giovedì 20 marzo 2014

Un rifugio come un altro

Periodo in cui dovrei riuscire. 
Donde uscisti?
Più rientrare, se è per quello.
Non ami lo star fuori?
Sono fuori, di me.
Il tuo te non lo possiedi?
Si possiede di sé solo parvenza, più che altro le ombre.
Eppure ci sono sicuri di sé che muovono bocca e mani all'unisono e che parlano avendo chiaro quello che intendono dire.
È quella chiarezza che mi preoccupa.
A chi ti riferisci.
È un discorso pubblico.
Tu stai male?
Dipende dal male, ma ora bene bene non sto, fo come l'oracolo di Delfi: non dico né nascondo: accenno.
E chi si prenderà la briga di decifrarti.
Non posso preoccuparmi né augurarmi la decifrazione, io dispiego una parte d'essere che non può dire più di tanto perché si è sempre attenuta a questa semplice regola: parlare, occuparmi di cose che mi piace vivere e pensare, non di cose cui sono costretto a vivere (e pensare). 
Deviazioni inopportune, perché la necessità ripresenta sempre il conto.
E io non pago.
E non sei pago.
Sono spompo, con ambizioni da psicopompo.
Chi vorresti traghettare e dove?
Dove è nell'aldiqua, chi è me, un'anima a salve.
Raddrizzati l'anima storta
Dovrei riscaldarla, come si fa col ferro battuto sull'incudine.
Villa Martelli. Oggi ho visto sfilare una schiera di preti con abito talare lungo lungo e nero nero, con una sfilza di bottoni, il collarino bianco, il cappello nero a larga falda, perlopiù giovani, percorrere il marciapiede che porta alla stazione, saranno stati una cinquantina, forse più, in fila per tre, col resto di che cazzo ne so, non li ho contati di preciso.
Cosa c'entra.
Loro hanno l'anima e la schiena dritta, e lo sguardo curvo, aldiqua della siepe.
Appunto. Io aldilà - è una speranza. E poi, le schiere: mi intimoriscono, mi portano istintivamente a toccarmi le palle, unica notazione positiva.
Un rifugio come un altro.
Dal quale non fuggire.


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