di questa massa vive allo stato selvatico. Il resto è costituito da carne umana per circa il 30 per cento del totale e dagli animali allevati di cui ci nutriamo per il rimanente 67 per cento. »
Ma affinché il pianeta ci regga meglio, non è necessario mettersi a dieta o diventare vegani, né tantomeno cannibali: il problema da risolvere è come organizzare il nostro vivere, defecare compreso. Come sussistere, che cosa produrre, per quali finalità, giacché le finalità attuali (quelle dettate dal sistema produttivo vigente: il profitto alias la valorizzazione del capitale), sono le vere responsabili dell'abnorme aumento del peso (incidenza) umano sul pianeta, più della tettonica a placche, più dei vulcani o dello sporadico bombardamento di meteoriti. 

venerdì 7 febbraio 2020

Qualifica di blog di qualità

1. Giorni in cui arrivo a sera a notte a letto e non ho pensato scritto ed ecco excusatio non petita.

2. «Sia il vostro parlare ‘sì’ ‘sì’, ‘no’ ‘no’, poiché il di più viene dal maligno». Argomento validissimo, soprattutto per i gruppi whatsapp e affini, con una differenza sostanziale: il di più nelle chat non viene dal maligno, il quale - come insegna il diavolo di Guido da Montefeltro - ribatte a colpi di logica, bensì dal suo opposto non diabolico, che risponde a colpi di ripetute insensatezze, non consequenziali all'argomento trattato, dove ognuno parte per la tangente senza rispettare le convenzioni minime dell'impianto dialogico, regole tali che se infrante durante una qualsiasi conversazione di persona provocherebbero imbarazzo e rossore nell'interlocutore che vedrebbe ogni suo dire frainteso o, peggio, interrotto da altro argomento che non c'entra affatto con l'oggetto del discorso avviato. 

3. Leggendo le Disposizioni per la promozione e il sostegno della lettura approvate dal Senato ieri l'altro, in particolare gli articoli 8 e 9, l'unica cosa che ho da aggiungere a quanto detto qui, è che mi piacerebbe far parte di un gruppo chat avente come membri i firmatari della legge, così tanto per sapere se nell'Albo delle librerie di qualità ci rientrano soltanto quelle snob che fanno le vetrine fighe con mille varianti e brani a effetto estratti dai libri promossi, o altresì le cartolerie scaciate che vendono giornali e balocchi vari, o anche i soggiorni e i billy e gli ivar ikea con i libri svedesi esposti senza allarme che tanto nessuno li ruba.

4. Io perché il titolista di Repubblica abbia scritto "cari" ai "fascisti" proprio non lo capisco, proprio no.


lunedì 3 febbraio 2020

Foto di gruppo con merito

Ai telai, alle spole!

La prese di punta e si punse, chiaramente, e giù acqua ossigenata a iosa, ché la schiumina sulla ferita gli dava ebbrezza, come un calice di champagne. Fu così che distolse lo sguardo a beneficio del guardato, dato che lo guardava male, anche se normalmente vestito, come per coglierlo in fallo. E dire che quel tizio non aveva fatto niente e neanche aveva in animo di fare qualcosa: stava lì ad aspettare la corriera per Singapore, voleva passare una nottata caldo umida. Tutto aveva un senso, persino l'insensato. E io scrivo apposta, perché non mi sia rinfacciato di lasciare il non detto non scritto. Tanto per come ragionano le genti dalle menti irretite o per seguire il branco, o per distinguersi dal branco, o per replicare vox populi, o per contraddire vox populi, impediti tutti al silenzio perché tutti a conoscenza di come stanno le cose, nel secondo cassetto dell'armadio, sopra le mutande e i calzini.

Sfido io, ma il gioco non vale, perché in realtà non c'è partita a giocare con sé stessi. Se stessi in bilico, viaggerei spesso a rimorchio, sulle autostrade d'Italia, il famoso paese meraviglioso, tutto golfini a modo e foto di gruppo in ordine spazio, sorridenti, che non mancano né sorci, né denti.
Figuriamoci. Vengo anch'io da una famiglia di filatori (parte materna), che lavoravano al telaio di un famoso lanificio che ora non più. Era del padre del Sartori, il politologo morto or non è molto, che con verve tosconuiorchese bastonava sul doppio turno alla francese le italiche genti. Eppure, la fabbrica, che tanto sudore, ore e rumore ha consumato della pelle, delle palle, delle ovaie e delle orecchie di operai e operaie, quella fabbrica durata un secolo e diventata un museo a cielo deserto, ha smesso di essere, tutto il valore volato via, se non nei quattro soldi dei quattro straccioni di padroni. Il resto sono ossa e marchette per l'Inps. E mi ricordo - forse l'ho scritto, ma non mi ricordo, sicché lo riscrivo uguale - che mi fu raccontato che, durante un'assemblea straordinaria nella quale l'amministratore delegato (il Cipriani) dell'epoca annunciava che macchine e, avessero voluto anche loro, operai e operaie, sarebbero state trasferite in altra sede lontana, il Lamberti, operaio alla cardatura, si rivolse al Cipriani così: «A me, Cipriani, tu mi fai ridere la cappella». E fu chiusa, la cappella, e il Cipriani se ne andò via con il Volvo («Glielo darei io, il Volvo») e il Lamberti, invece, fu messo in cassa integrazione.

Dipende da dove caschi. Dall'intraprendenza. Dalla facciaculaggine. Dal merito... Tiratemi due schiaffi forti, me li merito.

sabato 1 febbraio 2020

Per dindi Lipperina

La Lipperini, scandalizzata, su Facebook scrive:
«Il romanzo di Fontana, in lettura, è splendido. In lettura, ripeto. E i critici dovrebbero parlare dopo aver letto, perdindirindina.»
E senz'altro ella avrà ragione, ma, prima di dire perdindirindina, avrebbe dovuto considerare che i critici, in quanto lettori, hanno facoltà di scegliere che cosa leggere e aver dei sani pregiudizi: e qualsiasi romanzo che superi duecento pagine è pregiudizievole.

Poi, si dirà: ma i critici sono pagati per... per leggere e non leggere.
Immaginate un critico (classe 1937) che apre il pacco di libri che gli editori gli hanno spedito perché li "visioni" e, nel caso, li recensisca. E poniamo che tale critico abbia una rubrica settimanale su un quotidiano, per la quale è pagato, e nella quale è libero di scrivere di quel che più gli aggrada, settimana dopo settimana. Questa settimana, la cosa che più lo stupisce, sono tre libri di tre autori italiani, più o meno giovani, più o meno sconosciuti, le cui pagine, messe insieme, danno un totale di 2188. Può egli avere il diritto di criticare garbatamente, non il contenuto dei libri, ma tale abbondanza premettendo, appunto, che:
«Non so quando troverò il tempo di leggerli, e francamente non ne sento il bisogno.»?
Secondo me sì. Anche perché, per quel che mi riguarda, nonostante non dubiti che quei libri siano splendidi in lettura, credo che siano ancora più splendenti in non lettura, o anche: li potrei leggere soltanto se mi pagassero, per ognuno, almeno dieci volte il prezzo indicato in copertina.
Perdindirindina.