martedì 11 novembre 2014

Coincidentia oppositorum

«Seimila ulivi (parecchi dei quali centenari) sono davvero tanti. Sono un popolo. Tirarli giù con le ruspe per costruire una centrale elettrica (è accaduto in Turchia) fa probabilmente parte dei famosi “costi del progresso”. Che sono da mettere in conto, anche se nessuno è mai riuscito a spiegarci bene, quel conto, chi lo deve pagare. Non quantificabile, però, è la sensazione di lutto che ogni perdita di natura ci infligge. E non perché la natura sia “sacra” — spesso è crudele e capricciosa peggio delle compagnie che costruiscono centrali elettriche. Ma perché “sacro” è il tempo che è occorso alla vita per nascere e crescere, e azzerare ulivi è come azzerare secoli, e le generazioni che li hanno curati.
Il problema del “progresso” è che il suo bilancio è frettoloso. Legge nell’immediato le cifre dei suoi profitti, ma domani? L’impressione è che il progresso, per dirsi tale e per poterlo fare con una certa sicumera, debba ridurre il tempo a una variabile ininfluente. Gli oltraggi all’ambiente non si spiegherebbero altrimenti: oggi mettiamo in tasca quattrini, domani qualcun altro pagherà i danni, non è affar nostro. Oggi spianiamo seimila ulivi per avere energia; domani l’energia ci servirà, magari, per cercare disperatamente di resuscitare ulivi.» Michele Serra, L'Amaca, la Repubblica 9 novembre 2014


«“Stop invasione” è giusto, anzi sacrosanto. Ma stop a tutte le invasioni, anche a quelle botaniche. Invece gli italiani di ogni tendenza politica nutrono una crescente avversione per l’autoctonia arborea, segno di una più generale masochistica avversione per la propria eredità. In Toscana i compilatori del Piano territoriale regionale osteggiano addirittura il cipresso, sempreverde caro agli Etruschi prima che al Carducci. Mentre in Valpadana i privati, ebbri di infedeltà, disprezzano le essenze padane. A Canneto sull’Oglio, il paese dei vivai, mi dicono che gli aceri campestri non li vuole più nessuno: tutti comprano aceri giapponesi, canadesi, cinesi… Qualunque albero insomma, purché esotico, colorato, costoso e decadente. Tolkien diceva che “le radici profonde non gelano”. Ma se le radici le strappi, e al loro posto pianti le radici degli altri, farà fatica la tua cultura a superare l’inverno. Che a Canneto riprendano a vendere farnie, frassini, noccioli e cornioli: sarebbe un miracolo e sarebbe il segnale che gli italiani, razza di apostati, sono tornati a credere nell’Italia.» Camillo Langone, Il Foglio 11 novembre 2014


Come sono teneri, sensibili, appassionati difensori di quel che caro la natura offre (gli alberi) al loro sguardo di agiati benpensanti che palpitano per le sorti dell'umanità. 
Seppure da sponde diverse, una progressista e l'altra conservatrice, entrambi i corsivisti in oggetto segnalano come l'agire umano distorce il naturale corso delle cose, come vie più l'uomo sbarba le radici non solo degli alberi, ma le proprie, vuoi per una inspiegabile sete di profitto, vuoi per rompere del tutto i legami con la propria cultura d'origine e perdersi nel mare della globalizzazione. Ciccirillini, muà. Venite qui che vi diamo un bacino sulla fronte corrucciata, intellettuali che dai vostri altarini laici diffondete sermoni adatti a lavare le coscienze e muovere l'indignazione della mediocre borghesia italiana che gozzoviglia tra il Salone del Gusto di Torino e il Festivaletteratura di Mantova. 
Ma brutti che siete, brutti dentro, cariatidi che vi guardate bene dallo sputare, anche solo per una volta, nel piatto in cui mangiate - dentro il quale, se foste osservatori acuti, notereste la cenere degli ulivi e dei cipressi che tanto amate. Forse dopo vi verrebbe anche la voglia di chiedervi chi veramente brucia, spiana, omologa.

1 commento:

Olympe de Gouges ha detto...

la colpa è sempre delle ruspe, dei cementificatori, del senso sbagliato di progresso, e via elencando. mai nome e cognome di un sistema economico, sarebbe demodè, politicamente scorretto, roba arcaica. al prossimo lacrimoso corsivo, va.