sabato 31 dicembre 2016

Un'inezia della mente

Pantomima terrestre

…auprès de margelles dont on a soustrait

les puits.
René Char

Ma senti – dice – che meraviglia quel cip sulle piante
di ramo in ramo come se il poker continuasse all’aperto:
dimmi se non è stupenda la vita.
Chiaro che cerca di prendermi per il mio verso.
Vorrei rispondergli con un’inezia della mente
un’altra delle mie tra le tante
(gente screziata di luna, per porticati
e uno attorno tra loro, dall’uno all’altro:
assaggiate questa fresca delizia).
Certo, – rispondo invece – è stupenda. Vuoi testimoni?
Prove per assurdo? Controprove?
Eccoti di giorno in giorno la mia acredine
la mia insofferenza di gente in gente
(ma queste brezze tra le secche e le rapide
tra i diluvi e le requie dell’essere questi balsami…)
Pare bastargli: ma dunque (benedicente, bonario)
ma allora, coraggio!
_____________Per giravolte di scale
va su col suo coraggio.
_______________Parli – gli grido dietro –
come un credente di non importa che fede.
E lui per rami di scale, mezza faccia già disfatta
mezza in ombra, canzonandomi con parole d’autore: ¿le gusta
este jardin que es suyo? Evite…

dal basso gli completo la frase: que sus hijos lo destruyan
rifacendogli il verso.
Ma se è già guasto, con queste stesse mani:
e tu chi sei tu così avanti sulla scala del giudizio
e del valore, dillo ai tuoi discepoli e seguaci
ai tuoi consoci, vengano a questi bicchieri
di delizia a questi apparati di fresco
ma in comunione ma tutti ma in una volta sola.
È rimasta una chiazza una pozza di luce
non convinta di sé un pozzo di lavoro con attorno
un girotondo di prigionieri (dicono) sulla parola:
sanno di un bagliore che verrà
con dentro, a catena, tutti i colori della vita
– e sarà insostenibile.
Sembra allora di capirlo a che si ostinano
dove puntano che cosa vogliono o non vogliono
che cosa negano che scappatoie infilano
i motori nella giostra serale
con quelli che fingono a ogni giro di andare via per sempre
con quelli che fingono a ogni giro di arrivare
dentro un paese nuovo per cominciare ex novo
– e i primi lampi
___________lo scroscio sulle foglie
                                                         l’insensatezza estiva.

Vittorio Sereni, Gli strumenti umani, Einaudi, Torino 1975

Innanzitutto segnalo questa notevole lettura della poesia.
E poi, se qualcuno chiedesse «se non è stupenda la vita» spero di aver la prontezza di «rispondergli con un'inezia della mente / un'altra delle mie tra le tante».
Buon anno.

venerdì 30 dicembre 2016

Il messo (15)

«Quante cazzate», pensò Lorena, a voce un po’ troppo alta. 
Quarantotto anni, ma chi c'avrebbe creduto se, con malcelato orgoglio, non l'avesse detto, Lorena aveva una grazia naturale e una sensualità che neanche un pigiama irge con l'elastico rotto sarebbe riuscito a nascondere. Lunghi capelli rossi e ricci nei quali soltanto a un'attenta analisi potevi intravvedere qualche filo argentato; un fisico estremamente tonico ma, al contempo, armonioso, che raggiungeva la sua sintesi perfetta nel fondoschiena; unico difetto, se si poteva chiamare tale, era il naso leggermente ricurvo che tuttavia le conferiva un fascino rinascimentale.

Il messo la ricordava bene: tre lustri prima d'allora, una sera in pizzeria, un compleanno di un amico lui, lei sola, stranamente sola al tavolo (seppe poi che era la sera del suo primo divorzio), i suoi occhi caddero su di lui e viceversa i suoi su di lei, sorrisi, boccali di birra che si levano a distanza ma nello stesso momento a sorseggiare la medesima, amarissima, birra alla spina, lei che si alza, la minigonna nera e i collant che misericordia, e lui, il messo che si alza e come lei va in bagno, anticamera di separazione tra signori e signore, lo specchio, un grande specchio, i lavandini con il rubinetto a pressione del piede, lei coi tacchi che non sa bene far uscire l'acqua, provvidenziali polacchine dal plantare largo lui, sorrisi, lei: «Conosco tuo fratello», lui: «Non importa», lei «Lo sai che hai un bel sorriso?», e lui «Sei sola, bevi qualcosa?», lei: «No, preferisco uscire», lui: «Se vuoi ti accompagno, ho qui la macchina», lei: «Va bene», sportelli che chiudono, «Sai conosco tuo fratello? Siamo stati scuola insieme io e lui», e lui, tra sé: «Che cazzo me ne frega di mio fratello», a lei «Ah sì? Non importa. Sai che mentre bevevi quella birra e io bevevo la mia, pensavo a una cosa», e lei: «Ah sì? A che cosa?», e lui: «Se un bacio può far sparire l'amaro».

Perché era lì Lorena? Quali risposte cercava, quali dilemmi esistenziali era in animo di affrontare ed eventualmente risolvere? La morte di suo padre l'aveva situata in una condizione inedita: occuparsi di sé, dover provvedere a se stessa alla sua età. A parte una casa vacanza in una stazione climatica, a Lorena restava ben poco con cui poter vivere. La vendette, ma i soldi del realizzo furono sufficienti per un paio d'anni per tirare avanti, dopodiché fu costretta a ricordarsi del suo diploma di maestra, fare domanda al provveditorato per entrare in graduatoria per le supplenze e, appunto, andare a lavorare. Scuola dell'infanzia, ex asilo. Ma lavorare stanca. Tre giorni e tre capelli bianchi. Un semestre e i primi sintomi di menopausa. Non sapeva come uscirne. Nondimeno, era l'unico modo al momento che conosceva per sussistere. Esistere era un'altra cosa. L'unica figlia che aveva avuto dal primo matrimonio, oramai maggiorenne, la guardava oramai con la pena di un figlio che, in un certo senso, più che altro si vergogna di quello che la madre è diventata. «Non mi guardare con quella faccia, ti prego», le diceva. «Non ti guardo, mamma, non ti guardo, perché se ti guardo la prossima settimana non vengo, resto da mio padre».


giovedì 29 dicembre 2016

È stato ospite

[*]
Per via indiretta, tramite una citazione estratta da un post di Agnès Giard (Des guêpes mâle folles d'une fleur) e incuriosito dall'argomento, ho comprato il suddetto libro di Stefano Mancuso, scienziato di fama mondiale, una delle massime autorità nel campo della neurobiologia vegetale.
Orbene, il libro è godibilissimo, straordinarie le prime due biografie (George Washington Carver, primo schiavo nero americano a conseguire una laurea negli USA nel 1894 e Nikolaj Ivanovic Vavilov grande genetista agrario al quale Lenin conferì i più prestigiosi incarichi accademici e che poi Stalin, convinto da quel ciarlatano di Lysenko, condannò al gulag).

Unica pecca del libro è nell'aletta posteriore o terza di copertina, nella quale, oltre a citare i meriti accademici dell'autore, 


si segnala anche questa roba.


Egregio professor Mancuso, mi scusi: da un punto di vista agronomico definirlo guano è improprio?

mercoledì 28 dicembre 2016

Il messo (14)

Non c'è soddisfazione a essere innamorati di qualcuno/a che probabilmente non si innamorerà mai di voi tanto quanto voi vi siete innamorati di lui/lei.
E ho detto “tanto quanto”, ma è anche troppo, basterebbe meno, una percentuale minima, poniamo un terzo di quanto voi provate lo possa nutrire anche l'altro/a.
Quando accade è un tripudio dei sensi e dell'intelligenza, una festa della vita, un momento di felicità insindacabile, le stelle diventano significanti e persino le pietre e le cavolaie. Tutto quello che c'è da conoscere è riassunto in un unico punto, nella sola persona che in quegli attimi ti vivifica (attimi che altrimenti vivi un cazzo sarebbero).

Se invece non succede e il vostro amore resta a senso unico, o sarà come a parlare a un muro di marmo finto su cui si infrangono le sillabe del vostro balbo parlare (sillabe che cadranno tutte in terra, come frammenti di vetro colorato), oppure ne sarete in completa balia se costui (o costei) ne intenderà approfittare. E costui, cioè lui, Walter, il pentito, se ne approfittò, eccome se se ne approfittò. Giacché gli fu subito evidente che il peso specifico del mio amore fosse superiore al suo, lui agì di conseguenza e di conserva, come un tubetto di concentrato in mano a un tirchio dura un anno a forza di mezze unghie rosse aggiunte al sugo scipito - e quel nonnulla che mi dava mi pareva così tanto, che adesso il tutto che promette mi pare niente.

E così caddi, come una morta di sonno cade, più che tra le sue braccia, tra i suoi debiti e i suoi scongiuri. Non ebbi molto tempo per riflettere e difendermi: due gravidanze a raffica – e nemmeno troppo facili – mi tennero corpo e mente accesi giusto il necessario per diffondere la specie. Meno la male la mia famiglia mi ha costantemente sostenuto, il che implicava sostenere persino lui. Mio padre... Ricordo che mai disse una parola per metterlo in cattiva luce ai miei occhi, neanche quando gli comunicai l'intenzione del divorzio; contrasse giusto un po' le labbra, si schiarì la voce da un'improbabile raucedine, e si avviò verso la tromba delle scale. Solo quando chiusi la porta dietro le sue spalle e osai mettere occhio nello spioncino, lo vidi esultare a braccia levate.


Perché sono qui insieme a Walter allora se non intendo assolutamente venire incontro alle sue richieste? Per ribadirlo con più forza davanti a lui e a voi che conosco da poche ore e che in un certo senso sarete la nostra giuria. Già, un gruppo che certifichi - come io credo e spero - la fine definitiva di un amore, che la avalli emettendo una sentenza che faccia letteratura. Letteratura d'appendice, beninteso.

martedì 27 dicembre 2016

Una storiaccia italiana

Alcuni anni fa il Monte dei Paschi di Siena si faceva pubblicità utilizzando una canzone di Paolo Conte, Gli impermeabili.


Dato che, da un po' di tempo, piove poco bene sui paschi senesi, suggerirei d'investire gli ultimi spiccioli destinati alla promozione del marchio in un nuovo spot, che abbia, come colonna sonora, un'altra canzone di Paolo Conte, La ricostruzione del Mocambo.


Anche se il curatore (che di sicuro non è un buon diavolo) difficilmente offrirà un caffè. 

lunedì 26 dicembre 2016

Il messo (13)

«Perché sono qui? Mah... Ho smesso di bere, sono riuscito a liberarmi dall'alcol, a disintossicarmi grazie all'aiuto del gruppo AA e del Campral. Ecco: forse sono qui perché vorrei capire se, raggiunto questo obbiettivo, questa calma, questa vita di carciofi lessi succhi freschi e a letto presto addormentato con una penna in mano che tenta di riempire le caselle di un teatro giapponese, capire insomma, grazie questo gruppo radunato qui per vari motivi, se posso chiederle perdono, a lei che ho fatto di tutto per allontanare dalla mia vita, complicandogliela a non finire, trascinandola dentro la mia dipendenza, le mie pretese assurde, il mio sconfinato egocentrismo».

Era Walter a parlare. Dopo la chiusura del ristorante macrobiotico di cui era stato titolare, aveva vissuto (mangiato e bevuto) per due anni – felicemente, sembrava – all'incontrario di come si era imposto di vivere nei precedenti cinque: dopo il matrimonio con Paola, abbracciò il rigore alimentare della dieta Ohsawa, aprì appunto il ristorante (grazie ai soldi di lei) ed ebbe un discreto successo, ma poi, di colpo, il declino: un'ispezione sanitaria che notificò delle irregolarità nello stoccaggio e nella somministrazione degli alimenti, unito alla perdita graduale della clientela, lo portarono inevitabilmente alla chiusura dell'esercizio. Spiazzato e senza prospettive, cadde in una profonda depressione; la moglie chiese e ottenne la separazione e lui abbracciò il gusto del Pampero – cosa, quest'ultima, che lo precipitò, bicchiere dopo bicchiere, ai confini dell'estremo Yin.

Fu in tale stato che raccolse un seme del suo opposto, lo Yang, e con esso la forza di ritrovare stabilità ed equilibrio. In capo a pochi mesi – divenuto responsabile agli acquisti per la catena di supermercati Natura Forse – aveva in animo di chiedere a sua moglie di tornare insieme. Ma come? Lei aveva sempre rifiutato di ascoltarlo, ma questa volta non aveva potuto negarsi, dato che era lì, a testa bassa, ma lì.

domenica 25 dicembre 2016

Il messo (12)

«Mi ricordo – ma forse mi ricordo male – una sera di Natale, su per giù intorno ai venti, ventidue anni, mi ritrovai solo in casa, semisdraiato su un divano rivestito da una tela chiara sulla quale erano tinteggiati dei fiori, forse rose dai lunghi gambi verdi pieni di spine – e io mi punsi – e piansi, sì, mi ricordo che quella sera piansi, per cosa non mi ricordo bene, non credo che Gesù c'entrasse molto, forse un amore andato a male come una banana di tre giorni sopra un termosifone, tutta nera, che se la butti nella spazzatura sovrasta tutti gli odori, ho detto odori per tenerezza di quell'amore, meno di me stesso, che mi sto inventando una ragione per la quale mi ritrovai a piangere, perché io mi ricordo bene il pianto, meno il movente, l'amore che va a male di solito fa piangere, è un pretesto, più probabilmente era la solitudine, ma neanche, il clima natalizio, ovviamente, la finzione atmosferica, le tipiche trasmissioni televisive natalizie, le musichette, il suono delle campane delle chiese, l'amore per mia madre che non riusciva a staccarsi da mia madre, a decollare, io decollato, staccato come ombra da terra dalla famiglia pur non volando, io che non ho mai capito a fondo l'attaccamento alla tradizione, così soffocante, così pretenzioso, irrispettoso degli umori e degli amori, costringente, e forse la vera ragione per cui piangevo era che non riuscivo, come adesso, a parteciparvi con un minimo di convinzione, a predisporre l'animo al flusso della convenzione – e ho trovato tutto questo sempre poco conveniente, poco confacente, non mi si confà neanche adesso, ma faccio poche storie, forse perché a piangere son diventato duro, perché il divano non è a fiori, gli anni sono raddoppiati e non lascio più banane sul radiatore, le mangio subito».

Così Giampiero, tutto d'un fiato, si presentò agli altri, concludendo con un sorriso disteso, come quello che comunemente si nota nelle persone che non hanno più niente da nascondere. Consulente aziendale e capo area di una nota casa farmaceutica, dopo pochi anni di matrimonio, una coppia di gemelli e la voglia di sparire, aveva confessato alla moglie la propria omosessualità e lei, forse perché lo amava, forse perché aveva fatto uno più uno, non l'aveva buttato fuori casa (in pratica, per lavoro, era fuori casa almeno otto mesi all'anno), gli aveva chiesto soltanto di attendere a rivelare ai figli la propria “diversità” almeno finché non fossero stati grandi (e il problema, tra loro, era stabilire a che età lo sarebbero diventati). Lui, perché in fondo le voleva bene, aveva accettato l'accordo ma viveva adesso un momento di crisi perché i bambini facevano la quinta elementare e lui non voleva loro nascondere più niente, sopratutto temeva che avessero saputo di rinterzo qualcosa che avrebbe trasformato la fiducia filiale in una profonda delusione.

venerdì 23 dicembre 2016

Mamma guarda sono in tv


Seguo con poca attenzione le dinamiche giornalistiche, per cui mi posso sbagliare dicendo che i quotidiani esteri, diversamente dalla stampa italiana, ad ogni evento di un certo peso mediatico che riguarda la nazione, non si peritano di pubblicare la più provinciale (in senso denigratorio) delle rubriche che è quella di mostrare, con copiose immagini, come i siti stranieri, anche quelli turchi, o coreani, o cinesi si occupano della notizia. Ma chi davvero è interessato a sapere come il Berliner Morgenpost, o il Telegraph, o Usa Today, o il Jornal do Brasil, o El Mundo, o Le Figaro, o il Vancouver Sun posizionano sul loro sito la notizia del fatto occorso a Sesto San Giovanni? 
È probabile che l'intento dei nostri quotidiani online non sia tanto documentare le altrui opinioni, bensì serva a instillare nel pubblico un orgoglio patrio fuori luogo, perché è davvero puerile compiacersi delle attenzioni altrui pubblicamente; ed è altresì penoso andare fieri d'aver raggiunto una copertura mediatica globale per un fatto che, tutto sommato, dovrebbe essere destinato tra i trafiletti di cronoca nera (meno male le facce selfate dei polizziotti con due zeta, mentre fanno il segno di vittoria accanto al collega disteso sul letto di ospedale, sono state poco o punto riprodotte dalla stampa estera, forse perché hanno più rispetto loro del nostro Paese di quanto ne abbiano i poeri giornalisti nostrani).

giovedì 22 dicembre 2016

Di cosa parliamo quando parliamo di letteratura.

Sono infilato dentro una Feltrinelli e c'era tanta gente che faceva di tutto fuorché leggere: mangiare, bere un cappuccino, ascoltare musica, grattarsi un orecchio con la punta di un lapis Ikea ritrovato casualmente in tasca, riscaldarsi, sbadigliare, fare la fila alla cassa, ma neanche un cristo con un libro aperto - e in mezzo a tanta sfiducia nel genere letterario ho preso un Carver a caso e l'ho ingoiato intero come un pellicano.
Una giovane ragazza dai capelli allegri e gli occhi tristi mi ha guardato prima sorpresa poi compiaciuta e mi ha detto: «Eh, meglio codesto che un McChicken». Dato che non si parla con la roba in bocca, non ho risposto, bensì annuito e le ho fatto altresì capire a cenni che, se voleva favorire, ancora qualche copia bella fresca di stampa c'era. Ma ha declinato: «Ancora credo nell'amore, nonostante quello stronzo del mio ragazzo faccia di tutto per non farmici credere». Avrei potuto dirle: «Dagli retta», ma non ho voluto, in fondo la letteratura nasce dalle circostanze, lo sguardo di una donna, per esempio, che ti tiene sospeso tra la terra e il cielo, a mezz'aria, in una condizione in cui è facile presentire l'oltre, ma quale oltre, il qui, ma quale qui, l'ora, eccola, e sia.
È in tale stato di grazia che può accadere di tutto, anche di salire sopra un treno sbagliato dove ti addormenti per digerire quello che hai letto, voglio dire quello che hai mangiato, quello che è entrato a far parte di te con un semplice scorrere dita tra le pagine. Poi quando ti svegli e ti accorgi che sei arrivato nella stazione sbagliata, capisci l'ovvio, che ciò che conta è il viaggio, ossia raccontarsi, anche lasciando i discorsi a mezzo, ogni volta ripresi ripartendo da quel punto nello spazio (una stella?) dove abbiamo lasciato appeso il filo del discorso.

mercoledì 21 dicembre 2016

A targhe alterne

A giorni alterni lascio traccia di me stesso sugli specchi delle vetrine natalizie per mera suggestione di colorito facciale, essendo il grigio del cielo poco adatto a conferire all'umore quella stabilità che occorre per mantenere corretti rapporti umani, all'insegna della pacatezza, della riflessione, della disposizione a non mandare affanculo il prossimo qualora sembrasse necessario essere mandato, bensì mi limito ad alzare le spalle, arcuare le sopracciglia e disporre il volto arlecchinato dalle lampadine a led a guisa di chi ha capito con chi ha a che fare e che quindi non importa buttare fuori imprecazioni invano, culi e cazzi a sproposito, lasciarli al loro posto, nelle sedi deputate, congressi di partito in special modo. 
Ingoio, ma relativamente. Piuttosto volgo le labbra al riso, e faccio fuoriuscire dai denti un sibilo leggero, soave, uno sbuffo: e la rabbia vanisce, o meglio: non ha luogo, ché arrabbiarsi sottende un umore maldisposto in partenza e io sono partito benissimo, fatto barba, unto come un melograno di argano, e via, fresco e profumato di lavanda. Maniere semplici per resistere.

lunedì 19 dicembre 2016

Il messo (11)

«Trova un modo per cui io non abbia più bisogno di te, un modo per allontanarmi e liberarti, incamminarti, questa volta da sola, senza che io sia più la tua ombra, il tuo freno, il tuo sacrificio. Sacrificami, ti prego, lasciami andare: non sopporto più il contrario, che sia tu sacrificata, tu la vittima e io, in un certo senso, il carnefice. Voglio soltanto che tu possa ancora volermi bene senza obblighi filiali che tengano, andando via, via da me, via da questa situazione. Se tua madre vedesse quanta vita mi hai donato, mi maledirebbe e io non posso più tollerare questo. Vai, dunque, lasciami al mio destino. E se il senso di colpa o di dovere avrà la meglio, sarò io a scioglierlo con la varichina».

«Babbo, babbino: preferisci l'Ace o quella della Coop?».

Così rispose Valeria a suo padre, per tirarlo su, per fargli capire che era tutto a posto, lei aveva un lavoro che poteva permettersi di pagargli la retta della Residenza sanitaria assistita nella quale era ricoverato. Valeria era rimasta orfana di madre quando aveva appena sei anni e il padre non si era mai riaccompagnato cercando – riuscendoci – di fare del suo meglio. Lei sinceramente avrebbe desiderato stare più tempo accanto al padre, ma gli impegni erano tanti, la famiglia, il lavoro appunto, e quindi si limitava a una regolare visita nel fine settimana. E in quelle occasioni, regolarmente, il padre recitava la medesima pantomina di coloro che reclamano attenzione di rinterzo.
Il problema fu che la battuta di Valeria fu presa sul serio dal padre che, alla prima occasione in cui il personale delle pulizie lasciò incustodito lo sgabuzzino, vi si precipitò e si scolò un litro intero di varechina per uso professionale.

Per questo Valeria, come ulteriore tribunale della coscienza, si iscrisse al corso del prete, per sapere se in quel suo incauto invito vi fossero gli estremi esistenziali del parricidio.

domenica 18 dicembre 2016

Il messo (10)

C'è solo un modo per dire addio alla vita: morire. Ma quando indugiò per un'ultima volta allo specchio per salutarsi, Federico dette un pugno alla faccia, cioè allo specchio e la vita gli restò addosso, nonostante avesse previsto il contrario. Eppure era tutto pronto, il bagno pieno del vapore della vasca colma d'acqua calda, una lametta nuova di acciaio giapponese, Ok, Computer a palla nelle cuffie, i ricordi che si susseguivano sulla retina in sequenza confusa, i volti delle persone care e delle persone stronze, tutto. Era tutto pronto, sì, tranne il movente. Non aveva alcuna ragione concreta per morire, non certo il divorzio ormai passato in giudicato, non certo l'essere al momento disoccupato e sotto sfratto, non l'avere i genitori anziani e bisognosi di cure e assistenza. Uccidersi per fatica e per miseria non vale proprio la pena, si disse, considerato che fatica e miseria uccidono da sole. In realtà, Federico voleva morire perché non sopportava più di vivere in quella perenne condizione di non sapere mai esattamente che cosa volere – e non soltanto perché doveva necessariamente tenere a bada molti desideri che non poteva esaudire. Lui non aveva ancora capito che cosa ci stesse a fare nel mondo, ecco tutto. E nemmeno i figli, che da un anno non gli parlavano, gli sembravano rappresentare un motivo sufficiente. Negli ultimi tempi, gli capitava spesso di chiedere ai genitori anziani, ma ancora lucidi, se ricordavano perché lo avessero messo al mondo, se fu concepito volutamente oppure casualmente, e che cosa pensarono quando nacque, se furono soddisfatti di com'era oppure no. La madre gli disse sottovoce che suo padre avrebbe preferito una bambina, il padre le disse ma che dici volevo proprio lui. Federico concluse che non avrebbe mai saputo da loro quello che voleva, ma non aveva importanza, in fondo tutti i nati prima o poi si assumono da soli la responsabilità di esserlo.
Fu questo senso di responsabilità, forse, a trattenerlo. E mentre ricordava agli altri convenuti il momento in cui dispose la lametta nel rasoio di sicurezza e si fece la barba, tranquillo, Federico disse a tutti che era lì per quello, per evitare di ricadere nella trappola del niente che indebitamente ci si autoinfligge, nonostante a volte se ne abbiano tutte le ragioni.


venerdì 16 dicembre 2016

Tre etti di politica

Sentivo che c'era qualcosa che non andava. Mi sono pesato e ho constatato di aver perso almeno tre etti di passione politica. Allarmato, per due settimane ho ripreso a leggere tutte le notizie in merito, gli articoli dei vari Verderami, i fondi dei soliti Folli - tutti notisti politici scrupolosi e informatissimi - ma, ciò nonostante, neppure un grammo ho ripreso. Non assimilo più niente, non mi resta attaccata addosso neanche una frase collosa, da manifesto elettorale. Che sia intollerante alla politica? Nel caso: esistono test specifici che lo dimostrino, preferibilmente non invasivi? La chiropolitica è possibile a parte i soliti maneggi?

giovedì 15 dicembre 2016

Il messo (9)

L'università finì prima di quanto immaginasse. L'idea stessa di andare fuori corso le sembrava fuori luogo. Si laureò con una tesi su La ragazza Carla che le fece capire la sua esatta posizione nel mondo: conobbe un trentenne figlio di ricchi commercianti della capitale, gentile, carino, appassionato che la fece divertire e dimenticare il verso libero. Dopo un paio di mesi di frequentazione serrata, le chiese di andare a vivere con lui proprio un attimo prima che sua madre le dicesse quanto sarebbe stato meglio per lei non farselo scappare. In capo a un anno si sposò, stette bene un altro anno pure nel quale si avventurò persino nell'apertura di un negozio di profumi e creme di bellezza naturali, tutta roba di nicchia, che chiuse appena tre mesi dopo, felice, insieme alla porta dell'appartamento nel quale trovò il marito a letto con una sua ex compagna di liceo.
Benissimo Isabella, benissimo. Punto e a capo.
Ritornando a casa, più che sentirsi triste, provò come mai prima di allora un senso assoluto di libertà. Era finalmente lei - si diceva - e sorrideva da sola nel cammino. Aveva tante cose in mente da fare, senza urgenza, solo per il puro piacere di farle. Un vero e proprio anno sabbatico di piaceri si era programmato.
Fu a Dublino, nel ripercorrere da sola le strade di Leopold Bloom, ma soprattutto per ripetersi il monologo di Molly, che ebbe il primo segno che qualcosa stava cambiando. Si sentì male e fu ricoverata d'urgenza: emorragia uterina. Diagnosi: neoplasia.
Ritornò a casa e lì si rintanò, uscendo solo per le cure e sporadiche passeggiate solitarie o in compagnia dei genitori. Fu la madre a convincerla a partecipare al corso perché stimava il prete e sentiva parlare bene tutti dell'esperienza.
Di se stessa, presentandosi ai convenuti, raccontò soltanto che era una appassionata di teatro, un po' meno della vita perché in essa la parte che si recita è difficile, difficile da cambiare.

martedì 13 dicembre 2016

Il messo (8)

Isabella era una ragazza alta, bella, bella veramente. Portava spesso i capelli raccolti, trascurata eleganza di chi sapeva che, al momento di scioglierli, ben pochi si sarebbero distratti per perdersi tale spettacolo.
Figlia di un industriale della carta, aveva quindi sempre vissuto negli agi del capitale: buona famiglia, buoni amici, buone scuole, buono tutto, quasi a sfiorare l'optimus se non fosse stato per il suo animo inquieto, l'irragionevole passione per Camus e la costante voglia di contraddire quello che i suoi speravano un giorno sarebbe diventata.

Dopo il liceo, si era iscritta a lettere, più che altro per approfondire una passione, lei veramente sì senza intenzione di diventare un giorno insegnante per ripiego. Un semestre seguì il corso di Storia del teatro che prevedeva un seminario con un affermato autore e regista italiano, comprensivo di una tre giorni full immersion in un piccolo teatro di provincia per le prove e un agriturismo per il resto.
Ancora ricordava con piacere quella sera in cui lei, insieme ai suoi compagni del corso, si ritrovò allo stesso tavolo degli attori e del regista. Dato che provavano a mettere in scena gli Atti senza parole di Beckett, mangiarono tutti all'insegna del silenzio. Interrotto soltanto dal sibilo di un peto che qualcuno improvvidamente non seppe trattenere (e soltanto quando il regista rise, tutti gli altri, compreso il professore ordinario, risero). Così come ricordava la prima sera nell'unica camerata riservata agli studenti. A lei, che si era attardata a entrare in camera, toccò dividere l'unico letto matrimoniale, enorme, con un compagno di corso più giovane, impacciato e taciturno, sicuramente più soddisfatto di lei della prospettiva. Quando si infilarono dentro le lenzuola fredde e umide, il giovane timidamente le disse che era la prima volta dai tempi in cui andava a letto da piccolo con la madre, che non dormiva con una donna.
Isabella più che lusingata cominciò leggermente a preoccuparsi e come mossa di difesa, si distanziò nell'angolo del letto. Ma questo non bastò a farle prendere sonno; e come lei, neanche il giovane dormiva. Dopo una mezzoretta, forse per l'agitazione che entrambi giustamente percepivano nell'altro (oltre che in se stessi), il giovane ebbe l'ardire di chiederle: «Posso tenerti un gomito per addormentarmi?». Isabella, forse presa dalla pena per il giovane compagno, ma forse più perché le era preso freddo, rispose di sì e la prima ad addormentarsi fu lei.

[continua presentazione Isabella]

lunedì 12 dicembre 2016

Un governo del Ka

«Chi è Ka?» si domanda l’immenso uccello Garuda, sprofondato tra le fronde dell’albero Rauhina, quando incontra questo nome alla fine di un inno dei Veda. Ka è il nome segreto di Prajapati, il Progenitore, colui che ha dato origine ai trentatré dèi e agli innumerevoli uomini. [via]

Che l'Italia sia un paese solido e serio lo si vede in questi frangenti: cade un governo per via di uno scossone elettorale e, in men che non si dica, se ne fa un altro, veloce, veloce, a mala pena otto giorni di horror vacui e poi, zacchete, ti scappa un Gentiloni con una lista dei ministri coi fiocchi, persone egregie, esimie, pregiatissime e lodevoli, sicuramente preparate per l'arduo compito che li aspetta, quello di amministrare, da ministri della Repubblica italiana, un settore specifico in cui si esercitare il potere esecutivo. Quello che spiace, obiettivamente, è che tra i tanti particolari rami dell'amministrazione pubblica italiana, non sia stato inaugurato neanche questa volta - e tanta sarebbe stata l'urgenza - il Ministero agli Affari del Ka, con una particolare delega a quello di cane. Capisco benissimo che gli Affari Esteri, gli Affari Regionali, la Cultura, lo Sport, la Coesione Territoriale e, soprattutto, lo Sviluppo, abbiano il loro perché. Ma anche gli Affari del Ka, soprattutto quello di cane, hanno il loro per come. 

domenica 11 dicembre 2016

Il messo (7)

Dopo Carlo, fu naturale per Marcello presentarsi; erano come fratelli loro due: coetanei, tranne le medie, sempre a scuola insieme, fino all'anno in cui entrambi si laurearono con lo stesso professore. Soltanto che Marcello, dopo anni di fatica sua e della famiglia che lo sosteneva, giocò subito la carta della tranquillità: concorso pubblico per ricoprire l'incarico di Direttore dell'Ufficio Edilizia del capoluogo di provincia dove risiedevano. E lo vinse. Chissà per quale fortunata congiunzione astrale (l'ipotesi più accreditata era la seguente: il suo precedessore era stato condannato per abuso d'ufficio e la nuova amministrazione comunale aveva il pallino dell'onestà).

Marcello era un vero e proprio castrone. In molti sospettavano – forse non a torto – che non avesse mai avuto un rapporto sessuale con una donna. Non che fosse omosessuale, affatto. È che non era mai riuscito a concretizzare una amicizia con una scopata. E quindi con l'amore. In realtà non aveva mai capito che cosa venisse prima: o scopare o l'amore, o forse venivano insieme, chissà. Era tanto gioviale con tutti, in particolare con tutte. Aveva un sacco di amicizie femminili: tutte le ex compagne del liceo lo invitavano periodicamente a cena, o al cinema, ma nessuna che gli avesse espresso il desiderio di andare a letto con lui: sembrava che non avessero davanti un uomo, ma un orso sorridente e confidente, e con quel comportamento, con quella fiducia che gli dimostravano lui non aveva mai avuto un'erezione, un momento in cui, per una volta, le labbra da sorridenti si fossero disposte nella dichiarata voglia di spiccare un bacio o di riceverlo. Una sola volta, alla festa per la maturità, durante il classico gioco della bottiglia, la più esuberante di tutta la classe gli mise una mano sulle palle, ma fu più una botta che una carezza e lui, in quel caso, rimase lì davanti a tutti come un allocco senza neanche replicare con una legittima – e forse anche attesa dall'interessata – palpatina di tette. Gli amici più intimi, compreso Carlo, avevano provato a dargli dei suggerimenti indiretti, senza mortificarlo troppo (era l'unico modo per farlo diventare triste, quello di insegnargli come fare a rimorchiare). Un giorno organizzarono anche un addio al celibato con tanto di spogliarellista escort – ma non ci fu verso: per non buttare via i soldi spesi, toccò proprio al futuro sposo approfittarne (e dire che si sarebbe volentieri sacrificato per Marcello).

La ragione per cui si trovava lì in quel consesso di persone che stimavano ritrovare un senso alla propria vita? Non lo sapeva neanche lui. Non riusciva neanche a esprimerlo come desiderio quello di incontrare una compagna di vita. E sicché, dopo aver ripetuto sorridendo chi era e quello che faceva, disse semplicemente che era in compagnia di Carlo e che gli piaceva l'idea di conoscere nuove persone.
«Dunque, tu non sei venuto per te stesso», gli chiese il prete con garbo.
«Beh, no: me stesso... tutti i giorni ho a che fare con me stesso».

Juliana, poco distante, sorrise per la prima volta.

sabato 10 dicembre 2016

Il messo (6)

Proseguendo nelle presentazioni, fu il turno di Carlo, ingegnere trentunenne, il quale, dopo aver superato l'esame di Stato, fece domanda di assunzione presso una multinazionale di idrocarburi, ebbe un colloquio e, immediatamente, una proposta di lavoro: due anni in Arabia Saudita, responsabile tecnico in seconda di un importante giacimento petrolifero.
E questa era la ragione per cui si trovava lì a questo corso: capire se accettare o meno quell'incarico, anche alla luce del fatto che Irene no, non l'avrebbe seguito: lei era stata chiara, «io non ci vengo in quel paese di beduini dove tocca mettersi il velo e vivere perennemente dentro stanze con l'aria condizionata. Mi dispiace, solo l'idea mi atterrisce: non voglio chiudermi in un carcere nonostante ti voglia bene e forse anche di più. Vai da solo; io diciamo che ti aspetto, quando tornerai nei giorni di permesso che ti saranno concessi».

Carlo amava Irene, sicuramente più di quanto lei amasse lui. Lui la incontrò in un periodo per lei triste, da depressione: era stata lasciata dopo otto anni di fidanzamento da uno che faceva teatro, sia come attore che come regista. Costui aveva messo incinta una ragazza più giovane che partecipava ai suoi corsi di recitazione, e l'unico modo che ebbe per salvarsi la coscienza e la reputazione fu sposarla (tale ragazza, tra l'altro, apparteneva a una famiglia facoltosa che in qualche modo - pensava, da bravo stronzo - avrebbe agevolato le sue velleità teatrali). 
Fu in quel periodo che Irene si prefissò l'obiettivo di incontrare qualcuno che con le fisime e le finzioni artistiche non avesse niente a che fare, uno concreto, che costruisse ponti e non facesse il buffone alle inaugurazioni degli stessi, o li decorasse con banderuole che stanno appiccicate con lo sputo.

Carlo, quando i raggi del sorriso triste di Irene si posarono sul suo viso, decise che era tempo di spuntare dal sottosuolo del calcolo differenziale, completare veloce la tesi, dare quanto prima l'Esame di Stato, avviarsi nella professione e chiederle di... Ma adesso c'era di mezzo l'Arabia Saudita: una proposta difficile da rifiutare per la prospettiva di carriera e lo stipendio che concedeva; ma altrettanto difficile era per lui staccarsi da Irene, forse perché dentro sé presentiva che, partendo, anche lei sarebbe partita: in un'altra direzione.


«Decidersi», poi, era uno degli argomenti oggetto del corso cui aveva aderito.

venerdì 9 dicembre 2016

Normale amministrazione

Tra i vari motivi per cui i partiti che prima hanno sostenuto il governo Renzi adesso sono pronti a sostenere un nuovo governo, il principale è che loro forza parlamentare con nuove elezioni sarebbe meno forte, non godrebbe più dello steroide incostituzionale del premio di maggioranza ottenuto col porcellum – chissà perché nessun esponente piddino ricorda tale vulnus; di più: sai che prefica sarebbe se il premio l'avesse avuto Forza Italia o il Cinquestelle, peggio della Wada che lancia accuse di doping agli atleti russi.

A questo si riduce l'urgenza di un nuovo governo, altro che le scadenze e gli impegni internazionali e istituzionali, altro che rispettare il desiderio mattarelliano di non commettere il parricidio di sciogliere lo stesso Parlamento che lo elesse al Quirinale.

E dunque entri in scena un nuovo presidente del consiglio (Gentiloni?) a recitare l'epilogo di una legislatura nata male e cresciuta peggio, legislatura che ha confermato – per quanto mi riguarda definitivamente (meglio tardi che mai, lo so, lo so) – a che cosa si riduce ogni velleità riformista: giochini di potere, salvaguardia di determinati interessi, elemosine calmieranti. Normale amministrazione.

giovedì 8 dicembre 2016

Il messo (5)

La seconda a presentarsi fu Juliana, una trentenne originaria del Brasile, divenuta italiana dopo il matrimonio e ancora formalmente coniugata (anche se non vedeva il marito da più di un anno).
Aveva appena diciott'anni quando arrivò in Italia, ospite di una cugina di età maggiore, in Italia per aver sposato un vedovo, zio del suo futuro sposo. Dieci anni di faticosa vita coniugale con uno spiantato alla ricerca di una professione stabile e redditizia: due figli, tre traslochi in tre città diverse, più un anno intero trascorso a casa dei suoceri perché non avevano altro modo per tirare avanti. Ma lei aveva resistito, mai si era persa d'animo perché era profondamente innamorata di suo marito. Stava bene, nonostante i freddi invernali a cui non era abituata, e il fatto – secondario anche rispetto al clima – di non avere vicino la madre (madre che si era risposata e aveva avuto altri figli dopo la morte del padre di Juliana).
Poi tutto le crollò addosso, anche la fatica. Lui aveva abbandonato il tetto coniugale per andarsene – le aveva detto – «in cerca di me stesso». E lei: «Per cercare te stesso, brutto stronzo, mi lasci sola con due figli da badare e senza un quattrino per andare avanti?» Niente da fare: egli raccolse a mala pena un cambio biancheria (manco dovesse andare in paradiso), dette un bacio a piccoli, e disse «addio, addio, spero un giorno mi perdonerete».
«Col cazzo», ripeté più volte Juliana dopo che lui chiuse dietro di sé la porta. E infatti, dopo poche settimane, lei seppe che il marito, più che cercare se stesso, e trovarsi, trovò (Juliana tuttavia non seppe mai quanto cercando) una tedesca venticinquenne, figlia di un dirigente della Miele, la quale, ribellandosi ai progetti paterni, era fuggita in Italia con l'idea di diventare apicultrice – accorgendosi soltanto qualche tempo dopo, che è difficile sfuggire veramente dalla morsa del patriarcato – e lui, dato che tra i mille lavoretti svolti, aveva fatto tre mesi in un'azienda di produzione e confezionamento del miele, si offrì di accompagnarla nel progetto.
Così Juliana era rimasta sola, anzi no: con due figli da crescere, accudire, educare, sostenere. Per i primi tempi, lo zio di lui e la cugina le trovarono un impiego presso una cooperativa di servizi, a pulire locali e uffici pubblici la mattina all'alba (dalle 5 alle 7,30) oppure la sera, dopo il tramonto. La mattina ce la faceva a ritornare in tempo, svegliare i figli e spedirli a scuola. La sera era costretta a chiuderli in casa da soli, almeno sino verso le 22,30, ora del suo ritorno.
A convincerla a partecipare a tale corso fu il prete – ogni tanto andava persino da lui a pulire la canonica. Le volte che lo faceva, incontrava persone sorridenti e dall'aspetto sereno, che la salutavano con garbo e simpatia. Così per quel finesettimana si organizzò chiedendo alla cugina se per una volta una poteva guardare i bambini perché aveva un urgente bisogno di ritornare a sorridere.

martedì 6 dicembre 2016

Voglio vederti danzare

Premesso che contro la crisi generale e storica del capitalismo non ci sono soluzioni parlamentari che tengano; e premesso, altresì che l'Italia, nella contesa mercantilistica globale, svolge il suo bel ruolo di danzatrice pole dance che si struscia e contorce al palo cercando di farsi inserire nell'elastico del tanga qualche soldo da quei porconi del capitalismo internazionale, mi piace suggerire quello che, a mio avviso, nell'agone democratico attuale sarebbe la soluzione politica preferibile, soprattutto in questa fase tra il lusco e il brusco, dove non si sa bene quale fazione abbia più seguito e riscontro popolare: andare a votare con un sistema proporzionale puro senza alcuno sbarramento, sì da comporre una sorta di nuova Assemblea costituente per... per fare che? 
Ballare.

lunedì 5 dicembre 2016

Il messo (4)


Il primo a presentarsi fu Giulio, un trentenne bancario con prospettiva di carriera, dato che suo padre era un dirigente importante della Cassa di Risparmio dove lavorava. Introducendo la sua storia, egli si limitò all'essenziale, come se i suoi interlocutori non fossero stati altro che appuntati dei carabinieri che trascrivevano le generalità dell'interrogato. Ma quando ebbe a dichiarare le ragioni per cui si trovava lì in quel consesso di individui in crisi esistenziale, dovette confessare che la sua fidanzata lo aveva lasciato poche settimane prima di sposarsi, dopo che avevano preparato tutto, compresa la casa nella quale avevano deciso di andare a abitare. Oramai era trascorso più di un anno da quel momento, ma niente, lui ancora non l'aveva superato, nonostante la casa l'avessero facilmente rivenduta, e il viaggio di nozze prenotato lo avesse fatto lui, insieme a un amico, California e Hawaii, due settimane di distrazioni e piaceri che lo avevano sprofondato in piena depressione. Perché si trovava lì? Per capire. Capire se ci fosse una via d'uscita, qualcosa che lo aiutasse non tanto a dimenticare, quanto a sgravarsi dalla continua sensazione di fallimento unito a un costante sentimento di rivalsa nei confronti di colei che adesso era felice da un'altra parte, con qualcun altro e di coloro che con uno sguardo appena glielo ricordavano, era così, parenti e amici, lo vedevano quasi sempre nervoso, con quelle labbra all'ingiù, pronto a prendersela per ogni sciocchezza che poteva capitare. Adesso basta. Si era rotto le palle di questa vita inutile, di sonno difficile da prendere e sogni difficili da completare, alzarsi al mattino controvoglia con lo stomaco chiuso e nessun desiderio più.

Che giocatore

«Domani, domani tutto finirà».
Fëdor Dostoevskij, Il giocatore

Dice: «Ho perso» e quindi. Quindi stava giocando. Giocando una partita da solo. Solo perché non ha parlato al plurale, bensì alla prima persona singolare. Singolare ch'egli considerasse la riforma costituzionale proposta una specie di gioco. Gioco che aveva proposto a un Parlamento per sua natura poco costituzionale, giacché formatosi in vizio di una legge elettorale affatto incostituzionale. Incostituzionale era quindi in un certo senso pretendere di giocare la partita sino in fondo, come una sfida personale. Personale perché si è trovato in una posizione di giocatore forzato, buttato in campo da Giorgio Napolitano perché l'ex presidente della repubblica vide in lui,  piuttosto che in Letta, il campione che avrebbe realizzato la riforma della Costituzione meglio di chiunque altro. Altroché.
Dice: «Ho perso» e quindi. Quindi giocava soltanto lui, gli altri al governo erano tutti in panchina, soprattutto i parlamentari che approvarono, a maggioranza qualificata, la riforma bocciata ieri dal referendum, quei parlamentari che dovrebbero rassegnare le dimissioni seduta stante, col cazzo che lo faranno, ancora due anni di pacchia capitolina.
«Capito, Lina?».
Lina: «Sì, ho capito. Capito per esempio che considerare la politica un gioco è una cazzata. Cazzata perché immagina per assurdo se avesse vinto che cosa avrebbe vinto e che cosa la Repubblica italiana avrebbe guadagnato?».
«Guadagnato un cazzo, altroché».

sabato 3 dicembre 2016

Il messo (3)

Non sapeva più da che parte cominciare per definire questo stato: stasi? Ne dubitava: nessun muro, pochi segreti, molte brecce aperte nel suo cuore o nei capelli che si elettrizzavano dopo ogni shampoo ristoratore. Per fortuna il cappello. Anche per i pensieri, certo, che altrimenti sarebbero fuggiti via in sospensione, nell'ozonosfera.
Scese le scale senza molta convinzione, indugiando a ogni gradino per ricordare dove avesse parcheggiato la macchina. La sera prima era ritornato a casa mezzo sbronzo, la colombiana non lo aveva reso felice, solo più aperto. Ubriacarsi fu solo un goffo tentativo di richiudersi in se stesso, del tutto inutile. Dove poteva trovare qualcuno che lo capisse nel profondo? Si ricordò di un prete di campagna che aveva aperto una fraternità cristiana informale, dove mescolava logoterapia e cristianesimo sapienziale. Caso volle che il fine settimana venturo fosse previsto un corso, due giorni, una full immersion di gruppo per meditare sul significato della propria esistenza.
Si trovò in mezzo a quattordici persone, più o meno a lui coetanee, tranne una, una quasi cinquantenne con un neo sul naso e i capelli rossi e ricci lunghissimi. Con lui gli uomini raggiungevano otto unità. Le donne, fate il conto. Tranne tre o quattro, nessuno si conosceva e presentarsi davanti a tutti fu subito una delle prime prove che il corso prevedeva.


venerdì 2 dicembre 2016

Wallpapers for asshole

Sono passato da una piazza, oggi pomeriggio, e c'era un palco appena montato con un maxi schermo dove campeggiava 



Tecnici facevano le prove. «Sì, prova, sì, prova, sì, prova». 
E infatti, un'oretta e mezzo dopo:



Povera Firenze.


Aggiunta veloce, cinque minuti dopo la pubblicazione:
voterò NO, perché mi sembra necessario, per varie ragioni, quelle dette sia da Luigi Castaldi che da Olympe de Gouges. 
Temo che in Toscana i Sì prevarranno. Ma non in forma di plebiscito. Il NO per vincere avrà bisogno di un'alta percentuale di voto nel Settentrione. Se ci sarà basso afflusso in tali regioni, il Sì prevarrà inevitabilmente. 
Nel Meridione il pegno De Luca, purtroppo, darà i suoi crediti.
In sintesi: se la percentuale complessiva dei votanti supererà il 50% il NO dovrebbe vincere.
Viceversa, se l'affluenza sarà bassa, sarà avallata una riforma costituzionale assai pericolosa, difettosa e rognosa.

Per concludere: voterò NO anche per cercare di emendare la gran cazzata di aver votato PD nel 2013. Che stronzo.

giovedì 1 dicembre 2016

Il messo (2)

Perché alberga così tanto nel mio cuore la tua assenza? Ti penso e spero che il pensiero diventi ultrasuono che rimbalzi sul tuo corpo e mi riporti indietro qualcosa in più della tua ombra. E invece, tutto torna indietro, tutto, tranne te. Parafanghi, girasoli, parabole, frigoriferi abbandonati per strada, lucciole e lanterne, zingari infelici e preti senza fissa dimora a spiegare che la vera casa è il cielo. Niente. Pensieri sparati ad alzo zero; e come un pipistrello in un deserto senza ostacoli, perdo l'orientamento. Che penso a fare, dunque, se il pensare non manifesta alcun segno di corrispondenza? Via allora, imbuchiamoli questi pensieri – pensò il giovane messo in una notte che non prendeva sonno e il masturbarsi non gli era d'aiuto – mettiamoci un francobollo sopra e speriamo che giungano quanto prima a colei che aprirà la busta con un'unghia spezzata, butterà uno sguardo spento sulla mia grafia accesa, entrerà in casa, mangerà qualcosa, si farà un caffè, e leggerà le quattro pagine controvoglia, grattandosi un orecchio e controllando poi lo stato del cerume.
Le rivoglio indietro le mie lettere, le rivoglio. Voglio capire se il mio era vero amore o soltanto autocompiacimento, estetica del gesto letterario in vista di futuri posteri appassionati delle epistole d'autore. Non mi dire che lei hai buttate o peggio le hai già vendute a una bancherella di antiquariato

La domanda non ricevette mai risposta. Il giovane messo, un po' meno giovane, dopo un matrimonio venuto male, tre figli meglio (per fortuna), una vita all'estro (cit. Equivoci amici), si chiedeva questo a letto con una transessuale colombiana che si dichiarava pronta a renderlo felice. Felice?  

mercoledì 30 novembre 2016

Il messo

Una storia d'amore. Forse.

Il messo comunale era un giovane trentenne che non sapeva che pesci prendere, per questo non amava pescare. Preferiva leggere, di solito camminando, dieci passi a pagina, in sospensione, ripetendo un giro di frase ben riuscito, un pensiero complesso eracliteo, un verso che riproduceva i variegati colori delle foglie accartocciate in un angolo di strada. Erano momenti particolari, difficilmente condivisibili con altri che con se stesso, ma pazienza. Se per caso qualcuno disturbava tali scorribande solitarie con un colpo di clacson o un vaffanculo stronzo, anvedi dove metti i piedi, non se dava pena, perché faceva parte del gioco costruirsi una personalità sociale, per un giovane che non ne aveva una, bella definita, un giovane che non amava pescare o bestemmiare con gli amici alle carte o al gioco di chi ce l'aveva più grosso o lo aveva usato di più.

Un giorno di probabile primavera ma forse autunno e chi si ricorda più, il giovane decise d'un botto di mandarsi a mente tutti i Mottetti montaliani, chissà per fare che, le seghe forse, ma pazienza. Nel mentre provava e riprovava il primo («Lo sai: debbo riperderti e non posso») ecco che s'imbatté, camminando, proprio in colei che l'aveva lasciato, bella stronza, vestita chiara, sorridente e spingente una carrozzina con un pargolo dentro bello paffutello. Ma tu guarda il caso. Come stai, cosa fai, eccetera. La conversazione e la passeggiata proseguirono benissimo: lungofiume, cipressi, platani, panchina, giovani mamme a far giocare i figli alle giostre. Il pargolo dormiva della grossa e lei sorrideva. Il giovane riandò ai momenti in cui lei gli scrisse lettere che gelosamente conservava in camera e sulle quali spendeva lacrime e altre liquidità. Le disse che, nonostante tutto, l'amava ancora. Lei sospirò. Lui sostenne che se per un attimo fossero stati soli soli, senza nessuno in giro, pargoli nemmeno, beh, si sarebbero baciati. Lei lo guardò e non solo convenne, ma aggiunse: «Di più». Venne sera e si salutarono.

L'indomani il giovane posò i Mottetti e andò al bar a bestemmiare con gli amici a briscola tressette e scopa. Non si sa se perse o vinse. Ma pazienza.

martedì 29 novembre 2016

Comunque

«"Se vuoi uccido anche i bambini". "No, i bambini no". E' la conversazione shock - una delle più inquietanti - intercettata dai carabinieri. A parlare al telefono sono "dottor morte" e l'"infermiera killer" . Perché adesso li chiameremo così. Comunque.» [via]

«Sai cara? Il caporedattore mi ha dato l'incarico di occuparmi del caso Dottor morte e Infermiera killer».
«Ma cosa dici? Ma come parli? Vuoi il divorzio?»
«E che sarà mai: tanto li chiameremo così comunque»
«Comunque un cazzo. Te e una considerevole quota di colleghi beoti, nominando così sui giornali e sulle televisioni dei presunti assassini, contribuirete a incrostare la mente di un pubblico già abbastanza rincoglionito da idiomi e stereotipi idioti».
«Ma perché te la prendi così tanto?  Ma non senti quanto il titolo Dottor Morte e Infermiera Killer spacca
«La testa ti spacca, la testa... e qualcos'altro».

lunedì 28 novembre 2016

Fine del brodo

Epilogo

Sono un fiasco come scrittore (!) perché ogni sviluppo mi rimane imbottigliato. Io tento di stapparlo per mescerlo, ma niente, non esce niente, solo due gocce. Soliti problemi di minzione letteraria. Le storie mi sfuggono. I fantasmi non mi vogliono bene, le creature, non essendo un vero creatore, non si rendono da me indipendenti, come quel babbeo di Adamo o quello scaltro di ciocco di legno. 
E così ti abbandono, caro brodo di giuggiole. A cosa serve allungarti? Tanto prima o poi il poeta pubblicherà – a pagamento - un libro di odi da urlo munchiano, che stenderanno di sbadigli e madonne secche gli sprovveduti membri di un'associazione culturale dell'età libera accorsi alla presentazione dello stesso; conoscerà un membro del Rotary locale che gli sarà mentore presso qualche accademia di provincia, e – dipoi – sarà presentato a qualche politico boss locale, a un banchiere, al maresciallo dei carabinieri, al capitano della forestale, alla professoressa di filosofia del vicino liceo, a un prete che però declinerà l'invito alla soirée perché un'ode è dedicata al pelo, a un paio giornalisti di cronaca locale che pubblicheranno un articoletto su misura che sarà letto dai clienti pensionati del bar sport che, al costo di un caffè, spulciano i giornali tutto il giorno per compiacersi di non essere tra gli annunci mortuari. Da cosa nasce cosa. E il poeta crederà di essere poeta, non avrà bisogno di altre certificazioni. La compagna lo accompagnerà trasformando definitivamente la schiavitù in una missione, e la figlia crescerà, diventerà bella, manderà affanculo padre madre e spirito poetico, e prenderà le vie del mondo, sarà lei a decidere quali, purché siano infinite, meno letterarie, più facete.


E il giovane messo comunale? Lasciamolo a bagnomaria.

domenica 27 novembre 2016

Cuba Libre

«Mentre il liberalismo non ha fatto altro che criticare la gestione esteriore e burocratica della società guidata dallo Stato, chiaramente per favorire il mercato e la sua pretesa libertà d'azione, la critica radicale dello Stato di Marx vede nel mercato il rovescio della stessa medaglia: l'autoritarismo dello Stato non è che il pendant complementare dell'autoritarismo del mercato e il totalitarismo politico non è che una manifestazione del totalitarismo economico. Da ogni lato, gli individui non sono liberi perché alla mercé della burocrazia gli uni ed esposti alle potenze della concorrenza anonima gli altri. Mercato e Stato, politica ed economia non sono che le due facce di una situazione sociale paradossale, irrazionale e schizofrenica in cui gli individui si sdoppiano in “homo oeconomicus” e “homo politicus”, in “borghese” e “cittadino” e si trovano dunque in contraddizione con se stessi. Sono figure umane che hanno lo stesso grave difetto e che non si deve utilizzare l'una contro l'altra, ma annullarle in egual misura – certamente facendo di essi degli “individui sociali concreti” unici, come voleva lo stesso Marx nella sua critica del lavoro astratto».

Robert Kurz, Marx Lesen, Frankfurt am Main, 2000, versione francese Lire Marx, Éditions de la Balustrade, Paris 2002 (pag. 165, traduzione dal francese mia).

Tra le baruffe di bassa lega che si sono scatenate in occasione della morte di Fidel Castro, la cosa che più m'impressiona è l'anacronismo.
Nessuno che si accorga di colpire a vuoto, di menare fendenti all'aria, ché l'avversario non esiste. Tutto il mondo tutto – anche quando c'era il muro di Berlino (ma quando c'era era indubbiamente più difficile accorgersene) – è informato da una stessa logica costitutiva: il capitalismo. E la natura del capitalismo, sia esso di Stato o di Mercato, è sempre la stessa, ovunque, perché costretta ovunque dalle medesime leggi: produzione, sfruttamento del lavoro, conquista dei mercati, vendita, accumulazione, e così via, a ripetere, ripetere tuttavia cercando di sfuggire all'ineludibile caduta tendenziale del saggio di profitto.
Quel che più abbiamo da temere, come umani, è che prima del profitto cada la specie.

sabato 26 novembre 2016

Brodo di giuggiole (5)

5
Dal cahier de doléances del poeta-biologo.

«Perché scrivo? Perché mi ostino? Perché vedo là davanti delle ombre che non riesco a definire, figuriamoci ad afferrare? Che siano le parole che mi compongono?
Adenina, Timina, Citosina, Guanina, mie care basi azotate, vi prego, datemi una mano a credere che sono qualcosa in più della somma delle parti.
Lasciatemi libero, nel perimetro concesso. Che lo sforzo compositivo di evoluzione, nel suo incommensurabile svolgimento di ripetizione e variazione, riassuma in me uno scopo che non sia quello del pavone, con il suo pur splendido rituale.
Le mie piume sono in terra, adesso, sbiadite dal guano. Una gallina mugellese ci cammina sopra.»

La solitudine lo stava macerando, lentamente, come vinacce in vinificazione, e senza la certezza di essere un giorno imbottigliato. Più che un ravvedimento nei confronti di colei che aveva mollato tutto pur di stargli accanto (e della figlia che era nata dalla loro unione), fu qualcos'altro che lo spinse a richiamarle a casa, all'incirca un anno dopo, a far loro spazio in quell'eremo che iniziava a soffocarlo come l'interno di un tino in cemento vetrificato.

Questo qualcos'altro erano delle voci, insistenti voci, che lo assalivano di notte impedendogli completamente di chiudere occhio. Se almeno avesse avuto il potere di comprendere quello che dicevano, le voci, egli ne avrebbe potuto approfittare, magari per carpire qualche frase da aggiungere al cahier o meglio da trasformare in endecasillabo sciolto. Come il guano.

giovedì 24 novembre 2016

In memoria





Ho conosciuto Dante attraverso la sua mediazione (e la supervisione di Gianfranco Contini). La sua voce mi ha accompagnato per cento volte cento nei percorsi casa lavoro casa lavoro casa lavoro casa lavoro sogno. Ho provato a emularlo, balbettando Dante a un pubblico benevolente che avrebbe fatto bene a tirarmi una scarpa. L'altra me la tirino ora. 
Penna raffinata, istigatore al vizio della lettura, gran signore.

Grazie Vittorio. Riposa in pace.


________________
P.S.
Dopo aver tentato di registare le puntate direttamente da Radio Tre, (all'epoca il podcast era fantascienza), comprai la raccolta dell'Inferno direttamente dalla Rai, mi sembra intorno all'88 od '89. Ancora non era neanche uscita l'edizione cartacea.Telefonai a via Teulada e, non so più bene attraverso quali fortunati interstizi, trovai l'ufficio giusto. Mi dissero di fare un bonifico, all'incirca di novantanovemila lire. Dopo un mesetto le cassette arrivarono. Ne ho persa una porca puttana. Comunque, se qualcuno fosse interessato a comprarle, le metto all'asta: a novantanovemila euro.

mercoledì 23 novembre 2016

Brodo di giuggiole (4)

4

Fu un parto faticoso. Faticoso più che doloroso, il dolore – anche se tremendo – limitato (!) soprattutto alla fase espulsiva; non riusciva bene a spingere, affatto, tanto che l'ostetrica a un certo punto assunse un tono perentorio, sgridandola, che si desse da fare se non voleva che il nascituro patisse.
Ma lei era sola con degli sconosciuti in quella sala parto di un piccolo ospedale di provincia. Lui non c'era, l'aveva detto, ok, ma fino all'ultimo aveva sperato nella sua presenza. Niente. E che lui ci fosse, per lei, era più importante dell'evento stesso della nascita della sua prima figlia. Non pensava alla bambina, infatti, non provava affatto a immaginarsela, a vederne i lineamenti, a presagire l'effetto di averla in braccio. Anche di come chiamarla non aveva idea, non ci aveva mai pensato.
E adesso che quella creatura era lì addosso a lei, lei non aveva più neanche la forza di un sorriso. Avrebbe voluto soltanto dormire, dormire, morire forse.


L'indomani, quando lui si presentò, non manifestò alcuna sorta di pentimento o rammarico per la situazione. Freddamente, si accertò che lei e la bimba stessero bene, si fece dare i fogli per andare a registrare la neonata e, soltanto dopo dieci passi fatti verso l'uscita, ritornò da lei e chiese: «Come la chiamiamo?»

martedì 22 novembre 2016

Alla ricerca del titano perduto

Invito alla lettura di un post di Fabio Brotto, che si occupa di questioni teologiche alla luce di un'ennesima scoperta astronomica.
Lo faccio, soprattutto, per estrapolare una frase, la seguente:
«Occorrerebbero alla Chiesa dei veri titani del pensiero, adeguati ai tempi. »
Ora, a parte il fatto che stabilire chi sia un titano del pensiero, per chi ne è contemporaneo, non è cosa per niente semplice, a me sembra che anche qualora (miracolosamente?) un titano si presentasse, la Chiesa che cosa se ne farebbe? Lo manderebbe in orbita sulla Stazione Spaziale Internazionale? Si spenderebbe affinché la Nasa o l'Esa o l'Agenzia Spaziale russa (ma forse lassù i teologi li vogliono solo ortodossi) sia accolto nello staff tecnico avanzato? Oppure lo proporrebbe come ambasciatore della Santa Sede al Cern di Ginevra per discutere fitto fitto sul bosone, detto anche, credo impropriamente, particella di Dio?

Mi chiedo questo perché altre possibilità di conciliare la teologia con l'astronomia e la fisica non ne vedo. In fondo, per stare sul classico, bastava (e avanzava) il nostro caro amato Celestino... pardon: Benedetto. Titano titano non sarà stato, nondimeno, teologicamente parlando, rispetto a colui che oggi s'affaccia la domenica, era un gigante. 

lunedì 21 novembre 2016

Brodo di giuggiole (3)

3

«In una sorta d'entusiasmo e di stanchezza tipici della disperazione, comincio questo progetto. Dovrei quindi andare in Danimarca per scrivere qualcosa, dovrei guadagnare un milione. Tre giorni e tre notti di panico e di stitichezza spirituale e corporale. Poi ci ho rinunciato. C'è infatti un punto determinato, in cui l'autodisciplina, che è qualcosa di buono, si trasforma nell'autocostrizione, che è maledettamente dannosa. Ci ho rinunciato, dopo aver scritto due pagine e aver inghiottito una scatola di lassativi...»
Ingmar Bergman, (appunti del 1962), in Immagini, Garzanti, Milano 1992

Se il nostro poeta - già biologo, adesso in pensione - fosse inciampato in questo passo bergmaniano, probabilmente non avrebbe più fatto confusione tra autodisciplina e autocostrizione, e alle perette di camomilla tiepida, avrebbe preferito la dolce euchessina.

Invece niente. Dalla mattina al tramonto, fatto salvo una brevissima pausa per il pranzo, si rintanava nel suo studio, seduto alla scrivania o affacciato alla finestra, e pensava, pensava a quello che doveva scrivere, ombre che gli passavano davanti agli occhi ma che faticosamente riusciva a trasformare in versi.

Per sua fortuna, l'ex assistente, ora compagna, era lontana in quei giorni - l'aveva convinta, abbastanza facilmente, seppur a prezzo di un ulteriore sacrificio economico, a trovare una sistemazione per lei e la bambina, un piccolo monolocale adibito a casa vacanza nei i mesi estivi (adesso libero), giù nel centro del villaggio.

Solo, dunque. La casa intera a disposizione. Silenzio. Un momento ideale per iniziare l'opera.

Un giorno di tardo autunno, dopo aver trascorso ore e ore intento a fissare una moltitudine di vermi spiaggiati sul lastricato di porfido, il Nostro protagonista - al quale ancora dobbiamo dare un nome, ma lasciamola in sospeso la questione per il momento - aveva buttato giù alcuni versi che - immaginava - avrebbero potuto essere il mottetto di apertura della sua prima raccolta. Certo, ancora di molto labor limae abbisognavano; nondimeno, era moderatamente soddisfatto:

Per ammazzare il tempo
un lombrico ammazzo,
l'amico che un giorno
del mio corpo farà scempio.
Una vendetta anticipata
servita su un piatto ancora caldo.

Lo guardo il lombrico sezionato:
una parte spiaccicata sul selciato
da un passo disattento:
non un lamento, non un grido:
che nobile portamento.

Mentre sillabava i versi davanti alla nudità di un salice fradicio di pioggia, sentì un rumore di pneumatici avvicinarsi verso casa. Era un giovane messo notificatore inviato dal comune, che gli portava il certificato elettorale.