sabato 9 gennaio 2016

Prendere al volo i veicoli della disperazione

Sparsi sul globo terracqueo come il pepe e il sale nei piatti della cucina di masterchef, malintenzionati uomini (praticamente solo uomini) a mano armata compiono assalti inneggiando all'Isis.
Molti d'essi, sicuramente, utilizzano il merchandising dello Stato islamico perché è un brand attualmente molto in voga che offre un appiglio motivazionale che, per il momento, non è derubricato, con commiserazione, nelle tipiche patologie mentali che affliggono i giovani maschi depressi e disperati delle periferie del mondo.

Anzi: per quel può valere sentirselo dire da morti, da qualche parte nel mondo c'è chi li santifica e li considera martiri e questo, per le loro vite meschine, è già in sé un indice di elevazione.

Anch'io sono stato un giovane maschio e, un giorno, capitò anche a me d'essere disperato (depresso no, incazzato piuttosto). Ma non fu una disperazione d'amore (che ebbi anch'essa, ma risolsi diversamente, brandendo libri, giusto per dire). Parlo di una disperazione legata a una cocente delusione scolastica.

Veloce, spiego.

Sui quindici anni volevo smettere di andare a scuola. Volevo andare a lavorare da apprendista in qualche fabbrichetta per avere uno stipendio e comprarmi la vespa e portarci qualche ragazza con le poppe belle che, seduta dietro, me le appoggiava sulla schiena. L'unica che avevo portato con simili caratteristiche sul mio Sì Piaggio mi disse, dopo quella unica volta, che il mio motorino era scomodo, molto meglio erano le Vespe (ma com'erano comode le sue poppe).

E per questo volevo assolutamente smettere di studiare. E smisi di studiare a maggio tanto che, in prima liceo, fui bocciato.

Poi, dopo aver fatto tanto bestemmiare i miei genitori e anche per il fatto che non era così semplice trovare un lavoro (i miei coetanei che avevano interrotto gli studi lavoravano tutti chi per il padre, chi per lo zio, chi perché era già robusto abbastanza - non come me - per fare il manovale e fare la calcina), ripresi a studiare. Fu l'anno della svolta, perché trovai un prof d'italiano che mi invogliò allo studio della storia, della politica e della letteratura e m'impegnai tanto che, nel primo quadrimestre, ebbi una bella pagella. 

Poi, vabbè, mi rilassai un po' soprattutto nei confronti delle materie che non m'interessavano, ma a giugno pensavo che, finalmente, sarei stato promosso e avrei fatto contenti i miei genitori.

Quando, appunto a giugno, mi presentai a vedere le liste pubbliche degli scrutini appese alle porte finestre della scuola, vidi che non ero tra i promossi ma che mi avevano dato una materia. Una.
Fu una delusione tremenda che mi gettò in una subitanea disperazione perché non sapevo proprio con che faccia presentarmi davanti ai miei per dirgli quello che era accaduto, dato che si aspettavano quanto e forse più di me che fossi stato promosso.

Teso come una corda di violino, andai letteralmente fuori di testa e la prima cosa che feci fu di sferrare un pugno violento al vetro dov'era affisso il foglio coi risultati, urlando: «Bastardi!».
Uscì subito fuori il bidello che mi disse, chiaramente, «Sei impazzito?».
«No, non sono impazzito: sono una manica di stronzi. Agli ultimi colloqui mi hanno fatto persino i complimenti - per ficcarseli in culo - e adesso eccomi rimandato. Come glielo dico ai miei, adesso?» E giù a piangere e a urlare senza fine: «Bastardi, stronzi, bastardi...».
Una piazzata che radunò uno sparuto pubblico, per fortuna di soli studenti e qualche altrui genitore, comprensibilmente sorpreso e forse divertito dalla situazione. 
Stavo quasi per andarmene, continuando nel mio rosario d'imprecazioni, quando, da una porta laterale, uscì il preside per assistere alla coda della mia folle scenata. 
Il vederlo e l'associarlo alla causa della mia disperazione fu un tutt'uno. Fu forse per questo che, dominato dalla rabbia e desideroso di rivolta, gridai: «Ci vorrebbero le Brigate Rosse».

Dissi proprio così.

Il preside, che conosceva mio padre, gli raccontò personalmente quello che era accaduto e come mi ero espresso e che rischiavo una probabile sospensione.

Per fortuna, le offese rivolte ai docenti non furono loro testimoniate dagli astanti, neanche dal bidello, una brava persona che aveva compreso la situazione. 
Restava la minaccia delle Brigate Rosse. Perché le avevo rammentate? 
Forse volevo solo un marchio riconoscibile che rappresentasse la mia disperazione.

3 commenti:

Marino Voglio ha detto...

gira gira è sempre questione di poppe.
e senza ironia.

Olympe de Gouges ha detto...

tu volevi le poppe a cinque punte

Anonimo ha detto...

@marinovoglio
se è senza ironia, mi permetta di dissentire: il nostro, colla Vespa, intendeva comprare le poppe. Alla fine è sempre questione di soldi.
Saluti, Ale