giovedì 30 aprile 2009

La fame delle rondini

Sono un po' di giorni (gironi) che fatico a seguire la cronaca. Gli cammino a fianco, ne sento il rumore di fondo, come quando capita la fortuna di addormentarsi con, alla finestra, il fluire di un fiume. La ragione principale è che ho avuto poco tempo di leggere quotidiani; i telegiornali li evito accuratamente; la radio mi annoia; sulla rete preferisco soffermarmi nella lettura dei miei amati link (vedi il fianco sinistro) e le varie news le sfioro senza approfondire. Certo, se qualcuno mi domandasse quali sono i temi principali di questi giorni saprei più o meno rispondere, melenso, come un concorrente di una trasmissione a quiz. E dunque, la Veronica, la febbre suina, la Fiat in America, le prossime elezioni, le ormai marginali macerie abruzzesi eccetera. E mi chiedo: di tutto questo accadere cosa tratterrà il colino della storia?
Le rondini sono tornate. Stamani alle sette (6 gradi) ne ho viste tre o quattro perplesse sui fili della luce a domandarsi (a domandarmi) quando questa pioggia e questo freddo finirà. Se i lombrichi avessero ali anch'esse avrebbero la pancia piena, mi dicono sorridenti le galline e i merli.
Intanto, come se non bastasse la mia disordinata libreria, mi riempo la casa e la macchina di libri comprati e presi a prestito: fra questi spiccano due poeti (Luciano Erba, Elio Pagliarani) che, se ancora la poesia avesse uno spessore culturale paragonabile a quello di un mezzo secolo fa, sarebbero cantati nelle strade al posto del mortorio musicale e rintronante delle canzonette annebbia pensiero. E poi un sorprendente libro trentottenne scovato in un angolo della biblioteca cittadina: Ateismo nel cristianesimo di Ernst Bloch (Feltrinelli, 1971) di cui, nel concludere, riporto questa strepitosa epigrafe:

Pensare è varcare le frontiere.
Il meglio della religione è che essa suscita eretici.
Religione è re-ligio, legame all'indietro con un mitico Dio dell'origine, della crazione del mondo; perciò l'Esodo, la compresa professione dell'«Io sarò quello che io sarò», del cristianesimo del figlio dell'uomo e dell'eschaton non è più religione.
Solo un ateo può essere un buon cristiano, solo un cristiano può essere un buon ateo.
Decisivo: un trascendere senza trascendenza.
Dies septimus nos ipsi erimus. [Il settimo giorno saremo noi stessi] Agostino.

mercoledì 29 aprile 2009

Una minestra di lacrime

Una volta quanto mi avrebbe fatto
patire il tuo incupito mutamento
- ora ceno con la testa nel piatto
quanto basta per rimediare al silenzio.

È sempre una tempesta nel bicchiere
ma il vento ora ha girato - ecco il naufragio
nella minestra - le erratiche lacrime
raccolte adagio - sollevando il cucchiaio.

Toti Scialoja, Poesie (1961-1998), Garzanti, Milano 2002

Prostituzione

«L'oratore sceglie la fine della pericope, dove si parla di una donna. Slòmit Bat-Divri, che Rasi afferma essere una prostituta.
"Ora il figlio di una donna israelita e di un egiziano uscì in mezzo agli Israeliti; nell'accampamento, fra questo figlio della donna israelita e in israelita, scoppiò una lite. Il figlio della israelita bestemmiò il nome del Signore, imprecando; perciò fu condotto da Mosè. La madre di quel tale si chiamava Slòmit, figlia di Divri, della tribù di Dan" (Lv. 24,10-12).
Da che cosa si capisce che si trattava di una prostituta? Rasi lo deduce dal suo nome, Slòmit che viene da salom (buongiorno) e Divri da davar (parola). E l'esegeta francese spiega: "Ella chiaccherava senza sosta, buongiorno ad uno, buongiorno all'altro, buongiorno a tutti...".
Rasi, commenta il filosofo, schernisce così la chiacchera, il fatto di parlare a tutti, senza responsabilità. La ridondanza della parola, la parola gratuita o la parola eccessiva, è il principio della prostituzione.»

Salomon Malka, Emmanuel Lévinas. La vita e la traccia, Jaca Book, Milano 2003 (pagg. 125-6)

martedì 28 aprile 2009

Romanza sotto la pioggia

Supponiamo che io fossi nato oggi
con questa pioggia che mi fa cantare
-lavorano i taxì lavorano le carrozze
e cresce l'artrite a mio padre
È bello qui e non s'incontra un cane
svolta a Viserba Monte di Pietà
-prendi l'undici intanto che passa
le scarpe sono una barca
Ha le doglie mia madre e come piove
adesso nasco e piangerò di botto
-oh il tuo bel castello maccolio-llio-llero
oh il mio ancor più bello maccolio-llio-llà
Stasera ho voglia di un brodo
e d'una donna che m'aggiusti il letto
Signorino si accomodi: duemila
combinato l'affitto del "salotto".

1948

Elio Pagliarani, La pietà oggettiva (Poesie 1947-1997), Fondazione Piazzolla, Roma 1997

lunedì 27 aprile 2009

Ceronetti e la pioggia



Breve premessa. Io voglio bene a Guido Ceronetti. È stato ed è un mio maestro. Attraverso i suoi libri ho conosciuto altri libri, altri mondi*. Avevo circa vent'anni quando lo elessi a mio punto di riferimento "culturale". Seguivo con avidità i suoi articoli su La Stampa e rincorrevo tutte le sue pubblicazioni. Addirittura, in un periodo della mia vita, ero diventato un ceronettiano quasi perfetto: bevevo solo tè verde (bancha), mangiavo solo vegetariano (macrobiotico). Ho visto alcune sue rappresentazioni marionettistiche a Firenze (piazza Ognissanti, consolato francese: saremo stati si e no venti persone); e una volta, al Punto Macrobiotico d'Arezzo, mentre mangiavo il mio piatto misto, eccolo entrare a fare la spesa. Pieno di entusiasmo, ricordo che mi precipitai a stringergli la mano, facendo anche una discreta figura di merda. Egli mi disse: «Mi scusi, devo prima andare in bagno; sa, sono debole di reni». Ma poi mi dette udienza, mi anticipò l'uscita di un suo libro (La fragilità del pensare). Fu molto cortese, insomma (penso tuttavia, e a ragione, che se ero una bella figliola avrebbe preferito e magari si sarebbe anche seduto a mangiare con me. Lo capisco, anch'io al suo posto avrei fatto altrettanto).
La premessa è stata lunga, ma mi premeva perché non vorrei che ciò che vado a dire fosse frainteso.
Bene, ieri è apparso sulla Domenica del Sole 24 Ore (giornale dove ora pubblica maggiormente i suoi interventi con la rubrica La pazienza dell'arrostito, titolo, tra l'altro, di un suo famoso libro adelphiano) un articolo dal titolo «Gli assassini del clima».
Col suo tipico stile, Ceronetti questa volta si lamenta del troppo piovere. Leggiamo:

«Clima. Infame clima. E la terra che trema. E le bugie padrone del campo - a poco a poco. Non venitemi a dire che è "normale": non è normale, es una mierda, direbbe Luis Buñuel. E lo faccio mio, sommerso dai dubbi come lo scafo rotto del Titanic dalla tenebra atlantica. Quid est veritas? Lo stupido inverecondo è tuttora là che ripete, multibuccale: "Italia Paese del sole". Da novembre l'entità Sole è nascosta, lungo tutta questa strisciona mediterranea. Tra poco è kalendimaggio, cortei bagnati (ma chi ancora ci va merita d'inzupparsi), e piove a ripetizione, tutto quel che resta di campi sono come risaie inondate, ci puoi seminare i tuoi bottoni delle tue camicie. In sei mesi io conto su una mano di quattro dita le giornate del famoso sole italico!».

Ecco, quello che vorrei far notare è che alcuni anni fa, il Nostro si lamentava per ragioni opposte, ossia per il non piovere, per l'assenza di pioggia. Come Guccini cantava «Ma dove sono andate le piogge d'aprile», anche Ceronetti si prestava col suo acume ad un'erudita danza della pioggia. Ora non ho tempo di trovare i riferimenti bibliografici, ma vi garantisco che le cose stanno in questi termini.
Per carità, niente di male. Si può (a volte si deve) cambiare idea. Come diceva, mi pare Scalfari (cito a memoria) a forza di essere coerenti si rischia di diventare imbecilli.
Ciò che m'infastidisce è che Ceronetti non ricordi le sue posizioni diametralmente opposte a queste odierne. Non può essersi dimenticato di ciò che ha, a più riprese, scritto. Anche perché, in finale di articolo, dice:

«La più accreditata Metereologia dava per certa, qualche anno fa, un'Italia centro-meridionale in regime pluviale ridotto al minimo e del tutto insufficiente: ora gli incombe un plumbeo implacabile di cielo iperorinatoriale che fa pronunciare specifiche imprecazioni a viti, olivi, girasoli, case, giornali, e impedisce di metter fuori ad asciugare sulle corde calzini e mutande di buona e mala ventura» [troppo forte].

Eh no, caro Guido, non si può scaricare sui metereologi la colpa di cattive previsioni a lungo termine. Certo, questa pioggia ha rotto le palle, ma pensi a quanto è stata da Lei invocata. Dunque, suvvia: cappello, ombrello, giornali e libri sottobraccio. Il sole si riaffaccerà.

*Posso dire con franchezza che questo blog tenta di percorrere una strada analoga a quella della rubrica (poi divenuta libro) Tra pensieri che, nel 1990 mi pare, Ceronetti inaugurò su La Stampa allora diretta da Paolo Mieli.

domenica 26 aprile 2009

Agnosticismo perfetto

«Quando ero molto giovane mi capitò di assistere a una conversazione piuttosto curiosa. Un tale disse: "Io so che un Dio esiste!".
E un altro ribatté: "Io so che non esiste!".
Non è straordinario che due proposizioni contraddittorie possano esser note entrambe? E in effetti, come si fa a conoscere l'una o l'altra? Se Dio esiste realmente, si potrebbe realmente saperlo, anziché semplicemente crederlo? Forse si potrebbe, diciamo mediante un'intuizione mistica. D'altra parte, se Dio non esiste, sarebbe possibile conoscere un fatto simile? Certamente non con mezzi scientifici! Ma si potrebbe, allora, saperlo per via mistica? In tal caso sarebbe un tipo di misticismo davvero interessante quello che permettesse di percepire la non esistenza anziché l'esistenza di qualche cosa!»

Raymond Smullyan, 5000 avanti Cristo..., Zanichelli, Bologna 1987

sabato 25 aprile 2009

L'unica cosa seria



E se Paolo Poli avesse ragione? Se davvero la Chiesa fosse l'unica cosa seria che abbiamo in Italia? E questo detto da un uomo che ha sempre votato comunista e che ha sempre irriso i preti e la Chiesa stessa, che non ha più fede ma crede ancora nell'uomo.
Piccola idea, che propongo di far sviluppare (e far cassare eventualmente) a Malvino.
E se per risollevare le sorti di questo paese facessimo ciò che fanno gli atei devoti, ma per una causa più nobile e meno ipocrita? Se della Chiesa in Italia non si può fare a meno (Malvino sostiene sia una zecca inestirpabile*), allora perché non cercare di conviverci con tale parassita visto che non si può (o non si vuole) staccarselo di dosso? Per capirsi: perché non appoggiare quelle persone cattoliche illuminate, tolleranti, realmente disponibili al dialogo e al confronto come il cardinal Martini, Vito Mancuso, Luigi Ciotti, Enzo Bianchi eccetera? Non sono ingenuo: so che adesso in Vaticano comanda una linea conservatrice e retrograda; tuttavia, mi pare ovvio che le attuali posizioni vaticane allontanino più che avvicinare molti fedeli. Allora, a mio avviso, bisogna insistere sulle contraddizioni interne, far emergere e sostenere coloro che provocano piccole crepe nei muri portanti della Dottrina (al contrario dei novelli paladini della fede che sono degli ottimi restauratori). Gli attacchi frontali stimolano troppo le difese e la Chiesa, dopo svariati secoli di potere, sa come respingerli, giacché quando c'è da fare la vittima non la batte nessuno. Dunque, istillare dubbi, incertezze, logorare ai fianchi: bisogna far sì che la nostra zecca ci torni utile.

Per concludere riporto questo esilarante passaggio dell'intervista fatta da Aldo Cazzullo all'attore fiorentino sul Corriere di oggi:

«Oggi, il miglior talento politico d`Italia è palesemente il cardinale Ruini. Una faina: intelligentissimo. Meglio di Fini e D`Alema messi insieme: l`uno guarda la sostanza, gli altri si accontentano della bella presenza. Anche se devo ammettere che D`Alema mi garba molto». Politicamente? «Ma no. Fisicamente, è ovvio». Franceschini? «Caruccio». E di Berlusconi, cosa pensa? «Non penso. Preferisco dimenticare. Non ho mai cercato lustro attaccandomi ai forti. Come Parise, guardo ai deboli, ai poveretti, agli inadeguati. Se in scena c`è un cane, non è mai di razza, è un cane bastardo».

Trittico fortiniano

a) Italia 1942

Ora m'accorgo d'amarti
Italia, di salutarti
Necessaria prigione.

Non per le vie dolenti, per le città
Rigate come visi umani
Non per la cenere di passione
Delle chiese, non per la voce
Dei tuoi libri lontani

Ma per queste parole
Tessute di pledi, che battono
A martello nella mente,
Per questa pena presente
Che in te m'avvolge straniero.

Per questa mia lingua che dico
A gravi uomini ardenti avvenire
Liberi in fermo dolore compagni.
Ora non basta nemmeno morire
Per quel tuo vano nome antico.

b) In memoria II

Non capisco
che cosa debba volere
fra questa lapidi di ebrei
il nome di mio padre
che è il nome mio
il nome dei padri
il grido della tribù
che volgeva le spalle
alla fossa perché
scarmigliato spirito
l'Iddio Cane
l'Iddio di Abramo
e di Giobbe agguantasse
il pacco d'intestini
nei lini bianchi

e ci lasciasse in pace.

c) Aprile torna...

Aprile torna e a sera un frescolino
irrita gole di ragazze accese:
in un palio ciclistico protese
volanti rubiconde mutandine.

Come rauche ora vociano parole
quasi laide nell'aria della sera!
Fu dolce, in altro tempo, primavera.
Godono pepsi cola ignude gole.

I ragazzi le annusano. Una bella
passò, di zinne e deltòidi ribaldi
e d'altro che acre un dì mi fu diletto.

Ma come mai sensibile diletto
trovar non so che me attonito scaldi?
Sì, d'aprile il dormire è cosa bella.

Franco Fortini, Una volta per sempre (poesie 1938-1973), Einaudi, Torino 1978 [a+b); Composita solvantur, Einaudi 1994 [c]

venerdì 24 aprile 2009

Far desiderare la scienza



«È incontestabile che, sebbene sia - com'io credo - impossibile dare una spiegazione sociologica alla nascita del pensiero scientifico o all'apparizione dei grandi genî che ne rivoluzionano lo sviluppo- Siracusa non spiega Archimede meglio di quanto Padova o Firenze non spieghino Galileo - pure questo stesso sviluppo ha bisogno di condizioni sociali determinate. La scienza non si sviluppa nel vuoto; i sapienti sono uomini, hanno bisogno di vivere e come ci ha già detto Aristotele, hanno bisogno di tempo libero. E affinché le leisured classes, od almeno una parte delle leisured classes, impieghino il loro tempo libero con l'esercizio del pensiero scientifico e non con altre mille cose alle quali possono dedicarlo, occorre che fra le leisured classes, e forse anche fra quelle classi che non lo sono, il possesso del sapere scientifico appaia desiderabile, sia circondato di rispetto e anche di prestigio. A queste condizioni soltanto si possono creare le scuole scientifiche, senza la cui esistenza lo sviluppo della scienza è rigorosamente impossibile (per fare avanzare la scienza bisogna prima apprenderla, e per apprenderla bisogna avere qualcuno che la insegni: inversamente, per insegnare la scienza bisogna avere qualcuno che la impari); solo a queste condizioni può formarsi l'ambiente simpatetico e comprensivo che sostenga lo sforzo del sapiente, testimoniandogli interesse, e costituisca il pubblico al quale indirizzarsi. Nonostante tutte le dichiarazoni orgogliose che affermano il contrario, non si parla quando non c'è nessuno per leggerci».

Alexandre Koyré, Dal mondo del pressappoco all'universo della precisione, Einaudi, Torino 1967 (pag. 70)

Scintille di purezza




«Il mondo vive di scintille di purezza; quando sono disseminate nel mondo e vengono poi raccolte, il mondo dell'impurità crolla su se stesso».

Jacob Taubes, La teologia politica di San Paolo, Adelphi, Milano 1997 (pagg. 31-32)

Mi scuso per gli auguri in ritardo, stupenda Signora.

Postilla
Aggiungo la dedica anche a questa Signora, vista stasera esibirsi al David Letterman Show (Raisat Extra). Era stupenda.

Voyerismo americano



Pubblicità competitiva

giovedì 23 aprile 2009

Durare nei secoli

«Saper "durare" è certo prova di astuzia, prudenza, tenacia, capacità di ammassare forza. Ammiriamo i Romani, la Chiesa Cattolica, l'Impero Britannico per questo.
Ma se ci si vuol far pensare - come da un pezzo si vuole - che la capacità di durare negli anni e nei secoli, cioè di accumulare, mantenere e accrescere forza materiale, sia una prova di verità o di bontà del principio che nell'istituzione s'incarna, allora bisogna iscriversi radicalmente in falso, e dire che la durata di un'istituzione non significa assolutamente nulla quanto alla sua "bontà".
E si deve allora aggiungere che non la durata impertubabile ma la mutevole impermanenza è la caratteristica umana per eccellenza e che questa ci tocca, non quella affatto.
Vivere o morire - si deve insistere - non ha nessuna importanza: ciò che importa è che si conservi la propria identità, che si viva fermo in ciò che si è, e che si muoia tale quale si è stato.
Quanto alla volontà di sopravvivere a ogni costo, ci si può sempre contare, nelle istituzioni come negli individui, e non ha nulla di particolarmente ammirevole, nulla, soprattutto, di particolarmente significativo».

Nicola Chiaromonte, Che cosa rimane - Taccuini 1955-1971, Il Mulino, Bologna 1995 (pag. 19).

mercoledì 22 aprile 2009

Une promenade



Se nascondessi il mio Sé
e mi dimenticassi di me.
Se mi lasciassi da parte
sparpagliato, come un mazzo di carte
scozzato.
Se tu mi trovassi
abbandonato tra spini e sassi
d'un terrazzamento toscano,
mi daresti la mano
in quel caso? Me la stringeresti?
A corsa prenderesti
facendomi volare come la sposa
di Chagall, un aquilone rosa
che smuove le giovani foglie dei tigli,
che soffia sussurri e bisbigli
tra i capelli tuoi scompigliati.
Ti fermi: siamo ancora incollati?
Ricorda: io sono un puzzle di mille
unità che, per ricomporre, le pupille
tue dovranno faticare.
Sarà difficile come improvvisare
una partita di scacchi sul mare
in tempesta.

[2007]

martedì 21 aprile 2009

Dilemmi antropologici

«Il mondo moderno, nel quale l'uomo sembra essere l'unico problema per l'uomo, è venuto sradicando la tradizione dei rituali; nel contempo ha sospinto la morte ai margini dell'esistenza e della coscienza. Quanto più si sgretola la tradizione idealistica, tanto più incontrollatamente e distruttivamente si diffondono leghe segrete, ricerca di estasi, amore per la violenza e la morte contro tutti gli ordinamenti apparentemente razionali. Non è possibile creare artificialmente rituali, ancor meno il loro orientamento verso il sovrumano, che non può più fondarsi sul mistero e sul segreto. Contro gli elementi di violenza e di angoscia nella tradizione, si rivolge la speranza in un uomo nuovo, non violento. Come in questo l'intelligenza individuale, soggettiva, possa essere subordinata a necessità sopraindividuali, per rendere possibile la continuità dell'uomo oltre la cesura delle generazioni, non è prevedibile. È probabile che finiranno con l'affermarsi forme sociali che lascino alla psiche arcaica dell'uomo il suo diritto, e resta solo da sperare che primitivismo e violenza non vengano scatenati in modo incontrollato. In ogni caso la conoscenza delle tradizioni, che si sono affermate nel tempo e che per questo sono tenacemente sopravvissute nei molteplici esperimenti dell'evoluzione umana, non dovrebbe andare perduta nell'ulteriore sperimentazione verso un incerto futuro».

Walter Burkert, Homo necans - Antropologia del sacrificio cruento nella Grecia antica, Boringhieri, Torino 1981 (pagg. 205-6) [ed. orig. 1972]

Sono titubante se giudicare tale brano in linea con le posizioni degli atei devoti, o se invece in esso si scorga qualcosa che mina alla base la possibilità di costruire un qualsivoglia muro tradizionalista contro l'avanzata (faticosa avanzata) dei lumi della ragione.

Il saggio e il fumo

Un conoscente mi disse
che il grande saggio
Nisargadatta Maharaj
una volta gli offrì una sigaretta:
«Grazie, signore, ma non fumo»
«Non fumi?» disse il maestro
«E cosa vivi a fare?»

Leonard Cohen, Il libro del desiderio, Mondadori, Milano 2007

Birth control

Per vizio d'imperfetto
Còito interrotto - sia pure

In giorno ovulatorio - vuoi che non mestrui
La donna?

Tu e i tuoi pensieri!
Con le paure perverti l'evento!

Benché non è da escludere che un laser del cervello
Pènetri l'alto grembo.

Ménati gramo da solo
Sventurato figliolo!


Giovanni Giudici, Lume dei tuoi misteri, Mondadori, Milano 1984

lunedì 20 aprile 2009

L'ordine sacro

«L'ordine sacro, qualunque ordine sacro, elude lo scandalo del male, e mediante tale elusione acquista il suo titolo di credito mondano. Il suo compito consiste nel convincere che la realtà del mondo è, per l'appunto, un ordine sacro, dove tutto cioè accade secondo i divini decreti, che dispongono ogni cosa per il meglio. Se il terremoto di Lisbona ha potuto scuotere in Voltaire la fiducia nel migliore dei mondi possibili, se per Dostoevskij niente e nessuno, nemmeno Dio, può giustificare le lacrime di un bambino che soffre, per l'uomo dell'ordine sacro, questo progenitore del borghese con le sue sicurezze, tutto invece è perfettamente logico e perfettamente giustificato per definizione.
Ma il cavaliere della fede dice a Giobbe: "difendi la tua disperazione dalle mani dei tuoi amici. Guai a chi sfrutterà i beni delle vedove e degli orfani, ma guai anche a colui che abilmente inganna chi soffre e gli nega perfino il tenue conforto di dare sfogo al suo dolore e di “contendere” con Dio" (Kierkegaard, La ripresa)».

Sergio Quinzio, La croce e il nulla, Adelphi, Milano 1984 (pagg. 92-93)

domenica 19 aprile 2009

Repubblica podologica



Il servilismo della conduttrice di Domenica in ha suscitato, giustamente, molta indignazione. Tuttavia, non capisco dove sia lo scandalo: che differenza intercorre infatti tra una simile cortigianeria e il lavoro quotidiano di un Bonaiuti, Cicchitto, Gasparri, Capezzone, Bondi, Fede, Giordano et similia?
Anche ammettendo (ma non concedendo) che Berlusconi non si sia manco accorto di tale zelo, il punto è: come può un uomo della nostra era democratica tollerare che un altro uomo, o donna, possa abbassarsi a cotanta infamia pur di servirlo, adularlo, ossequiarlo, osannarlo? Ricordate le famose intercettazioni tra Berlusconi e Saccà? No, non per il contenuto, ma per il tono. Infatti, ciò che a me più colpì di tale "telefonata" non furono tanto le "raccomandazioni" per questo o quello, ma il tono da servo della gleba che Saccà tenne durante il colloquio nei confronti del suo interlocutore.
Io non so come sia avvenuto che, dopo più di sessant'anni di democrazia, in una repubblica si possano tollerare simili atteggiamenti servili nei confronti del potere: di qualsiasi potere. Lo scandalo però, a mio avviso, non si trova tanto nel fatto che qualcuno (la maggioranza) del popolo si faccia gregge per qualche pastore [vedi la magnifica epigrafe malviniana], ma nel fatto che il pastore democratico accetti di governare un gregge e non un popolo di cittadini. Fuor di metafora: che un uomo si circondi solo di leccapiedi: questo è il vero scandalo berlusconiano. E che questo non faccia specie alla maggioranza degli italiani è il dramma della nostra storia repubblicana.

sabato 18 aprile 2009

C'è chi dice è una Strega

L'è tutto un concorso. C'è chi concorre e chi non concorrerà. 
«È orribile constatare quanta falsità circonda i premi letterari, e venire a conoscenza delle storie che ne parlano [...] Da quindici anni non accetto più né premi, né altre cose del genere. L'unico problema è che, nella maggior parte dei casi, chi conferisce i premi è molto astuto e prima di decidere interpella lo scrittore; quindi si crea nuovamente una situazione spiacevole, perché se la persona interpellata rifiuta, loro cercano qualcun altro. Le onorificenze sono comunque una scemenza; hanno un senso soltanto se non si ha una lira o se si è giovani, oppure se si è vecchi, ma non si ha un soldo. Se uno ha di che vivere, come nel mio caso, allora non ha bisogno di accettare alcun premio. L'onorificenza non serve a nulla, è soltanto una stupidaggine. La gente che distribuisce i premi è spaventosa.»
Conversazioni di Thomas Bernhard, Guanda, Parma 1989 (pag. 85-88)

Per questa ragione, credo che Daniele Del Giudice abbia fatto male a ritirarsi prima di (eventualmente) vincere il premio: avrebbe potuto rifiutarsi di ritirarlo se lo avesse vinto davvero e compiere, in quel caso, un gesto da gran signore.

venerdì 17 aprile 2009

La stanchezza di Dio

«In un oscuro villaggio della Polonia centrale, c'era una piccola sinagoga. Una notte, mentre faceva il suo giro di ispezione, il rabbino entrò nella sinagoga e vide Dio seduto in un angolo buio. Il rabbino cadde in ginocchio col volto in terra e gridò: "Signore Iddio, cosa stai facendo qui?" E Dio gli rispose con una voce flebile, che non usciva né da un tuono né da un vortice di vento: "Sono stanco, rabbino, sono mortalmente stanco".»

«[...] Dio si era stancato della crudeltà dell'uomo. Forse non era più capace di dominarla e non riusciva più a riconoscere la propria immagine nello specchio della creazione. Ha lasciato che il mondo si dedicasse alle proprie azioni inumane e ora abita in qualche altro angolo dell'universo, tanto remoto che i suoi messaggeri non possono nemmeno raggiungerci. Immagino che se ne sia andato durante il XVII secolo [...] Nel XIX secolo, Laplace annunciò che Dio era una ipotesi di cui la mente razionale non aveva più bisogno; Dio prese il grande astronomo in parola

Poi Dio ispirò il viaggio di un naturalista intorno al mondo soffiando sulle vele del brigantino Beagle e disse: «Ciao ragazzi, mi avete rotto, mi ritiro. Date retta al mio Carletto: vi ho fregato, io non c'entro. Se volete farmi rientrare, smettete di scannarvi. Ci vedremo tra qualche millennio, forse».

Di qui la morte della tragedia perché «per vivere, la tragedia ha bisogno dell'intollerabile peso della presenza di Dio, e ora è morta perché Egli non getta più la sua ombra su di noi, come su Agamennone o Macbeth o Atalia

Dio era stanco e se n'è andato. Si è reso conto di non esser più necessario. Tutto è diventato tristemente comico. Roba da libro del riso e dell'oblio.

Brevi divagazioni inserite tra le pagine di George Steiner, La morte della tragedia, Garzanti, Milano 1992 (pag. 303-4)

giovedì 16 aprile 2009

Mi duole l'Italia

«Se dovessi rispondere alla domanda: "Che cosa ti fa soffrire di più, vivendo in Italia?", non direi che questo: il suo fallimento civile, e metterei il mio patire di cittadino in testa alla processione delle doglianze. Per usare uno spagnolismo: "mi duole l'Italia"; l'Italia mi è malattia – malattia non mortale però incurabile. Ma non invidio i connazionali indifferenti che non ne soffrono, e che sono causa, in parte, del dolermi l'Italia; la privazione di pena pubblica non è segno di salute psichica e mentale: qui, soltanto chi è profondamente malato d'Italia ha la testa a posto».

Guido Ceronetti, Cara incertezza, Adelphi, Milano 1997 (pag. 73)

Tali parole mi hanno dettato questi versi, spero degni di tale disperazione civile.

Vorrei tanto in disparte salire quel monte.

«Qual monte mi dice una voce feroce

non vedi non puoi non devi nemmeno

pensarlo, figuriamoci farlo adesso

che non è più inverno che il clivo

più dolce appare al cammino».

Io semplicemente chiedevo un minimo

d'ombra che celasse questa vista

d'Italia malata, di teste che vuote

vociferano insensatezza.

Volevo farmi eremita, sfollare nei prati

d'alpeggio, ché al peggio non credo più

possa esserci fine, soprattutto qui

nella penisola da pena abbattuta

dalla voragine civile, dai sorrisi beoti

degli italioti che sparsi seguono

l'ebetudine del potere.

Se un giorno potessi vedere trionfare

l'intelligenza la benevolenza un barlume

di vera cittadinanza, allora potrei

riscendere a valle, riconquistare la piazza

l'amabile conversare negli affollati caffè.

Potrei, se questa puttana la finisse,

una volta per tutte, di ferirmi.

mercoledì 15 aprile 2009

Tempo e spazio

La lettura di questo post notevole di Iliade XXIII su Filosofi e terremoti, mi ha riportato alla mente questo passaggio tratto da un libro che, ogni volta che lo leggo, sento crescere l'ammirazione, la soddisfazione e la gratitudine verso qualcuno che abbia potuto scrivere un simile capolavoro.

«Per Sebastian il tempo non era mai il 1914 o il 1920 o il 1936 - era sempre l'anno 1. Per lui i titoli dei giornali, le teorie politiche, le idee di moda non significavano più di quanto significasse la garrula nota stampata (in tre lingue, e con errori almeno in due) sull'involucro di una saponetta o di un dentifricio. La schiuma poteva anche essere densa e la scritta convincente - ma tutto finiva lì. Capiva perfettamente quei pensatori sensibili e intelligenti che non riuscivano a dormire a causa di un terremoto in Cina; ma, essendo l’uomo che era, non sapeva spiegarsi perché quelle medesime persone non provassero esattamente lo stesso spasimo di dolore e di ribellione al pensiero di calamità simili accadute tanti anni prima quanti erano i chilometri che le separavano dalla Cina. Tempo e spazio, per lui, erano misure della stessa eternità».

Vladimir Nabokov, La vera vita di Sebastian Knight, Adelphi, Milano 1992 (pag. 76)

Il proprio petto

Son rimasto male oggi nel leggere della morte di Franco Volpi. Chissà quante cose aveva in cantiere per Adelphi, quante ricerche da completare, quante traduzioni.
Bello il ricordo che ne fa l'amico Antonio Gnoli su Repubblica, di cui riporto questo passaggio:

«Di tutti i viaggi fatti, di tutte le persone incontrate, di tutte le esperienze condivise - i luoghi, gli individui, i libri - mi resta chiarissima una frase che amava ripetere: "Sbagliano quelli che pensano che la vita si spiega con la filosofia. Per quanti sforzi il pensiero faccia, il risultato è sempre lo stesso: la filosofia arranca dietro la vita che se la ride". Volpi pensava da filosofo, ma agiva da uomo che vede il mondo andare in tutt'altra direzione. Era convinto che i filosofi avessero perso la curiosità, il gusto di meravigliarsi, di lasciarsi sorprendere, di gioire del nuovo. Credevano di avere in pugno il mondo e avevano in pugno solo se stessi.»

Per parte mia, trascrivo queste parole tratte da un saggio introduttivo di Volpi intitolato Itinerarium mentis in nihilum: [tratto da Ernst Jünger-Martin Heidegger, Oltre la linea, Adelphi]

«Anziché andare alla ricerca di colpevoli, come fanno coloro che non hanno ancora avvertito la gravità della situazione, sia Heidegger che Jünger bevono il calice fino in fondo, si fanno carico cioè dell'accusa di nichilismo, cercando di "sperimentare su di sé l'enorme potenza del niente". Essi la sollecitano, convinti che solo col suo compimento sia dato anche il suo esaurimento e, con esso, la possibilità del suo superamento. Questo non vuol dire, né per Heidegger né per Jünger, azzardare congetture; si tratta piuttosto, per entrambi, "di lascir sgorgare le fonti di energia ancora intatte e di fare ricorso a ogni ausilio, per reggersi "nel vortice del nichilismo".
Ma come individuare queste fonti di energia? Qui l'itinerario dei due, di nuovo, diverge. Né si ricongiungerà nei successivi contatti. Jünger tenta l'indicazione di un punto di resistenza al quale i suoi scritti successivi si abbarbicano con sempre maggiore tenacia, ma che già qui è individuato con soverchia chiarezza: "Il proprio petto: qui sta, come un tempo nella Tebaide, il centro di ogni deserto e rovina. Qui sta la caverna verso cui spingono i demoni. Qui ognuno, di qualunque condizione e rango, conduce da solo e in prima persona la sua lotta". Heidegger è assai più vigile e guardingo: non vi sono punti archimedici, perché "ormai solo un dio ci può salvare". Se mai un punto d'appoggio sarà possibile, esso non è da cercare in pectore, ma tutt'al più nel pensiero.
Vale allora in conclusione, a illustrare convergenze e differenze, a riassumere questo memorabile itinerarium mentis in nihilum del ventesimo secolo, quello che Gottfried Benn esprimeva nei suoi versi composti all'indirizzo di Jünger:

"Dall'esterno siamo spesso legati,
dall'interno per lo più separati,
ma di quello che secolo si chiama,
dividiamo il flusso, le ore,
l'ecce, la follia, le piaghe".»

martedì 14 aprile 2009

Un malato ontologico



Berlusconi è una persona malata e la sua malattia si chiama desiderio: desiderio ontologico per l'esattezza, desiderio d'essere continuo, mai appagato, irrealizzato. Il desiderio mimetico è una brutta bestia: si nutre sempre di modelli, li cerca dappertutto e quando li trova vuole strappargli di mano lo scettro, li vuole sormontare, a cominciare dai desideri e voleri di questi. Una volta superato il modello, non resta che cercarne un'altro, e questo avviene soprattutto se uno è malato, perché la sete d'essere è inestinguibile. Un tempo ci si limitava ad avere dei modelli che risultavano, effettivamente, irrangiungibili, di cui si imitavano i gesti e i desideri, sapendo in partenza di non poter mai arrivare a eguagliare, a possedere l'essenza del proprio "dio".
Il mondo moderno però ha ridotto vertiginosamente le distanze tra modelli e discepoli. La lotta per possedere l'essere è sempre più serrata.
Per tornare al nostro Berlusconi, mi ricordo bene come una volta disse, mi pare prima che si mettesse a fare il politico, che un tempo aveva avuto nel suo ufficio una foto di Gianni Agnelli, preso, appunto, a modello di riferimento. Una volta raggiunto e superato lo stesso grado di ricchezza e di rilevanza economica dell'Avvocato, Berlusconi non si è sentito appagato e ha cercato, appunto, un altro modello: lo Statista:
Adesso che l'Italia, perlomeno nella sua maggioranza, lo osanna e venera come un semidio, Berlusconi non è ancora pago. Cerca il riconoscimento internazionale: da qui derivano i suoi comportamenti da buffone ai vari vertici con altri capi di Stato, per reclamare a gran voce, e continuamente, cinque minuti di celebrità. Da qui derivano anche le varie iniziative censoree alle redazioni di alcuni giornali esteri, fatte tramite la Farnesina (vedi oggi l'articolo di Bernardo Valli su Repubblica). Berlusconi non potrà mai essere una persona seria, perché vuole sempre essere (o tentare di essere) protagonista. Non sopporta le critiche, anche quando colgono nel segno, perché egli crede sinceramente di essere sempre nel giusto; ma soprattutto non le sopporta perché esse minano il riconoscimento e il plauso che sono la base della propria idolatria. Ecco perché finora, grazie alla forza del suo potere mediatico e dei suoi corifei, ha sempre circoscritto tali critiche dentro due recinti: la Sinistra (comunista) e il Giustizialismo (magistratura comunista). Ma adesso che le critiche dall'estero si fanno più serrate e dettagliate, che l'apprezzamento del panorama internazionale è pari a quello tributato a Chavez, ecco che Berlusconi, il malato ontologico, tenta la contromossa: tramite il fido Frattini manda delle note di rimprovero ai media esteri perché non osino più permettersi di criticare così ingiustamente l'Italia: la sua Italia. Visto che non può più permettesi di conquistare un posto al sole, cerca di conquistare un posto nelle vetrine europee. Mi raccomando quindi, giornalisti e scrittori esteri, cercate di accontentarlo: mettetegli un cappello alla Napoleone e ditegli che è il più grande statista europeo del momento. Vedrete come diventerà dolce. Forse, finalmente, si squaglierà.

Le persone migliori

a Malvino

«Gustoso esempio di un atteggiamento opposto a quello descritto [nel precedente
post] è quello di un pastore protestante che una volta mi disse:
"Come mai le persone migliori che conosco sono atee?".
"Come potete pretendere di convertirli con questi discorsi?" gli chiesi.
"Convertirli?" rispose, "e chi vuole convertirli?".»

Raymond Smullyan, 5000 avanti Cristo..., Zanichelli, Bologna 1987

lunedì 13 aprile 2009

Un Dio scientifico

«Una cosa che mi ha sempre incuriosito è che molte persone di fede religiosa diano per scontato che Dio preferisca quelli che credono in lui. Non può darsi che il vero Dio sia un dio scientifico, poco disposto alla pazienza nei confronti di convincimenti basati sulla fede anziché sulle prove?»

Raymond Smullyan, 5000 avanti Cristo..., Zanichelli, Bologna 1987

domenica 12 aprile 2009

È la Pasqua

È la Pasqua, la Pasqua, la Pasqua!
Corro in bagno, riempio la vasca,
perché al suono di tante campane
la mia anima puzza di cane.

Toti Scialoja, La mela di Amleto, Garzanti, Milano 1984

sabato 11 aprile 2009

Buona Pasqua

A René Girard, a Silvio Morigi

Se esiste una verità cristiana, questa è la verità della vittima. Verità di portata universale inchiodata una volta per sempre nella croce. Verità che svela le cose nascoste sin dalla fondazione del mondo. Perché gli uomini non hanno saputo e non sanno ancora riconciliarsi se non a scapito di una vittima, di un capro espiatorio. Verità difficile da portare sulle spalle, difficile altresì da comunicare. Ci si accorge di essa per intero solo quando si diviene o consapevoli persecutori o vittime. Ossia: o Grandi Inquisitori (le Gerarchie i Poteri forti - Caifa per intenderci) o poveri cristi silenziosi, inermi. Il resto è pubblico che sbraita, moltitudine che grida, massa che segue il fiume della persecuzione che porta, inevitabilmente, al bagno di sangue, alla carneficina.
La verità cristiana è la verità dell'individuo, della sua solitudine di fronte alla folla. Al di là di quello che Gesù possa esser davvero stato, è innegabile che la sua vita, le sue opere e parole e, soprattutto, la sua morte rappresentino una chiave di volta nella storia dell'umanità. Da quel momento in poi, gradualmente, senza interventi magici, la verità della vittima è emersa nel mondo - con fatica, stupore e anche dispetto, soprattutto in chi voleva incatenare tale verità sotto una squallida dottrina di potere. Cristo non è di nessuna di Chiesa. Cristo è il figlio dell'uomo, è il figlio dell'impotenza, della sconfitta, della derisione di ogni potere persecutorio e carnefice, è lo sguardo dell'altrove e della consolazione.

Questo è quello che penso: che l'amore è solo una carezza, solo una mano di donna che si posa sopra la fronte addolorata. E la mia massima ambizione è saper scrivere come Gesù sulla sabbia, con la minima speranza far evitare a ogni puttana la lapidazione. Buona Pasqua.

Ancora libri




Sabato, silenzio, lettura. Ieri comprati a Firenze quattro libri:
Corrado Augias-Vito Mancuso, Disputa su Dio, Mondadori, Milano 2009
Milan Kundera, Un incontro, Adelphi, Milano 2009
Leonard Cohen, Il libro del desiderio, Mondadori, Milano 2007
Richard H. Popkin-Avrum Stroll, Filosofia per tutti, Il Saggiatore, 2008.

Per ora mi son tuffato nella disputa: lettura piacevole, mangiate dopo pranzo sessanta pagine. Ma ora, per camminare un po' col cane nei dintorni, mi prendo le poesie di Cohen. A proposito: dalle foto in quarta di copertina dei due libri, noto una certa somiglianza fra Corrado e Leonard, cappello a parte.

giovedì 9 aprile 2009

Aspirazioni

Poi che non scorgo via d'uscita
Nel lume di questa vita

In te rifugio il triste orgoglio
Spessore di questo foglio

E nella mente mi assottiglio
Microbo figlio di figlia d'un figlio

Specchio del nostro doppio io
Ti dò del tu ti chiamo dio

Dio del fratto e dell'intero
Dio del rotondo zero

Dio della lingua dio del muto
Dio del groppo e dio del buco

Dio del suo gelo dio del sole
Dio delle nelle mie parole

Dio dell'acme e del declino
Dio che viaggio il mio destino

Dio del no dio che si dona
Dio ragione che sragiona

Dio del suo cuore e dio del ventre
Dio che il mio pregare offende

Dio del nada dio del todo
Dio del muro e dio del chiodo

Dio che cammini la tua ombra
Dio che cresci nella tomba

Dio della pasqua sola e stretta
Nella remota cameretta

Dio d'ogni tenero interstizio
Dio del canto nel supplizio

Dio della carne dio scarnito
Dio fiore dio ermafrodito

Dio del pistillo e dello stame
Dio dell'essenza e del letame

Dio neoplasma dio del corpo
Dio dello spermio e dell'aborto

Dio del molle e dio del duro
Dio borsa e coda del canguro

Dio del latte e di taverna
Mi deus pax sempiterna

Dio del fiele e della panna
Dio della monna e della mamma

Dio del bel pianto traditore
Dio della bocca dio d'afrore

Dio del suo vello che nascondi
L'opposta luna dei suoi lombi

Dio del grembo dio del mare
Che mi guidasti a navigare

Dio nostra stella solitaria
E dio del fumo dio dell'aria

Dio con te stesso ricongiunto
Nel vano punto del tuo punto

O via improbabile d'uscita
Dal buio d'una scissa vita

Tra recto e verso in te filtrando
Nel deserto del tuo bianco

Portaci al tuo riposto covo
Tra guscio e pelle intatto uovo

Dove di noi sorride e sta
La minima tua verità

Giovanni Giudici, Lume dei tuoi misteri, Mondadori, Milano 1984

mercoledì 8 aprile 2009

Le jene



Da un mese nel nostro giornale hanno assunto in prova due jene. Una mattina, nello stanzone dove lavoro assieme ai colleghi Rosso e Milito, è entrato il capo dei servizi di cronaca con un tale che teneva queste due jene al guinzaglio. Le ha sciolte e se n'è andato. Sulle prime ci siamo un po' allarmati, la jena è un animale sgradevole; anzi pare la combinazione araldica di tutti gli animali sgradevoli: ha qualcosa del ratto di fogna, del coccodrillo, dello scorpione, un che di pipistrello, e sembra che, invece della sua pelliccia, del resto inutilizzabile, indossi uno scendiletto sporco.
Vista di spalle, dalla potenza del groppone potrebbe essere scambiata per un grosso cinghiale; ma il cinghiale ha qualcosa di nobile, di leale, e non è selvatico come si crede. Sono gli uomini che ve l'hanno ridotto dandogli continua caccia. Tempo fa ho visto una femmina di cinghiale coi suoi cuccioli, in una gabbia; la tenevano davanti a un ristorante della Maremma, quei maledetti, vicino all'ingresso, per richiamo e garanzia di buona cucina. Bene, quando mi avvicinai a quella gabbia, la brava bestia cominciò a dimenarsi e a mugolare di gioia, strofinando il muso contro la rete, guardandomi con occhi imploranti, quasi chiedendo le mie carezze. Mi lasciò una serena impressione di affetto e la certezza che in ogni animale c'è un nostro amico, che non ignoriamo.
La jena no, non dà questa impressione, che persino i serpenti possono comunicare. La jena è fissa a un suo orribile traguardo, vuole il nostro cadavere, e ben putrefatto per giunta. Vile e sospettosa, manda un pessimo odore. Non so se questo sia dovuto al cibo che preferisce. Appare timida, ansiosa, non sta mai ferma, aspetta che gli voltiate le spalle soltanto; sempre fiutando l'aria col suo naso diabolico e mostrando i denti, per una sua incapacità direi comica a tener chiuse le labbra: è il suo sorriso perenne. Il suo riso, lo sappiamo tutti, è agghiacciante: ci senti il sarcasmo e la ferocia professionale dell'assassino.
«Allora,» disse quel giorno il capo dei servizi di cronaca «ve le lascio qui con voi, ci sono questi due tavoli liberi». E aggiunse: «Spero che diventerete buoni colleghi e che nei primi tempi le aiuterete». Veramente sorpreso, osai chiedere: «Colleghi? Che dobbiamo farne?». Il capo dei servizi di cronaca se ne andò senza nemmeno rispondere; sono un praticante, come Rosso e Milito, posso essere mandato via senza preavviso. Ci lasciò con le due jene. Esse dapprima misurarono su e giù lo stanzone, poi si sdraiarono sui loro tavoli: e rimasero lì a guardare noi, le finestre, il soffitto e la porta, alternativamente. Da farti girare la testa. Ogni tanto arricciavano il naso per lontani fetori che soltanto esse percepivano. Questo il primo giorno. Il secondo si fecero più audaci, venivano a frugare nei cestini della carta straccia, persino a leggere i nostri pezzi; e quando arrivò il ragazzo del bar coi nostri sandwich gli tagliarono la strada e se li mangiarono di colpo.
Ci si abitua a tutto. Dopo una settimana c'eravamo anche abituati al fatto che consumassero lì, sotto i nostri tavoli, con uno sgranocchiare infernale, la loro colazione. A mezzogiorno viene infatti un garzone di macelleria con un gran cesto di frattaglie e di ossa. In un attimo se lo lappano e restano poi a leccarsi le labbra e a girare attorno al cesto, sempre sperando che vi sia rimasto qualcosa. Ho fatto le mie proteste quando le bestie hanno cominciato a depositare i loro escrementi nei vani delle finestre. Dalla direzione del personale ci hanno risposto mandandoci un sacco di segatura. O prendere o andarsene. Abbiamo finito per accettare la sconfitta. Che ha qualche vantaggio; primo, le jene ci aiutano nel nostro lavoro; secondo, poiché tutti i colleghi vengono con qualche scusa a vederci, ne ricaviamo un certo prestigio. Noi siamo «quelli delle jene», l'attrazione del giornale. L'essenziale è lasciar sempre le finestre aperte e spruzzare ogni tanto un deodorante. E tapparsi le orecchie quando ridono alle loro storielle.
C'è di più; dopo una decina di giorni abbiamo cominciato, Dio ci perdoni, a stimarle. Sanno fare il loro lavoro, lo perfezionano anche, si direbbe che ce l'hanno nel sangue, questa maledetta cronaca. Noi abbiamo su di esse il vantaggio di conoscere bene o male grammatica e la sintassi; abbiamo maggiore abilità nell'incollare le notizie d'agenzia, sappiamo telefonare e usare le figure retoriche, la metafora, la metonimia, l'antonomasia, la litote e l'iperbole: abbiamo, suvvia!, una certa cultura classica che ci permette di citare autori e fatti e prendere le cose alla larga, letterariamente, anche con una certa eleganza. Ma quanto – mi chiedo – quanto durerà questo nostro vantaggio? Le due jene, oltre a un'intelligenza non comune hanno (ed è questa la loro naturale qualità), hanno il cosiddetto fiuto, che non s'impara. Ora, per il nostro lavoro, aver fiuto è tutto. Esse sentono un fatto di cronaca a venti chilometri, e non solo il cadavere. Sentono il morituro, la tragedia, la strage, la complicazione, la notizia che monta, si allarga, investe la città, tutto il paese. Succedono ogni giorno fatti orribili ma stancanti, e noi siamo portati dalla noia, dalla routine, e anche dalla pietà a lasciarli esaurire con qualche articolo, attenendoci generalmente alle notizie che ci forniscono gli inquirenti. Le jene no, esse non mollano mai. Vanno fino in fondo, hanno il loro metodo: lavorano soltanto sul cadavere. Gli tirano fuori tutto, le trippe, il cuore, il passato, l'infanzia, il servizio militare, gli amori, le possibili depravazioni, i nomi delle amanti, i rapporti incestuosi o di natura «particolare» (oh, come amano questa parola!), e le fotografie, e i diari, e le più innocenti confessioni, tutto. Alla rinfusa, ma tutto. Scovano gli amici delle vittime, i camerieri, i lacchè, i lenoni: li fanno parlare, si fanno raccontare dietro compenso le cose più segrete e più luride, quelle stesse cose che le vittime avrebbero voluto seppellire nell'oblio per sempre, e hanno creduto di farlo uccidendo o uccidendosi. No, le jene vanno lontano, risalgono, scovano: e quando il cadavere non ha ormai più segreti, quando il lezzo è insopportabile, tornano da noi, ridono a crepapelle, osano invitarci a pranzo, ai loro pranzi.
Riuscirò mai ad abituarmi? O devo considerare già scontato il fatto che saranno esse a stancarsi di noi e a chiederci di abbandonare tutto il lavoro nelle loro mani? Il successo che ormai ottengono le fa spavalde. Ogni tanto mettono le loro zampacce infette sulle macchine da scrivere e tentano di scrivere. Vogliono imparare: e col tempo ci arriveranno. Ma ecco scoppia un altro delitto, un altro scandalo: prima che arrivi la notizia le vedi infilare la porta e per un po' si respira. La verità è che noi ci sentiamo già inutili, sorpassati. Questa mattina hanno assunto altre due jene e l'unica nostra speranza è che, col tempo, aumentando di numero, finiscano per divorarsi tra di loro. Se prima non divoreranno noi.

Ennio Flaiano, Le ombre bianche, Adelphi, Milano 2004
Pubblicato sul Corriere della Sera del 4 ottobre 1970

Personalmente

Si mette la mano sul doppiopetto, tra la giacca e la girocollo nera, e promette che se ne occuperà lui personalmente: povera gente, un motivo in più di preoccupazione

Realismo degli italiani

«A dirla in francese la cosa sta così: "Puisque les vérités premières restent toujours les mêmes, il est évident qu'il n'y a en réalité jamais rien à dire, mais tout juste à échanger des nouvelles sur la pluie et le beau temps, ou bien alors, si les choses se gâtent, à se servir des mots comme de matraques ou de couteaux: armes pour la lutte".
A dirla in italiano, la "realtà" per gli italiani è sempre l'ovvio accettato come tale, nella sua sordità cecità e morto peso. Ma l'ovvio poi, appunto per questo suo carattere sinistro (che solo scrittori come Moravia hanno il coraggio, fino a un certo punto, di affrontare), l'ovvio, dunque, imbarazza e spaventa. Bisogna togliere ogni sostanza offensiva e questo si ottiene abolendo della "realtà" il male: ciò che turba, disturba, ferisce, avvelena, tormenta. Il male - il peccato - lo si consegna al confessore se ne ottiene l'assoluzione e così è liquidato, oppure lo si nasconde, puramente e semplicemente, fra le pareti domestiche nel segreto della vita privata e così lo si annulla, mantenendolo in condizione da non poter nuocere.
Ma quel che rimane dopo tali astute operazioni è un pupazzo di cartone - se stesso - con una macchinetta dentro per la ripetizione indefinita dell'ovvio e la riaffermazione continua dello stato di fatto.»

Nicola Chiaromonte, Che cosa rimane - Taccuini 1955-1971, Il Mulino, Bologna 1995.

martedì 7 aprile 2009

L'ultimo giorno

La giornata era fosca. Nessuno prendeva decisioni.
Soffiava un vento lieve: «Non è greco, è scirocco» disse qualcuno.
Qualche cipresso magro inchiodato al declivio e il mare grigio,
con lagune di luce, laggiù.
I soldati presentavano le armi quando venne una pioggia fina fina.
«Non è greco, è scirocco»: l'unica decisione che si udì.
Pure, lo sapevamo che l'indomani non avremmo avuto
più nulla, né la donna che beve al nostro fianco il sonno,
né la memoria d'essere stati uomini, una volta,
più nulla, l'indomani.

«Questo vento dà l'idea di primavera» mi diceva l'amica
camminandomi a fianco e guardando lontano
«di quella primavera calò improvvisa
d'inverno presso il mare chiuso.
Tanto inattesa. Tanti anni passati. Come
morremo?»

Girava una marcia funebre nella pioggia sottile.
Come muore un uomo? Strano, nessuno ci ha pensato.
E per chi ci ha pensato è stata come una reminescenza
di certe vecchie cronache
del tempo dei crociati o della naumachia di Salamina.

Pure la morte è una cosa che succede: come muore un uomo?
Pure la morte ognuno la guadagna, la sua morte che
non è di nessun altro:
questo gioco è la vita.
Declinava la luce sulla giornata fosca. Nessuno
prendeva decisioni.
E l'indomani non avremmo avuto più nulla: una totale
resa; neppure più le nostre mani;
le nostre donne schiave di stranieri alle fontane
e i nostri figli nelle latomie.
Camminandomi a fianco cantava l'amica una canzone mutilata:
«La primavera, e poi l'estate, schiavi...»
Venivano alla mente vecchi maestri che
ci lasciarono orfani.
Una coppia passò chiaccherando:
«La sera m'ha stufato, andiamo a casa,
andiamo a casa a accendere la luce».

Atene, febbraio 1939.
Giorgio Seferis, Poesie
[trad. Filippo Maria Pontani]

lunedì 6 aprile 2009

Tutta colpa dell'Africa



Tutta colpa dell'Africa, dell'Africa che spinge, incalza, preme, questa povera penisola di pena, la comprime e vuole farla sua. Africa che vuole Europa, che vuole ritrovare il luogo dove son fuggiti i suoi figli prediletti, il luogo della storia, del vento, della libertà. Aspiranti immigrati dunque, abbiate pazienza: ancora qualche millennio, forse 250 milioni di anni e, vedrete, non avrete più bisogno di malcerti barconi per rischiare di guadagnare il nostro sacro suolo. Suolo che sarà, di diritto, anche vostro, ove insieme daremo vita al nuovo supercontinente comunitario chiamato Eurafrasia. Orsù dunque fratelli africani: spingete piano, non abbiate tutta questa furia di rincongiungervi.

P.S.
Per quello che può valere, un abbraccio a tutta la popolazione colpita dal terribile terremoto.

domenica 5 aprile 2009

D'un fiato



Il cappuccino o altra simile bevanda,
bumba non ghiotta, ma bevanda.
Occupi tutta l'area il campo
dell'apparato egoico minacciato!
Lavarlo quetarlo nel cappuccino
o limonè: abboccato buono!
Sorbire lenti, il vacuo
se ne avvantaggia, la nessuna
sostanza, il nessun sostrato;
lo spiegherà tutto d'un fiato
miss psicotricot psicorammendo,
l'offre in grosse partite il mercato,
sbroglia dai soriti del tremendo. E intanto
piante e sole e primavera attaccano,
attivissime in amori acupunture
vita-mors mors-vita, varietà
di sistemi echi premi. Primavera
in cui ben sai ben sai
la privata iniziativa più che mai
inizia, è privata, sé con sé
punge, è in amore è un amore, mellita.
«Sii dunque un mellito te stesso; godi del cappuccino;
iniziativo, inìziati» così
la fräulein si vocalizza usignuolizza in inviti
(e lui Leary Burroughs e Michaux
nel fossato butta via butta giù
barbume barbume che non ci sta più;
ritto impettito egli s'accinge a be'
bumba bon-abboccato sotto il sole che
monda e inonda. Ed egli farà
anzi sarà: domani: sarà-domani il che in cui
s'industria s'appunta
s'affissa si ficca farà
carriera. Anzi lo è.)
MISS - «Né sciarade né gabbiose formule di struttura:
salite salite- scendete scendete
salatevi insalubritevi inzuccheritevi
un poco qui con me?»
----- «Garson, un cappuccino, silvuplè»

Andrea Zanzotto, Pasque

sabato 4 aprile 2009

Cornacchie



Da questo particolare posto europeo non riesco a ben vedere la linea incerta dell'orizzonte, quella linea dove chi ha fortuna, in certi giorni tersi di primavera, può arrivare a scorgere il famoso raggio verde ed esprimere così un desiderio che avrà la possibilità concreta di realizzarsi. Dunque guardo il mio orizzonte invano e di verde scorgo solo la punta degli abeti, cosicché so già in partenza che il mio desiderio non potrà essere realizzato, ma lo formulo lo stesso per sfogarmi, per illudermi, per liberarmi del vuoto pneumatico che si è creato dentro la rimanenza del mio essere che si ostina ancora a considerarsi cittadino di questa bistrattata repubblica. E dico: che Berlusconi possa andare a fanculo, lui e chi lo vota: ecco, desiderio espresso, le allodole ridono, le rondini sono in ritardo e solo il gracchiare delle antipatiche cornacchie mi conferma che ho parlato al vento.

giovedì 2 aprile 2009

La storia si muove

«Ogniqualvolta la storia si muove, ci coglie di sorpresa. E dato che lo scopo generale di qualsiasi società è la salvezza di tutti i suoi membri, essa deve anzitutto postulare la totale arbitrarietà della storia, e il valore limitato di ogni esperienza negativa che venga registrata. Secondariamente, deve postulare che, anche se tutte le sue istituzioni si sforzano di ottenere il massimo grado di sicurezza per tutti i suoi membri, questa stessa ricerca di stabilità e sicurezza in effetti trasforma la società in un facile bersaglio. E, infine, che sarebbe quindi prudente per la società in generale, e per i suoi membri individualmente, sviluppare modelli di irregolarità dinamica (da una imprevedibile politica estera ad habitat mobili e a cambiamenti di residenza) in modo da far sì che sia difficile per un nemico fisico o per un nemico metafisico prendere la mira. Se non si vuole essere un bersaglio, bisogna muoversi. "Disperdetevi" disse l'Onnipotente al Suo popolo eletto, e per un po' almeno è quanto essi fecero.»

Iosif Brodskij, Profilo di Clio, Adelphi, Milano 2003

Davanti alla casa

La casa che io a lungo frequentai
Nella mia gioventù ieri passando
Per quel rione di periferia
Rieccola. Fu là che Amore
Divampò nel mio corpo con la sua
Sublime forza.

E ieri
Ripercorrendo quella vecchia via
L'incantamento erotico mirabili
Rese le cose: bottegucce
E pietre e marciapiedi,
Davanzali, facciate, balconcini...
Di colpo ogni bruttura era sparita.

E stavo là, fissando quella porta,
Immobile, dalla casa fascinato,
Con tutto il mio esserci, raggiante
Dei trasporti dolcissimi che vissi.
[1918]

Costantinos Kavafis, Un'ombra fuggitiva di piacere, traduzione Guido Ceronetti, Adelphi, Milano 2004

mercoledì 1 aprile 2009

Samizdat 2009

Più di vent'anni fa almeno, se queste cose schifose fossero accadute, ci sarebbero stati sdegno e proteste da parte di molti governi occidentali; ci sarebbe stata attenzione, conseguenti inchieste, articoli che si sarebbero rincorsi nei quotidiani, libri pubblicati, voci di esiliati ed esilianti ascoltati da innumerevoli persone. Ma adesso questo schifo marcio di violenza, di terrore, di dispotismo, di criminalità organizzata accadono in una supposta "democrazia" capitalista, grande fornitrice di materie prime a noi assetati occidentali. E nessuno fiata. Una volta ai dissidenti riservavano sì il gulag - ma se qualcuno si salvava, se qualcuno usciva fuori, e pensava, e scriveva, poteva sperare di trovare rifugio all'estero. Lo Stato Sovietico era nemico dei dissidenti, della voce libera dei giornalisti; nemico in breve, di chi la pensava (o osava pensare) diversamente dal canone comunista. Adesso invece le vittime, oltre alla violenza subita, subiscono anche l'infamia di essere screditate da coloro che, a parole, si dicono paladini del libero pensiero, della libera stampa e si ergono a difensori della democrazia (e poi dopo organizzano processi-farsa dai quali scaturisce che non v'è alcun colpevole del crimine subito).

Pare che Berlusconi vada a trovare i suoi pari russi tra qualche giorno: quanto sarebbe opportuno ricordasse loro i principi basilari sui quali si fonda la democrazia, la libertà, lui Presidente del Popolo delle Libertà. E invece sarà grassa se questa volta, invece di un mitra, mimerà il gesto dell'ombrello.

Sonettino

*

Non c'è grazia, non c'è levità
Per sfuggire al pensiero presente
Che tiranneggia e tormenta di niente
Lo spirto sconfitto e sopito d'ansietà

E carezzami pure una guancia
Tenera ninfa che strusci marciapiedi
E sennò fa' un po' come credi
Sia meglio per te, magnifica bilancia

De' seni tuoi all'unisono subisco
Fascino e splendore e non m'incresce
Questa soave persecuzione

Ma presto, ben presto, cambio opinione
E vorace cerco aria come acqua un pesce
E del sole copro con mano il disco

*Foto di Man Ray, En pensant