giovedì 30 settembre 2010

La via di fuga

«(Mi spiego: è inutile pensare a una forma di ironia quando dico che Madame Edwarda è DIO. Ma che DIO sia una prostituta di casa chiusa e una pazza, questo non ha ragionevolmente senso. A rigore, sono contento che si rida della mia tristezza: può intendermi solo chi sia ferito al cuore da una ferita inguaribile, dalla quale nessuno ha mai voluto guarire...; e quale uomo, ferito, accetterebbe di “morire” d'altra ferita?)»

George Bataille, Madame Edwarda, da Tutti i romanzi, Bollati Boringhieri, Torino 1992 (a cura di Guido Neri).

Lucas abbandonò il suo campo di azione, ferito ma non sconfitto, con una grande pena al cuore. Rilesse i minuti della sua penosa giornata e constatò che doveva scegliere una via di fuga. E fu silenzio. Arrivò una collega per distrattamente sottolineare che lui era importante qualunque cosa fosse accaduta. «Sì, lo so, grazie; non ti preoccupare mia cara», le rispose notando come la sua sigaretta obliqua non le donasse affatto nel suo goffo tentativo di sedurlo. Nessun bacio era possibile, nessun abbraccio. Si passò la lingua sul palato per essere sicuro che gli sarebbe bastato il suo di amaro in bocca. Accartocciò allora il foglio bianco e lo gettò nel cartone della differenziata pensando che tutto sarebbe stato inutile. Che differenza intercorre tra il vivere innumerevoli vite e la cenere che purifica e concima il terreno avvelenato? Eppure scegliere era necessario, soprattutto per lui che si era sempre lasciato scegliere la vita dalle circostanze. «Non è questione di palle», pensò (le sue erano gonfie), né di carattere, aggiungiamo noi, fedeli trascrittori dei suoi pensieri. È, forse, quella sorta d'illuminazione interiore che non ha mai capito bene da dove arrivasse né dove lo portasse. Addirittura, a volte, aveva il sospetto e il timore di poter esser considerato una specie di reincarnazione di un Siddharta o di un piccolo Budda. E questo pensiero lo portava a sorridere e a farsi linguaccia nello specchio dell'ascensore che scendeva a pianterreno. Allora riprese l'auto, raggiunse il più vicino supermercato, entrò, fece la spesa, si bevve un succo di mirtillo e, con le labbra violacee, si avvicinò alla cassa e alla cassiera sorridente disse:

Nel mezzo de la mente mia risplende
Un lume de' begli occhi ond'io son vago
Che l'anima contenta.*

E la cassiera, stupita: «Oh che belli questi versi, me li regala?».
E lui: «Certo, però mi renda il resto».
La via di fuga era a portata di mano.

*Dante Alighieri, Rime dubbie, LXI, 4-6

Sognarsi servi

Fatti pure in quattro, allàrgati, notte,
quanto ti pare, io prima che sia giorno
sento la saracinesca del forno
sollevarsi, ridarmi alle interrotte


gioie cittadine. Mi scrollo, storno
numeri e altre ossessioni, studio rotte
accorte fra secche insidiose e frotte
di questuanti e cannibali, ritorno,


insomma, al vero, e - lo benedico.
Ma sì, meglio vedervi, meglio avervi,
atroci lacune, che con i nervi


mozzati e a fiato mozzo nell'intrico
dei simboli subirvi, non c'è, dico,
peggior servaggio che sognarsi servi.

Giovanni Raboni, Ogni terzo pensiero (1989-1993), da Tutte le poesie, Garzanti, Milano.

mercoledì 29 settembre 2010

«Espressione è la sostanza del mondo»





«La significazione, la manifestazione traggono il loro nome da qualcosa che sta sotto. Ma questo star sotto, se viene introdotto nel contesto discorsivo, non sta più sotto. Ciò che sta veramente sotto non si può dire sostanza, poiché a esso non spetta nessun nome, poiché appunto è nascosto e può soltanto venire espresso. ‘Sostanza’ è invece anch'esso un termine discorsivo; in quanto una rappresentazione si dice espressione di qualcosa, in tanto essa può considerarsi come sostanza.
Similmente si può supporre che Aristotele, se inteso con sottigliezza, usasse il termine ‘sostanza’ (usia), che anzitutto è una categoria, cioè un predicato, o in altre parole una rappresentazione, e inoltre svela, nomina la natura di un'immediatezza, che sta fuori del contesto rappresentativo.
Così, se per avere un senso la sostanza va ancora inclusa nella rappresentazione, il suo stare sotto dovrà essere riportato più in alto, e sarà proprio questo strumento di conservazione che chiamiamo ‘espressione’ a costituire la sostanza, in quanto allusione a qualcosa di nascosto. Il mondo quale si presenta ai nostri occhi, in generale e in ogni configurazione particolare, è dunque, come sostanza, un'espressione di qualcosa di ignoto».
Giorgio Colli, Filosofia dell'espressione, Adelphi, Milano 1969 (pag. 21)

Ultimamente, abbiate pazienza, metabloggheggio. Parlo non tanto di cose esterne del mondo ma concentro l'attenzione sul modo di fare blog e sul mio modo di intendere la cosa.

Certo, io mi appoggio ai giganti, sperando di non tradirli troppo sennò mi danno anche qualche scappellotto. Il blog è un tentativo di rappresentazione della propria sostanza. Scrivere qui è sia sinonimo di scavare (uno scavo a cielo aperto; un'archeologia del proprio io sotterrato dal mondo e la fatica di tirarlo fuori e dargli senso); sia sinonimo di incidere sulla propria pelle i tatuaggi del proprio pensiero (c'è chi si fa una farfallina su un gluteo o chi si fa un'aquila sopra il coccige, entrambi goffi tentativi di prendere il volo).
La scrittura del blog è come un bisturi che apre l'organismo del proprio io e lo espone alle ruote degli Esposti o degli Innocenti affinché qualche buonanima lo adotti.
C'è chi si presenta col cuore in mano, chi col fegato, chi col tristo sacco¹ (a quest'ultimo gruppo appartengono molti foglianti). E tutto questo perché il blogger nutre l'esigenza di non restare sempre in superficie. E il blog diventa come una stella marina. Lascio parlare Gaber nel suo monologo Dopo l'amore.

«Bisognerebbe amarla una pancia, voglio dire… dentro, invece di restare sempre in superficie. Bisognerebbe amare tutto di una persona, il fegato, lo stomaco, la coratella! Bisognerebbe esporle le cose, farle vedere. Guarda le stelle marine, sempre con lo stomaco di fuori. Poi mica discorsi eh! Mai viste far teorie sull'amore, le stelle marine. Bisognerebbe parlare di meno e andare in giro con tutto di fuori».

Lo crediate o meno, io sono a buon punto dell'esposizione, dello scavo, dell'incisione. Mi sento aggrappato a questo luogo come un tempo erano aggrappati i pittori alle impalcature (con minore pericolo, difficoltà e senso artistico, beninteso).


¹Inferno, canto XVIII, 26-27

La mia fiducia

a un'amica conosciuta

Prima che Berlusconi incassi, questo pomeriggio, la fiducia, anch'io stamattina ho incassato la mia, a scrutinio segreto. Mi sono guardato allo specchio è ho constatato che sono una persona tendenzialmente onesta, un po' erotomane ma non troppo, sufficientemente lavoratrice, ma altresì sapientemente vagabonda; interessata al mondo e alle sue vicissitudini, essa (la mia persona, intendo) ha cercato sempre di manifestare se stessa agli altri con i mezzi che gli sono stati dati in dote da quel miscuglio di geni e ambiente che la caratterizzano - per incontrarli, gli altri, i loro sguardi, i loro orecchi, i loro stomaci, i loro apparati genitali. E dunque, stamani, la mia persona si è concentrata su di sé, sui suoi pregi e sui suoi difetti; essa si è fatta la barba, ha preso il caffè, ha prodotto «un escremento perfettamente strutturato»¹, si è fatta uno shampoo e una doccia veloci, si è pettinata, e si è incamminata... no, ha preso l'automobile... e per tre o quattro chilometri ha viaggiato osservando dall'alto il lago di nebbia che ha invaso la valle e, allo stesso tempo, i primi colori dell'autunno. È con questo umore che la mia persona s'è recata nel suo privato Parlamento e ha constatato che, nonostante questi anni di berlusconismo imperante, e di un'Italia talmente serva e puttana da sentirsene esiliato, essa ha mantenuto quel minimo di rigore intellettuale che non l'hanno portata mai cedere nel campo del buon gusto, del liberalismo, della vita colta nell'attimo. Insomma, mi sono rinnovato la fiducia da solo, senza convincere nessuno; soprattutto: senza comprare nessuno. Bene, adesso posso andare alla deriva; adesso posso finalmente ridere.

¹Vladimir Nabokov, Ada o ardore, Adelphi, Milano 2000 (pag. 324. Traduzione di Margherita Crepax).

martedì 28 settembre 2010

Sorrisi & Madonne

Non è tanto a causa delle facce di Gasparri e Giovanardi (viste su Blob stasera; qui è ben riassunta la vicenda); potevano essere altresì quelle di Fioroni o di Fassino, non importa. Ma vedere l'ostensione di una statuetta della Madonna (nel caso, quella del Sorriso) ricevuta come premio per il proprio agire politico è una cosa talmente raccapricciante che se, d'improvviso, la Madonna in oggetto avesse pisciato sulle quelle mani sporche per disinfettarle mi sarei recato, seduta stante, ad Amelia in pellegrinaggio.

Pensate per voi

Oggi, a pag. 2 de Il Foglio, due foglianti autorevoli (la Mariarosa Mancuso e il Camillo Langone¹) offrono consigli spassionati agli scrittori esordienti (e non).
Non entro nel merito delle questioni sollevate da essi. Ho controllato due cose tuttavia: i miei libri e i miei cassetti. Per i primi posso dire, in tutta onestà, che qualsiasi brano sottolineato seppellisce le preghiere langoniane: perfino i passi scelti di Magris. Per i secondi, poi, ho rovistato: non ho nessun romanzo nascosto nei cassetti della casa; però ho dei calzini bucati e poi tagliati con un colpo di forbice, riempiti di lavanda essiccata e poi annodati da ambo i lati per non farla fuoriuscire, sia per profumare gli anfratti della mia abitazione, sia per impedire dolcemente l'intrusione di tarme mancusiane o langoniane.

¹«Appello agli scrittori: fate attenzione all’epigrafe! L’epigrafe è pericolosissima, è un’arma a doppio taglio e quasi sempre a tagliarsi è l’autore. Perché se in epigrafe metti un versetto del Vangelo, il tuo libro non diventa mica vangelo, mentre se metti una citazione insulsa, ridicola, gonfia ecco che il tuo libro appare subito insulso, ridicolo, gonfio, anche se non lo è. Siccome di Enrico Remmert mi erano piaciuti alcuni libri precedenti, siccome il suo nuovo romanzo prometteva di farmi riattraversare molti luoghi adriatici amati, ho aperto “Strade bianche” con curiosità e fiducia, ma purtroppo come epigrafe ho trovato una frase di Claudio Magris. Magari era un bel libro»

Arrampicarsi

Provo un sincero desiderio di arrampicarmi sulle cime ardite degli scaffali del Castaldi per ridiscenderne pronto ad affrontare l'antidoping.

lunedì 27 settembre 2010

Come fosse la lingua che parlasse

A volte è difficile inseguire, trovare e dar forma al non detto e il ripiego sul già detto diventa, allora, una necessità. In fondo i temi forti (o deboli?) della vita sono sempre gli stessi da quando l'umanità ha cominciato a torcere il pensiero verso altro genere di “problemi” che non siano stati quelli legati alla sopravvivenza o alla trita quotidianità. È stato quello il momento in cui l'umanità ha, per la prima volta, davvero iniziato a viaggiare, a migrare verso mondi dove si è illusa di trovare pace, o un altrove dove tutto fosse possibile. Ulisse è l'eroe che alberga in tutti noi, avidi di sapere, di conoscere cosa si nasconda al termine della notte. Ognuno affronta il viaggio come può, con i mezzi che ha a disposizione, con gli amici, pochi o tanti, che considerano la propria semenza.
Il blog è il mio mezzo preferito per viaggiare; è una specie d'imbarcazione esposta continuamente a venti favorevoli o a flutti avversi. Nel blog viaggio, dicevo, alla ricerca continua di dire (o far dire) qualcosa che scolpisca su queste pagine a cristalli liquidi, la mia immagine, la mia ombra, il mio niente. Ed è qui dentro questa nave che la notte diventa illuminata dalle stelle dell'altro Polo, quello dove non sono mai stato, quello che nasconde il mio sé sconosciuto agli altri ma perfino a me stesso.
Io qui vivo, con un misto di eccitazione e di ipocondria, unici viveri che impediscono alla mia anima di avere lo scorbuto. Il mondo è già chiuso nel nostro fazzoletto di terra, so bene – ed eccola la montagna, il Monte Analogo della mia irrequietudine. Sì alta pare, ma non le do certo la soddisfazione, ad essa, di gioire come uno scalmanato, dato che me l'hanno detto, me l'hanno raccontato e persino cantato che ogni gioia si trasforma in pianto.
Ecco dunque che il naufragare si fa dolce in questo mare perché si ha come la presunzione che ogni post sia avvertito dal lettore come una sorta di S.O.S. che chiunque passa da queste parti raccoglie, per sentire l'eco della mia voce e m'impedisca di parlare a vuoto.
E io so di non parlare a vuoto, ma non per presunzione, affatto: davanti a me, davanti a questo schermo c'è uno specchio dove la mia faccia riflessa ride e mormora muovendo appena le labbra: «Cazzo dici, cazzo oracoleggi?». No, dunque; la mia modesta nave da diporto non ha nemmeno la fortuna d'affondare rumorosamente tra gli applausi infin che 'l mar sia sopra me richiuso.

domenica 26 settembre 2010

Portare a spasso Snoopy



La Repubblica festeggia oggi, in anticipo, i sessantanni del debutto dei Peanuts. 

Per parte mia, in anticipo anch'io, vorrei ricordare uno dei più bei romanzi brevi della letteratura del Novecento, americana e non, scritto da Snoopy, sopra la sua cuccia.
Non ritrovando in rete l'originale, riporto (credo fedelmente) il testo scritto su tre sequenze.
  1. Tesoro mio, ricordi la nostra prima notte a Parigi?
  2. Passeggiavamo sotto la pioggia e tu ti sei bagnata tutta.
  3. Poiché avevo io l'ombrello.
Quando lessi questa vignetta avevo, più o meno, sedici anni. La ritagliai da Linus e la misi dentro il portafogli, come un santino. All'epoca andavo spesso in discoteca. L'avrò letta e ridetta a centocinquanta pulzelle. Non ne ho mai imbroccata una mediante ciò. Anzi, una biondina, una volta mi disse (testuale): «Che fava che sei». E io: «Grazie. Ma scusa, come ti chiami?». E lei: «Levatidallepalle». E io: «Accidenti che nome lungo».


La parola alla saggezza

«Tanti anni fa, quando hanno inventato la bomba atomica, la gente aveva paura che scoppiasse e facesse fuori tutti; non sapevano che l'umanità ha nelle budella tanta di quella dinamite da far saltare l'intero merdoso pianeta. Io invece lo so».[*]

John Cheever, Il prigioniero di Falconer, Garzanti, Milano 1978 (traduzione di Ettore Capriolo)

Storia diuretica d'Italia

«Quella che stiamo attraversando è una fase storica in cui il futuro dell’Italia, come quello di qualsiasi altro Paese dell’Unione europea, dipende dalle sue decisioni in materia di educazione, ricerca scientifica, riforme istituzionali, energia, infrastrutture».[*]

Non so a voi, ma a me, quando leggo gli editoriali ipermoderati di Sergio Romano, viene sonno. E sogno di vivere la Storia. E sento una sorta di inturgidimento della mia parte genitale. Il guaio è che, al risveglio, l'unica espressione urgente del mio corpo è data da una gran voglia di orinare.

sabato 25 settembre 2010

Sembiante



Da molti mesi un mesto sogno
Avevo da raccontarti
Nel quale tu mi comparivi
E io temevo di guardarti

Non con il viso tuo di quando
Già sento un grigio di tempesta
Negli occhi sommersi e spenti
Nel tuo distrarre la testa

Verso il paese senza luogo
E al punto che mai sarà
Quel punto uguale al suo contrario                        
Dove è stretta la verità

Eri in un chiuso vano e alto
Avevi un viso di dolore
Tu mi guardavi mi parlavi
Ma non udivo le parole

Benché volevo accarezzarti
Supplicarti - non far così
Mi fai piangere, assomigli
Senza il sorriso ad Arletty

Perdona la mia paura
Mio solo grande peccato -
Per quell'inezia che divide
Ciò che non è da ciò che è stato

Ma le mie mani erano aria
Non ti potevano tenere -
Del sogno restò soltanto
Un sale di lacrime vere

Con te nel chiuso vano e alto
Da me volata via -
Io nel mio letto steso e stanco
Fra l'enigma e la bugia.


Giovanni Giudici, Lume dei tuoi misteriMondadori, Milano 1984

Io, intanto, flirto con un flipper


Prima che il videomessaggio di Fini mandi in tilt tutte le connessioni, tutti i collegamenti, tutti i siti, come un flipper che va in tilt, perché per me in tilt ci vanno e ci andranno sempre e solo i flipper quelli vecchi, meccanici, anni sessanta, settanta dove mettevi cinquanta lire e se lo sbattevi troppo forte per non far andar la pallina d'acciaio in buca, ecco, andavano in tilt, vorrei dire una cosa veloce veloce, non su Fini, né su Berlusconi (il quale si sta già mettendo una mano davanti e una dietro), vorrei dire, insomma, che a me sentire Alfonso Berardinelli e Piergiorgio Bellocchio dire quello che dicono alla Nicoletta Tiliacos de Il Foglio non mi torna per nulla, ma per nulla. Ascoltiamoli un pezzo:

«Quella sinistra, secondo Bellocchio e Berardinelli, non solo non avrebbe salvato l’Italia, ma non sarebbe riuscita a salvare nemmeno se stessa: “La smania d’aggiornamento, la corsa all’adeguamento di molta cultura comunista fa un effetto grottesco. Come una donna tutta casa chiesa famiglia che a cinquant’anni improvvisamente scopre il piacere del sesso libero. Anzi, il dovere”. Lo scriveva Bellocchio nel saggio “Il recidivo”, lo stesso in cui notava che “non ha nessun senso che gli Editori Riuniti pubblichino Joseph de Maistre”, visto che “nessuno pretenderebbe dalle Edizioni Paoline la pubblicazione di Diderot o Sade”, ma sosteneva anche che “la borghesia non è mai stata tanto peggiore come da quando flirta con le idee di sinistra”. Era il secondo numero di Diario, quello che si apriva con “La Repubblica: un club esclusivo, ma di massa”, dove Berardinelli identificava nel giornale fondato da Scalfari il prototipo di una tendenza culturale trionfante, bisognosa di un pubblico “che teme ossessivamente la vergogna dell’esclusione e del declassamento”. Di Repubblica, Berardinelli criti cava “il ruolo edificante, consolatorio e pastorale”, e la promozione di un grottesco “snobismo di massa”. E se Bellocchio continua a pensare che “alla base della rovina della sinistra italiana c’è la Repubblica”, Berardinelli aggiunge: “La sinistra che avevamo sotto gli occhi era ipocrita. La sua élite e parte del suo elettorato non erano più di sinistra, ma andavano a caccia di privilegi e di sublimazioni. Penso a Occhetto che alla domanda su quali libri leggesse, rispondeva: soprattutto libri Adelphi”». 


Mi sembra di sentire, così a colpo d'occhio, come un discorso risentito che accusa di risentimento una certa parte della cosiddetta sinistra, o della borghesia che guarda con acume alla sinistra, al laicismo. Ma cosa diamine (non ho detto cazzo) vorranno, ce lo spieghino per benino, io non difendo certo per partito preso la Repubblica, Eco, Adelphi e certi meccanismi culturali, ma che ridiamine (non ho ridetto cazzo) perché non mettono le dita negli occhi a chi lo mette davvero nel culo (non ho detto didietro) agli italiani e non a queste quisquilie e al loro Diario e al loro "ma come noi siamo stati davvero bravi e lungimiranti, guardatemi bene, io che dico che Orwell è uno dei massimi intellettuali e scrittori del Novecento e che ora mi trovo a scrivere editoriali per uno che se Orwell vedesse m'infilerebbe lui le dita negli occhi".

«La borghesia non è mai stata tanto peggiore come da quando flirta con la sinistra», già. Ma loro, i Bellocchio e i Berardinelli preferiscono che siano stuprati e la sinistra e il popolo così si ergono a paladini, a difensori del dopo stupro. Ma possibile che non abbiano loro imparato, loro, che ce l'hanno detto e ridetto a noi che gli abbiamo creduto, seguendo di fatto la lezione pasoliniana, che l'italiano «è il popolo più analfabeta [con] la borghesia più ignorante d'Europa?». E per una volta che una piccola parte di borghesia si è fatta consistente, ma non maggioritaria, loro si piangono addosso e rimpiangono il peggio del peggio come se già il peggio del peggio di fatto non trionfasse. E spezzatelo voi allora questo blocco sociale clerico-fascista se ci riuscite! Perché se non avete ricette (o ricotte) certe e diverse allora non fate altro che sperare che tutto rimanga immutato, affinché voi possiate mostrare le vostre anime belle e lungimiranti che scrivono in pantofole sui giornali dei padroni.

The Visitor


Secondo voi il visitatore¹ cosa metterà al centro dell'obiettivo?


¹Pare sia un giornalista.

venerdì 24 settembre 2010

Motteggiare

La versione "calcistica" del mottetto XVII resa con maestria da Giulio Mozzi (qui, nei commenti) m'induce a riportare anche il mottetto XIII di sapore veneziano (sangue veneto, appunto); mottetto, questo, che sempre volentieri ho cantato con ritmo blues. 


La gondola che scivola in un forte
bagliore di catrame e di papaveri,
la subdola canzone che s'alzava
da masse di cordame, l'alte porte
rinchiuse su di te e risa di maschere
che fuggivano a frotte —



una sera tra mille e la mia notte
è più profonda! S'agita laggiù
uno smorto groviglio che m'avviva
a stratti e mi fa eguale a quell'assorto
pescatore d'anguille dalla riva.


Eugenio Montale, Le occasioni



Noticina a margine.
La perfezione del commento a Le occasioni di Dante Isella (edizione Einaudi, Torino 1996) fa apprezzare fino all'ultimo punto i versi di Montale. Quando il lavoro filologico si fa cristallino, fornisce, smontando rimontando i componimenti, nuove chiavi di lettura; fa percepire le note interne, le rime che si rincorrono, le assonanze, le allitterazioni, i richiami, amplificando il senso e il significato dell'intera opera poetica. Solo per dire: le due sdrucciole iniziali ci portano in acqua con loro e il settenario si chiude con un magnifico enjambement che ci tuffa nel nero e nel rosso, sdrucciolo anch'esso, dei papaveri. E il bagliore rimato con il pescatore finale! Tout se tient.

giovedì 23 settembre 2010

Un cielo di lavagna





La rana, prima a ritentar la corda
dallo stagno che affossa
giunchi e nubi, stormire dei carrubi
conserti dove spenge le sue fiaccole
un sole senza caldo, tardo ai fiori
ronzìo di coleotteri che suggono
ancora linfe, ultimi suoni, avara
vita della campagna. Con un soffio
l'ora s'estingue: un cielo di lavagna
si prepara a un irrompere di scarni
cavalli, alle scintille degli zoccoli.

Eugenio Montale, Mottetti, XVII



Questa sera, complice la luna, mi sono lanciato: ho avuto fiducia in una stella che al suo fianco (sinistro) brillava del medesimo lucore e aspettava che qualcosa le dicessi, che ne so, un pezzo di vita trascorsa, una riflessione, uno stato d'animo, un riassunto della mia insicurezza. E allora ho scritto, veloce, girandomi di spalle alla stella, con un gesso che ancora avevo in tasca, nella parte ove il cielo sembrava una lavagna. Lo strano è stato che, mentre scrivevo una parola, la precedente veniva gradualmente cancellata, assorbita dall'oscurità. Sensazione frustante ma, al contempo, rivelativa: ogni parola scritta sospendeva la notte, acquistava una sua luce propria, si riempiva del suo significato. Ogni parola diceva tutto quello che poteva dire senza nascondere nulla, senza tenere niente di segreto, senza prestarsi ad ambiguità.


Scrivere su un blog è un affare simile, è scrittura assorbita dal buco nero della rete. E i post sono come quelle parole scritte nella lavagna del cielo: dicono tutto quello che avevano da dire e poi, applausi o meno, cala il sipario della notte.

Camminare di primo mattino

Com'è bello la mattina svegliarsi con il mal di testa! Sai che il letto, anche se consumato più a lungo, non porterà beneficio e ti alzi e vai incontro alla guazza diffusa nel prato, portando, svogliato, la cagna a passeggio legata (è in calore), a subire lo schiaffo del freddo mattino, il taglio dei primi raggi orientali (non ho gli occhiali), le frasche grondanti di acacia che rigano faccia e capelli; e mentre la cagna annusa i vari marcamenti del territorio, anche tu, beato, cominci a marcarlo, orinando, per ritornare alla terra, all'assorbimento, a quella di specie di nulla in cui trasformi te stesso in qualcosa d'inerte e non sai se quello sei è qualcosa che fugge o che resta nella bolgia dei fatti.

«Preferisco sempre orinare in mezzo alla natura che non in questi impianti moderni, così disgustosi. Qui, per pochi attimi, lo zampillo dorato mi unisce prodigiosamente all'humus, all'erba e alla terra. Perché, caro Flajšman, è dalla polvere che sono nato e alla polvere adesso almeno parzialmente faccio ritorno. Orinare nella natura è una cerimonia religiosa con la quale promettiamo alla terra che un giorno o l'altro ritorneremo a lei tutti interi».

Milan Kundera, Amori ridicoli, Adelphi, Milano 1988, pag. 111-2 (ed. originale 1968, traduzione Andrea Barbato)

P.S.
Ieri sera, tra le 21,30 e le 23 la pagina di Google e del blog (e di vari blog che seguo) non si aprivano. Tutti riportavano questo errore: Errore 105 (net::ERR_NAME_NOT_RESOLVED): Impossibile trovare il server. E se era impossibile trovare Google figuriamoci me stesso.

martedì 21 settembre 2010

Ciao un cazzo

Quando muore qualche personaggio famoso è ormai diventato uso invalso, per certuni, scrivere: «Ciao Tizio (se maschio); ciao Caia (se femmina); ciao Tiresia (se trans)». Ho (ri)fatto caso a questa cosa stasera, in finale puntata di Blob, dedicato (giustamente) alla morte di Sandra Mondaini. Mentre veniva trasmesso uno sketch degli anni '60 con Raimondo e Sandra giovani che duettavano su un retroscena da avanspettacolo (ove, dipoi, Sandra imitava, nel balletto canzone da da umpa, le gemelle Kessler), in altro a sinistra compariva, appunto, la scritta «Ciao Sandra».

Perché questo “ciao”? Come intenderlo? Come una sorta di “arrivederci” (che dei due saluti mi pare anche più indicato, per rispetto insomma: questo dare del “tu” ad ogni piè sospinto mi pare un'altra bruttura)? Voglio dire: se uno muore perché dirgli “ciao” (o “arrivederci”)? Perché si è sicuri di rivederlo? Di reincontrarlo? Ovvero: si dà per scontata la possibilità di rivedersi nell'aldilà? O ancora: si è certi che questo aldilà, ove i morti sarebbero diretti, esista? E se anche fosse, ché nell'aldilà ci sarà ancora, nel caso di Sandra Mondaini, la televisione per rivederla? Il punto è che, sono convinto, questo “ciao” vien detto anche da chi si dichiara scettico nei confronti dell'esistenza post-mortem. Ma perché non viene più usato il saluto addio? Soprattutto per i credenti, secondo i quali dire addio equivale a formulare un vero e proprio augurio; ma, altresì, per gli atei, i quali, sostenendo che dio non esiste, userebbero propriamente il termine “addio”, nel senso che saluterebbero il morto con un franco al niente, al nulla eterno ove siamo (tutti) destinati.
Insomma, per farla breve; a mio avviso questo “ciao” è davvero fuori luogo se accostato al nome di qualcuno/a che muore; quasi quanto gli applausi ai funerali.

P.S.
A proposito di morte segnalo questo post molto piacevole.

lunedì 20 settembre 2010

Ai critici (letterari e non)

«Sono un critico di jazz abbastanza sensibile per capire i miei limiti, e mi rendo conto che quello che sto pensando rimane al di sotto del piano su cui il povero Johnny cerca di procedere, con le sue frasi tronche, i suoi sospiri, le sue ire improvvise e i suoi pianti. Gli importa un fico secco a lui che io lo creda geniale, e non si è mai vantato del fatto che la sua musica si trovi molto più avanti di quella che suonano i suoi compagni. Penso malinconicamente che lui si trova all'inizio del suo sax, mentre io vivo costretto a contentarmi della fine. Lui è la bocca e io l'orecchio, per non dire che lui è la bocca e io... Ogni critico, ahimè, è la triste fine di qualcosa che è iniziato come sapore, come delizia di mordere e di masticare. E la bocca si muove un'altra volta, golosamente la gran lingua di Johnny raccoglie uno sgocciolio di saliva sulle labbra. Le mani tracciano un disegno nell'aria».


Julio Cortázar, Il persecutore, dal libro Le armi segrete, (traduzione di Cesco Vian) tratto da J. Cortázar, Racconti, Einaudi-Gallimard, Torino 1994.

Lapi Elkann si nasce


Ho un difetto: a me son sempre piaciute e piacciono le automobili.
Quando avevo dodici, tredici anni collezionavo Quattroruote, conoscevo a menadito marche e modelli, stilavo tabelle e graduatorie delle mie autovetture preferite.
So che esse, per chi le compra e le usa, sono quanto di più antieconomico esista. Ma questa coscienza non mi ha impedito di sacrificare consistente parte del mio modesto reddito, come un coglione.
Ciò premesso, nonostante siano anni che non compro più riviste specializzate, ogni tanto mi soffermo a contemplare le novità di mercato sugli inserti dei principali quotidiani. Oggi mi è capitato fra le mani il Corriere motori. Chiaramente sfoglio veloce e guardo le figure. Ma, come sempre, alcune cose – che in questo momento vorrei condividere – mi saltano agli occhi. Due in particolare: come si fa a diventare giornalisti specializzati di tali inserti, i quali provano nuovi modelli a iosa e di ogni veicolo tessono lodi sperticate – e magari hanno vantaggiosi sconti per l'acquisto? Mistero.
Seconda cosa: come si fa a diventare amministratore delegato territoriale, non dico della Fiat, ma di una qualsiasi marca estera che opera nel mercato italiano? Cioè, io quando leggo e vedo la foto di questi protagonisti dell'establishment economico italiano, mi piglia un so che, non dico invidia, ma veloce considerazione su quale tipo di vita avrei dovuto condurre per essere uno di loro, bellini, quasi tutti in giacca e cravatta, pressoché miei coetanei. Sentite qua:

«Ogni nuova Mini è una vera Mini. La Countryman lo è. Anche se con molte ipotesi nuove».
Cypselus von Frankenberg, responsabile comunicazione Mini.

«Non aveva senso mutare uno stile che ci ha fatto vendere 60mila Swift in 4 anni».
Massimo Nalli, direttore generale Suzuki Italia.

«[la nuova CL] è una coupé affascinante e autorevole. Prestazioni, sicurezza e stile al massimo livello».
Vittorio Braguglia, direttore generale Mercedes-Benz Italia.

«Il nuovo stile ha migliorato anche l'aerodinamica del 5%: il cx, ora, è sotto lo 0,30».
Massimo Nordio, direttore Volkswagen Italia.

«Devo ringraziare le circostanze favorevoli che mi hanno consentito di contrastare la crisi con due prodotti nuovi di zecca come Fiesta e Ka».
Gaetano Thorel, presidente e ad di Ford Italia.

«Le novità, specie oggi, sono preziose se attraggono il consumatore e se i prezzi completano l'effetto-seduzione».
Roberto Matteucci, ad di Gm Italia.

«Quanto più il mercato è aspro e difficile, tanto più si rendono necessari nuovi prodotti e in termini di investimento, sostenere un prodotto stanco è molto oneroso. Quando la torta del mercato si restringe diventa indispensabile la spinta esercitata da una novità in grado di attirare la clientela nelle concessionarie».
Massimo Gargano, ad di Toyota Italia.

Questa è l'economia di mercato, bruttezza. Non ditemi che non lo sapevate. È matematico. Occupare simili posizioni di rilievo non avviene attraverso chissà quali meccanismi meritocratici, o particolari titoli di studio (almeno immagino, perché se alla Bocconi insegnano a pensare e parlare come questi signori qui sopra stiamo freschi). Secondo me questi sono posti che si occupano solo o perché si hanno peculiari entrature, o perché si ha, soprattutto, una dote specifica: quella di saper prendere per il culo il prossimo.
Io sono di uno di quelli (che si è lasciato prendere per il culo). Uno che ha dato fiato e forza a tale meccanismo di mercato spendendo più del dovuto, entrando nel vortice e non riuscendo a tirarsene fuori. Io ho creduto, invano, che possedere un'auto dei miei (privati) sogni portasse la felicità. E invece ha portato le rate. E il bollo. E l'assicurazione. E il carburante. E gli pneumatici. E la manutenzione. E l'usura. E gli imprevisti. Detto questo, a me l'auto piace ancora e non potrei proprio farne a meno. Ma vorrei tanto fare a meno degli Elkann de noantri. 

Uno scorreggiare pallido. E assorto.

Della vicenda degli zingari deportati non ho letto molto, dunque non dico nulla. Ho letto però l'editoriale di Ferrara per Il Foglio dei Fogli...

«Si può abortire un bambino al mattino e piangere sul destino degli zingari la sera? Si può assistere moralmente sordi a un sacrificio umano di quelle proporzioni, milioni di aborti che inseguono altri milioni di aborti, e bonificare la propria anima con la sollecitudine per i nomadi?»

e qui devo dire: che cazzo c'entrano gli aborti (milioni! Ché li conta?) con la “gentile” e “volontaria” deportazione dei Rom?
Possibile che Ferrara, insieme a pochi altri fanatici, continui a non capire che il “dramma” dell'aborto, nelle moderne società liberaldemocratiche è un fatto puramente individuale che riguarda in primis la donna e (eventualmente) il suo compagno o, al massimo, la famiglia se la donna è minorenne? No, non capisce, concedo. E allora proviamo ad aiutarlo.
Ammettiamo per un attimo (e per assurdo) che i governi di tutta Europa comincino a ripensare radicalmente le leggi sull'aborto in senso restrittivo; insomma, immaginiamo che, da un momento all'altro, in Europa e negli Usa l'aborto ritorni a esser fuori legge e che venga perseguito col massimo rigore ogni tentativo di aborto clandestino. I milioni nascono. Bene, quali altri argomenti Ferrara troverà per difendere la politica di merda dei suoi prediletti referenti politici?

Ferrara mescola argomenti e temi diversi per creare una sorta di sconcerto e di deviazione semantica. La sua è una retorica che cerca di correggere il politicamente corretto con la supposta pretesa di aver dalla sua argomenti moralmente inoppugnabili. Non è così e non ha capito che mescolare le questioni a questo modo è come fare scalpore ad un party mollando un sonoro scorreggione, perdipiù puzzolente. E sperare che tutti dicano: oh ma come è intelligente, ma come è forbito, ma come ha ragione!

«Solitudine è l'uomo al quadrato»

A URANIA

Tutto ha un limite, compresa la tristezza.
S'impiglia lo sguardo alla finestra, come alla palizzata
la foglia. Puoi versare acqua, scuotere chiavi.
Solitudine è l'uomo al quadrato. Il dromedario
così fiuta, ingobbendosi, il binario.
Si scosta il vuoto, come una portiera.
E cos'è poi lo spazio, in generale, io
dico? Assenza di corpo in ogni punto.
Per questo Urania è più vecchia di Clio.
Di giorno, e al lume di lumini ciechi,
vedi che non nasconde nulla: cerchi
di guardare il globo, e guardi una nuca.
Eccoli, i boschi pieni di mirtillo,
fiumi dove si pesca a mano lo storione,
una città che non ti annovera più
nell'elenco del telefono. E a sud
anzi a sud-ovest, ecco montagne brune,
e vagano nel càrice* cavalli, prževali,
si fanno gialli i visi. Poi, più in là, corvette
navigano e si fa azzurro lo spazio,
come una biancheria con i merletti.

Iosif Brodskij, Poesie, Adelphi, Milano 1986 (traduzione di Giovanni Buttafava)

*Noticina a margine.
Io non conosco il russo e non conoscevo la parola càrice.
Ho cercato su google e non ho trovato dizionari disponibili a definire il termine.
Solo ho trovato che tal parola viene usata in Anna Karenina ove mi pare indicare un luogo palustre. E in tal brano il traduttore la rende come termine femminile: la càrice. Vedasi qui al cap. X.

domenica 19 settembre 2010

Il Fuoco sacro. Cap.1(I)

1. Verità religiosa e menzogna spirituale... ?

Spirituale e religioso non sono sinonimi. Questi due campi della realtà possono combaciare. Essi non si sovrappongono. Si eviteranno, si spera, delle inutili polemiche invitando a non confondere questi due termini cugini, che sono dei falsi fratelli.
L'esperienza spirituale concerne il soggetto e la sua vita interiore; quel che richiama le «operazioni di Dio nell'anima». Brutalmente, le migliori tracce di vita spirituale non sono mai in prima persona: Giovanni della Croce, Teresa d'Avila, Pascal – in forma di diario, note o confessioni? L'esperienza religiosa è rivolta verso il collettivo; essa estroverte l'intimità e offre la possibilità di vedere l'invisibile raccordando le vette ispirate alla pianura, e il più eletto al più triviale. Il primo coltiva l'unione dell'anima a Dio (oggetto delle teologie dette «mistiche», e per i preparativi a quest'unione, «ascetiche»); mentre il secondo, l'unione dell'individuo coi suoi simili, costellando il suo ambiente di templi, calvari, moschee o sinagoghe, fornendo una scuola per i suoi figli, e una tomba per i suoi genitori. Assumendo fino in fondo «l'incronizzazione» [inchronisation] dell'Eterno, il lavoro religioso assume la carne del mondo per farne lievitare la pasta. Egli aggiunge alla fusione dei cuori la disposizione dei giorni, rinforzando la coesione del gruppo mediante ogni sorta di pratica devozionale, ognuno ritrova ciascuno. Lo spirituale strappa dalla quotidianità; il religioso la occupa. Quest'ultimo, infatti, non fa che organizzare le processioni, ridistribuire le decime e amministrare i sacramenti. Il religioso comanda e obbedisce, esplora continenti (come Cirillo e Metodio in Europa, Francesco Saverio in India, Las Casas in America), costruire palazzi e organigrammi. Gli capita persino di fare la guerra (6500 preti francesi morti nel 1914-18). all'inizio dello scorso secolo, i fumatori d'oppio dagli occhi a mandorla, fantasticando sulle loro stuoie, ebbero la tentazione dell'Occidente, quella dell'azione. I giochi si ribaltarono. Ecco l'Asia all'inizio dell'opera, mentre l'Europa ha adesso la tentazione dell'Oriente. Stanca di fare, vuole essere. A ognuno il suo turno.
Fin dal 1920, in Quai d'Orsay [sede del ministero degli esteri francese] esiste (su decisione di un uomo del progresso, Aristide Briand) un consigliere agli affari religiosi, direttamente dipendente del ministro. Esiste anche, in seno alla Direzione generale dell'amministrazione del ministero dell'Interno, della Sicurezza interna e delle Libertà locali, un Ufficio centrale dei culti (incastonato nel Servizio degli affari politici e della vita associativa). Questi due uffici non hanno il posto che meritano, soprattutto in regime di laicità, ma essi rispondono a un bisogno elementare di ordine pubblico. Non si conosce ancora in Europa un «Ufficio centrale degli affari spirituali». Se ci fosse o farebbe ridere o sarebbe da prendere come un segnale d'allarme (il ministero dei Vizi e delle Virtù è afgano). Esiste un atlante, una carta elettorale, una sociologia delle religioni, non delle spiritualità. E ciò con cognizione di causa, dacché non può esserci religione senza un particolare marcamento dello spazio, senza chiese o chierici inscritti in un territorio, né senza una certa organizzazione del tempo, regolata da un calendario degli obblighi di fede e delle feste religiose. Attenti però, una religione non è un'opinione, un religioso non è un opinion maker. Il religioso è un uomo d'azione che ne suscita altri. Egli fabbrica mappe, riempie l'agenda, taglia le barbe, sorveglia la cucina, ripara i tetti e fonda delle scuole, in breve: fissa i punti cardinali senza i quali, per le anime in pena, tutto sarebbe deserto o foresta impenetrabile: itinerari di pellegrinaggio, santuari, riposi e digiuni, ritiri e ritrovamenti. Lo spirituale si prepara alla morte, il religioso prepara le esequie. Alle meditazioni solitarie dell'uno replica la cura che l'altro prende per la liturgia – etimologicamente, il servizio del popolo. Ci sono delle religioni senza ortodossia, ma non religioni senza ortoprassi – regolazione dei comportamenti con cui lo spirituale può svolgersi. Si riconosce lo spirituale dal fatto che esso rifiuta le definizioni (a cominciare da quella di spirituale), le smancerie, gli abiti ricamati, i passaporti e il diritto canonico. Esso scavalca ogni frontiera. L'esperienza vissuta d'unione con il divino attraversa le culture del mondo. Così, gli spirituali di ogni confessione possono ritrovarsi, a Fès o altrove, di preferenza con la musica sottofondo come lingua universale di ogni tempo. I religiosi, invece, non abitano la stessa latitudine. Malgrado essi non ne abbiano, sono prigionieri di una memoria e di una sola, questi questi condottieri di uomini si votano dapprima ai loro dogmi, ai loro vessilli e ai loro fedeli.

Régis Débray, Le Feu sacré, Fayard, Paris 2003 (pag. 27-29 trad. mia)


Traditori dello Stato

«Un politico cattolico è traditore dello Stato in potenza, sempre; e lo è in atto quando Stato e Chiesa entrano in attrito. “Noi abbiamo due appartenenze – spiegava un politico cattolico, non molto tempo fa – una alla Chiesa, l’altra alla politica. Per me, per tutti noi cattolici, insomma, il vero capo è lui: il papa. Per noi è il vicario di Dio in terra” (Pierluigi Castagnetti – Corriere della Sera, 25.3.2009)».

Adro, il sindaco: «Rimuovo i simboli soltanto se me lo chiede Bossi».

Se gli atti e le parole del sindaco leghista di Adro hanno indignato e indignano (credo) la maggioranza dei cittadini italiani (tanto che il ministro Gelmini si è vista costretta a intervenire), allo stesso modo parole come quelle dell'onorevole Castagnetti (preso ad esempio, ma non è l'unico a parlare e pensare così) dovrebbero suscitare indignazione, denuncia, rifiuto. Dite che esagero? Dite che i due casi non possono essere posti sullo stesso piano? 
A discapito del sindaco leghista va il fatto che quella della Lega è una religione relativamente giovane, una religione in nuce che ancora non ha alle spalle secoli di tradizione (ma già un ventennio di concimazione territoriale ha dato i suoi frutti... avvelenati). Ma le procedure di formazione, consenso e assembramento leghisti sono pressoché simili a quelle avute dal cattolicesimo per diventare tradizione in Italia e in Europa. Se il leghismo durasse nel tempo con la stessa forza ed efficacia del cattolicesimo vi accorgerete, cari posteri, quanti bei simbolini verdi vi troverete nelle scuole e negli edifici pubblici del nord. Il Crocifisso e il Sole delle Alpi hanno, per chi li difende nei luoghi pubblici, lo stesso valore, solo che il primo ha dalla sua il fatto che è un simbolo religioso consolidato di una nazione.
E ancora: come sembra scandaloso che il sindaco dichiari che i simboli li rimuoverà solo se glielo dirà il Bossi, perché non sembra altrettanto scandaloso che un politico di una Repubblica (sulla carta) laica dichiari che, su certe questioni politiche si rimette al magistero della Chiesa?
Così come i leghisti si sono impossessati di un Sole che è di tutti, che è lì ma anche altrove e splende sui buoni e sui cattivi, sui rintronati e sugli invasati, allo stesso modo i cattolici si sono impadroniti di un sole di carne, che un paio di millenni fa fu messo in croce, perché predicava cose rivoluzionarie ai suoi fratelli, ebrei e non. E quello che più mi scandalizza è che un particolare capo di stato quale il Papa non abbia capito, nella sua profonda e fine teologia, che per essere veri vicari di Cristo occorrerebbe rifiutarsi di esserlo, dichiararne l'impossibilità, rinunciare per sempre a che qualcuno ne abbia la pretesa, giacché Cristo (per Cristo ed in Cristo) non si sentirebbe affatto rappresentato da qualsivoglia autorità religiosa.

Stesso discorso, si badi, vale per tutte le religioni, anche per l'Islam. Più lo Stato cede spazio pubblico al religioso, più il religioso interferisce con i principi dello Stato (moderno, democratico) avanzando assurde pretese di legittimità, di tradizione, di libertà come spazio da conquistare a scapito di altri valori, di altre confessioni politiche o religiose.

Se sbaglio, voi mi corriggerete.